venerdì 30 marzo 2018

Recensione della trilogia borghese di Deirdre McCloskey





di Alberto Mingardi


Niente forma tanto le nostre opinioni politiche quanto la comprensione della storia. Forse il più influente libro dell’intera tradizione socialista è, The Condition of the Working Class in England, di Friedrich Engels. In quel lavoro, pubblicato quando la collaborazione tra Marx e Engels era agli albori, Engels preparò il terreno per un bel pezzo della futura storiografia. Il libro di Engels è la testimonianza di un borghese tedesco, rimasto scioccato dalle condizioni di vita dei poveri nella Londra del suo tempo.

Nel terzo libro della sua trilogia sui valori della borghesia, la storica dell’economia Deirdre McCloskey ha riconosciuto che lavori come quello di Engels erano una forma di "salutare rottura": “Chiunque legga questo genere di libri, viene strappato dalla comoda ignoranza verso l’altra metà”.

E ancora,

prenderne coscienza non implica perdere la speranza, o peggio prefiggersi di rovesciare il Sistema, se questo alla lunga accresce il benessere tra i poveri ad un tasso ben superiore di quanto fatto da ogni altro Sistema sperimentato fino ad ora (McCloskey 2016, 42).

La trilogia di Deirdre McCloskey (Bourgeois Virtues; Bourgeois Dignity; Bourgeois Equality), ci ricorda incessantemente l’eccezionalità della crescita economica. I tre libri costituiscono una sfida intellettuale volta a rispondere al grande rebus che attanaglia gli storici dell’economica contemporanea: perché è decollata a quel modo la crescita economica, quando precisamente e dove è successo? Perché in Inghilterra? Perché nel diciottesimo secolo?

La risposta della McCloskey è da ora ben conosciuta. Il suo lavoro è imponente, comprende circa 2000 pagine raccolte in tre volumi. A cui vanno aggiunte diverse sue interviste dove quelle tesi sono state succintamente esposte dall’autrice, e un certo numero di articoli specializzati. In poche parole, la sua tesi presuppone che sia la cultura a dirigere ed a creare le condizioni per il cambiamento che poi possono concretizzarsi attraverso lo sviluppo economico. La ricchezza poteva essere creata in dimensioni più estese che mai, ma solo fino a quando tale creazione non fosse stata più percepita come un obiettivo riprovevole.

Questo difficilmente significa che il mondo torni a celebrare come guerrieri e santi gli uomini d’affari, la cui riconoscenza ha assunto i toni celebrativi degli eroi in, Atlas Shrugged, di Ayn Rand. Di ben altra stoffa è lo spirito borghese – una comprensione del lavoro e del commercio più misurata, migliorandosi l’un l’altro attraverso l’acquisto e la vendita – che però ad un certo punto decolla e diventa parte della cultura dominante.

Il primo libro della trilogia Bourgeois Virtues (McCloskey 2006), è organizzato in modo da far recepire al lettore il sostrato etico che possiede il sistema di mercato. Fate attenzione al verbo: possedere, non avere bisogno. Una florida e libera economia di mercato non si sviluppa senza una società che premia le virtù dei borghesi, non solo quelle dei cavalieri. Questo significa la prudenza, il principale carattere del mercante previdente. Ma la prudenza non basta, a chi persegue l’innovazione è richiesto anche il coraggio.

Nel secondo e nel terzo libro della trilogia, Bourgeois Dignity e Bourgeois Equality, emerge con maggior forza il loro essere due parti di uno stesso progetto. La McCloskey qui accentua il ruolo svolto dal commercio “dignitoso” nella costruzione del grande arricchimento; fu un “livellamento” di quella dignità che condusse, attraverso la combinazione delle due forze, alla prosperità. Le persone esprimevano per certo un “egual rispetto” per il loro sforzo, e questo è uno dei due modi in cui la McCloskey utilizza il termine. D’altro canto lei spiega che “quell’uguaglianza” non aveva nulla in comune con l’uguaglianza del risultato, marchio di fabbrica del socialismo, ma piuttosto con l’uguaglianza davanti alla legge: il sovrano non deve discriminare, sebbene lo faccia il mercato. E’ l’uguaglianza “scozzese”, come si espresse in Scozia più che nell’illuminismo francese, “con la sua dura, e seppur tragica, conclusione. Ciò implica uguale compensi per uguali meriti in un mercato dove ognuno, grazie alla libertà di contrattazione, può sempre competere” (McCloskey 2016 XXXII).



Il miglioramento del mondo

Mentre la McCloskey respinge l’uguaglianza dei risultati, evidenzia continuamente come “l’idea dell’uguaglianza della libertà e della dignità per tutti gli uomini abbia causato, e pure salvaguardato, uno stupefacente progresso… materiale” (McCloskey 2016, 403). In questi ultimi due libri, la McCloskey enfatizza come queste idee, questa cultura dell’uguaglianza ben compresa, non sia in conflitto con una paziente e scrupolosa enumerazione dei modi con cui si è esteso “il grande arricchimento”, essendo andato a beneficio proprio dei meno abbienti. Certo, non c’è dubbio ci sia una certa ridondanza nei due volumi. Il lettore, comunque, lo perdonerà facilmente, non appena comprende che la McCloskey non si limita ad avanzare una tesi. La sua è una vera e propria battaglia a favore di una corretta comprensione di ciò che ha significato per tutti noi la Rivoluzione Industriale, prima nel mondo occidentale e più tardi per il resto del globo.

E di questo c’è un disperato bisogno. Il ritratto proposto da Engels, una vita destinata all’indigenza in città lerce, è diventato un cliché della Rivoluzione Industriale. Il suo spaccato del capitalismo agli albori ha formato la conoscenza dell’economia politica di milioni di persone. Questi macchinari erano una meraviglia tecnologica, ma incatenavano i poveri ad una vita di stenti e tutto ciò era percepito come una ovvietà. Solo poche persone sembrano ricordare che la povertà esisteva anche prima della comparsa del motore a vapore. Difficilmente può essere sovrastimata la conseguenza di questa attitudine nei confronti della percezione della legittimità dell’economia di mercato, come sapeva bene F. A. Hayek. In Capitalism and the Historians, egli mise insieme alcuni accademici che erano qualificati quali avanguardie degli storici “revisionisti”, convinti che la Rivoluzione Industriale meritasse un controllo più accurato.

E’ stato solo dagli anni 70 che diverse scuole di storici hanno sviluppato una comprensione più corretta della Rivoluzione Industriale. Purtroppo però le loro scoperte sono ancora relativamente sconosciute al grande pubblico. Il sentiero tracciato da Engels è difficile da scalzare quando è supportato da libri di testo tuttora ritenuti autorevoli.

Profondi e radicati pregiudizi possono causare una mancata comprensione di cambiamenti storici senza precedenti quali la crescita economica moderna. Questo è il soggetto della trilogia di McCloskey: il cambiamento dovuto alla crescita economica. Prima di affrontare in modo più accurato quest’ultimo argomento, dobbiamo esaminare il contenuto dei suoi primi libri.

Due secoli fa l’economia mondiale era al livello dell'attuale economia del Bangladesh… Nel 1800 il consumo medio atteso per figli e nipoti e per le generazioni a venire era, dollaro più dollaro meno, di $3 al giorno. Il calcolo è espresso ed attualizzato ai giorni nostri secondo il costo della vita americano. E’ sconvolgente.

Per contrasto, oggigiorno un cittadino medio di un Paese come il Giappone o la Francia spende probabilmente circa $100 al giorno. Cento dollari contro tre. Questo è l’ordine di grandezza della moderna crescita economica. (McCloskey 2010, 1)

E’ dalla comprensione dell’entità di questo miglioramento economico che la McCloskey trae le sue preferenze in politica economica. In contrasto al socialismo di Engels ed a tutti i numerosi profeti di sventura che hanno fornito una quadro della Rivoluzione Industriale come fonte dell’inquinamento dei fiumi e della corruzione dell’anima, “Il fatto che ancora le persone muoiano in ospedale, non significa che il rimedio sia la semplice rimozione dei dottori” (McCloskey 2016, 43). Quando si affronta la povertà, la crescita economica moderna è la medicina, non la malattia.

La chiave di lettura dell’insegnamento della McCloskey è che una crescita economica di queste proporzioni è la vera novità nella storia dell’uomo.[1] La McCloskey sottolinea che Malthus aveva ragione a sostenere che la produzione di cibo cresceva ad un tasso aritmetico mentre la popolazione, a quei tempi, tendeva a crescere in modo geometrico. In quel contesto era un gioco a somma zero, se uno vinceva l’altro perdeva. La corsa tra progresso tecnologico e crescita della popolazione, osserva la McCloskey citando due storici dell’economia, Voigtlander e Voth, “era una tartaruga contro una lepre”. Infatti:

prima del 1800 il tasso di crescita non era mai stato più alto di mezzo punto l’anno, e d’accordo con l’economista Oded Galor, più vicino a un decimo che all’uno per cento, raggiungendo così al massimo il 64% nell’arco di un secolo. Ma la popolazione poteva crescere al 3% l’anno, e questo significa il 1,800% in un secolo. La tartaruga non aveva alcuna possibilità (McCloskey 2016, 15).

Come è potuto avvenire questo cambiamento? Come la crescita economica moderna è diventata possibile? Per definire in modo accurato l’avvenimento, bisogna guardare a cosa è cambiato rispetto a tutto il resto. La miseria – ovvero la miseria per le masse – è stata la condizione umana naturale da quando Adamo ha morso la mela. Adam Smith non ha cercato le cause della povertà delle nazioni, perché la povertà non ha mai avuto bisogno di una spiegazione. È questa enorme crescita della ricchezza che deve essere spiegata.



Impilare un mattone sopra l’altro?

La risposta della McCloskey è duplice. Da una parte sostiene che “l’innovazione (non gli investimenti o la spoliazione) diedero vita alla Rivoluzione Industriale” (McCloskey 2010, 6). Sostiene che nell’accumulo di capitale, impilare un mattone sopra l’altro, non c’era niente di innovativo. C’è sempre stata prudenza, parsimonia e avarizia, tra le altre cose. Ma ad un certo punto l’accumulo del capitale ha smesso di essere usato per comprare ville sempre più sfarzose e invece ha iniziato ad essere usato per comprare macchinari e aziende. Il capitale ha iniziato ad essere usato per offrire un fiume senza fine di novità, a beneficio di un numero crescente di consumatori.

Ma fu veramente un mattone sull’altro la peculiarità di questo processo? Il più eminente critico del “capitalismo”, Karl Marx, derise “l’accumulo originario” come qualcosa che “gioca in economia politica all’incirca lo stesso ruolo del peccato originale in teologia” (Marx 1871, 784), e su questa falsariga avallò la favola che la parsimonia servisse solo a rafforzare l’amor proprio delle classi più agiate. Ma anziché rigettare l’intera faccenda, sviluppò la propria versione dei fatti. Per Marx il vero accumulo originario avvenne “quando la gran parte degli uomini venne improvvisamente e forzatamente strappata dai loro mezzi di sussistenza e gettati come proletari nel mercato del lavoro” (Marx 1871, 787). Paradossalmente il profeta del materialismo storico – che pretende che politica e cultura siano solo finzioni dei rapporti di produzione – cerca la sorgente dell’accumulo borghese nella violenza politica, in quel mercato degli schiavi prodotto dalle recinzioni dei terreni adottate nel quindicesimo secolo. Dal suo punto di vista, tutto il male accaduto nella storia è il prodotto dell’avvento del capitalismo.

“L’accumulo originario” di Marx potrebbe essere inteso come la versione più elaborata della non infrequente idea che ogni maniera di arricchirsi è sempre alle spese di qualcun altro. Questo, ovviamente, potrebbe accadere, anche perché il mondo non è mai a corto di ladri. Ma fu questo a rendere possibile l’emergere del capitalismo? Non per la McCloskey. “Non è un buon piano per fare affari affidarsi alle briciole guadagnate rubandole alla povera gente”, ha scritto nel secondo libro sulla "borghesia". Se così fosse, “l’industrializzazione sarebbe avvenuta quando il Faraone rubò il lavoro agli Ebrei ridotti in schiavitù”. (McCloskey 2010, 156). Rubare ai poveri non potrà mai “essere una spiegazione sostenibile per un grande arricchimento”.

La crescita senza precedenti sperimentata in Occidente negli ultimi due secoli, richiede una spiegazione differente. Avviene quando la società inizia a creare innovazioni senza precedenti. Questo si traduce in una enorme produttività.

Dal 1800 l’abilità degli uomini di avere cura ed educare se stessi, benché il loro numero crescesse secondo un fattore di sette, è cresciuta per ciascuno secondo un fattore di 10… Noi esseri umani ora produciamo e consumiamo per 70 – 7x10 – volte di più beni e servizi globali rispetto al 1800 (McCloskey 2016, 6).

Sì, questo significa molte cose. Gli individui sono migliorati in senso materialistico: possono contare sulle macchine per lavare i piatti, e possono divertirsi con la TV al plasma e Spotify. Ma vivono anche una vita più salubre; sono liberi di regolamentare i loro appetiti con una dieta vegetariana perché lo vogliono e non perché sono forzati dalle circostanze; sono cresciuti di numero, hanno accresciuto la loro capacità di leggere scrivere e far di conto; guidano auto e utilizzano macchinari complessi.

Questo processo non è stato previsto e tanto meno pianificato. E’ stato in gran parte il risultato di uno sforzo dal basso, ottenuto da persone che erano primariamente interessate alla loro sorte (“non dalla benevolenza del macellaio”). La McCloskey cita l’insigne Premio Nobel, Robert Lucas, il quale ha osservato:

affinché avvenga una significativa crescita in una società, una gran parte delle persone deve sperimentare un cambiamento nelle proprie possibilità di vita, immaginandolo per loro stessi e per i loro figli… in altre parole… lo sviluppo economico richiede “milioni di ribellioni” (Lucas 2002, 17).

Le innovazioni di successo emergono dalla diffusa ribellione nei confronti dello status quo, poiché sono soggette al giudizio dei consumatori, la più alta espressione del mercato. Anziché “capitalismo”, la McCloskey definisce la crescita economica moderna un “miglioramento certificato dal mercato”, o “progresso certificato dal mercato”. Così facendo, ne sottolinea anche gli effetti e le cause: il miglioramento e il processo di sperimentazione (qualche volta generando novità di successo, qualche volta meno efficaci) che lo rende possibile.



Cultura non istituzioni

Ma, al di là dell’innovazione, ciò che la McCloskey si sforza di comprendere è come questo processo di sperimentazione sia diventato possibile e come si sia diffuso. L’arricchimento materiale non ha cause materiali. Lei sostiene che “la comunicazione, l'etica e le idee sono la causa dell’innovazione”. In particolare, “le conversazioni quotidiane relative all’innovazione e al mercato sono determinanti per la loro diffusione ed approvazione” (McCloskey 2010, 7). La sua risposta è questa: la rivoluzione industriale ha bisogno di una cultura accogliente, la quale implica una politica accogliente, ma quest'ultima non va ad attaccare la prima.

Uno degli obiettivi preferiti della McCloskey è il neo-istituzionalismo, che lei definisce ingenuo nella comprensione delle regole del gioco. Al contrario, le critiche alle sue tesi affermano che la cultura è qualcosa di troppo vago per diventare una pietra di paragone su cui poggiare ipotesi scientifiche capaci di spiegare l’origine della crescita economica; la McCloskey replica che lo stesso argomento vale per la parola istituzione. Le istituzioni esistono “primariamente per i buoni principi morali dei partecipanti, motivate e rinforzate dall’opinione morale che le persone hanno sull’una sull’altra. (McCloskey 2016, xxiii-xxiv). Ciò che separa la McCloskey dai neo-istituzionalisti è la sua volontà, e forse il suo entusiasmo, nel tenere in considerazione dati che altri deliberatamente ignorano: i romanzi e il teatro (non tanto l'opera e la musica). Tipicamente considerati immeritevoli di attenzione e di valore scientifico fuori dai confini umani, la McCloskey li considera di importante valore. Rappresentano delle evidenze significative dei comuni preconcetti e credenze di particolari società e di precisi momenti storici – informazioni che in altra maniera non sarebbe possibile ottenere. I romanzi che le persone leggono, gli spettacoli che li divertono, gli autori che prediligono, ci permettono di dedurre qualcosa a proposito del loro punto di vista e dei loro valori.

La McCloskey non fa riferimento ad Austen o Balzac come ad un mero abbellimento del suo lavoro; il riferimento alla letteratura fa parte delle sue prove.

Discutendo il lavoro della McCloskey, Joel Mokyr ha opportunamente evidenziato che “la cultura non può essere compresa senza le istituzioni, così come le istituzioni non possono essere capite senza la cultura” (Mokyr 2014). La cultura e le norme possono rinforzarsi a vicenda, ma bisogna pensare a cosa succede quando sono in disaccordo. Più spesso di quanto non si pensi, abitudini e costume vanno oltre le norme formali. In base agli innumerevoli fallimenti di regole e procedure in Paesi esteri – se pensiamo, ad esempio, al ruolo svolto dagli aiuti esteri in tanti Paesi – tutto questo sembra supportare il ragionamento della McCloskey. Si guardi, ad esempio, all'Italia, dove una simile organizzazione di regole formali può produrre risultati completamente differenti, nonostante siano applicate ad aree geografiche contigue ma caratterizzate da “capitale civile” diverso (il quale è parte di una più larga nozione di “cultura”).

Certo “cultura” rimane un termine molto problematico. Sembra troppo denso, troppo onnicomprensivo per essere usato con perizia e precisione nelle scienze sociali. Inoltre le “idee” per la McClosckey non sono quelle che enfaticamente vengono definite le idee e le attitudini della cultura o della politica delle élite. Un “milione di ribellioni” non è un fenomeno ristretto alle élite, bensì la trasformazione di una mentalità e, in un certo senso di uno stile di vita, che attraversa l’intera società.

Questo spiega l’insistenza della McCloskey nell’uso della parola borghese, che altrimenti potrebbe essere visto come un tentativo di stupire il senso comune, di indignare lo stesso lettore. La McCloskey cita l’accademico della letteratura Franco Moretti, il quale ha scoperto che nella letteratura vittoriana ricorre spesso la tesi di due generazioni poste in competizione l’una con l’altra, la più vecchia in procinto di diventare la borghese e, naturalmente, pronta per essere sostituita e tradita da qualcosa di più giovane e filantropico (McCloskey 2016, 62). Borghese è solitamente un termine che esprime denigrazione, ancora più degradante dell’aggettivo “insignificante”.



Borghese a ragion veduta

La McCloskey non usa il termine borghese per parlare di classe: lo usa perché identifica nella borghesia una nuova ondata di simboli e idee, per mezzo dei quali viene cambiata la vita sociale. Sergio Ricossa, un grande economista italiano sfortunatamente sconosciuto all’estero, ha fatto notare nel 1986 che:

Nella cultura signorile l’eroe era un modello di perfezione e di eroismo, questo implicando un’assoluta dedizione a cause di valore infinito, in comparazione a cui ogni calcolo diventava insignificante e volgare. Il borghese, al contrario, era un calcolatore, prendeva rischi, anche se calcolati, e non era disposto a sacrificare alcunché se non in vista – o con la speranza – di un adeguato compenso. (Ricossa, 2006, 58).

Borghese è un termine utile perché esprime un’attitudine che è equidistante a due differenti, seppur convergenti, comportamenti: l’Etica e i valori dell’aristocrazia e “l’eresia dei salvatori”.[2] I primi considerano i valori economici pari a nulla, tutti intenti a perseguire l’eroismo delle armi. I secondi concordano con l’annullamento dei valori economici, perché tutti i mezzi devono essere al servizio del raggiungimento della salvezza umana, la quale è compatibile solo con l’approntamento di particolari istituzioni politiche.

Al contrario, la mentalità borghese sposa la razionalità pratica, il calcolo prudente ed il miglioramento continuo. Il borghese non sente sé stesso come un cavaliere, né le sue parole annunciano una migliore rigenerazione del mondo. Il borghese ottiene la sua ricchezza attraverso il miglioramento produttivo, diventando un uomo d’affari, un commerciante, un inventore. Laddove il nobile e l’attivista rifiutano di affrontare il calcolo presumibilmente insignificante della vita economica, il borghese non vede nessuna vergogna in esso. Lei sa che “un test commerciale per valutare la fornitura di un bene di consumo, passa attraverso il segnale del profitto monetario. Quando qualcosa verificato dal mercato diventa popolare, determina un guadagno per qualcuno.” (McCloskey 2016, 563). Non c’è nessuna vergogna nel fornire alle persone le cose che piacciono loro.

Questo genere di movimento è un processo mediante il quale le persone percepiscono sempre più sé stesse come esseri liberi di scegliere, ma anche liberi di essere scelti. Loro sono liberi di scegliere nel senso che non sono costretti in quanto consumatori, ma spesso, cosa di non poco conto, tal genere di libertà diventa alla fine parte della loro identità. Come ben sappiamo, siamo spesso in grado di dedurre cose tanto differenti quali preferenze politiche, gusti musicali, o provenienza sociale, dal modo di vestirsi delle persone. Allo stesso modo, dal loro costane esercizio della libertà di scegliere, creano le condizioni affinché essi stessi diventino fornitori di beni e servizi differenti. Adam Smith ha parlato della “divisione del lavoro limitata dall’estensione del mercato”. Più il mercato è esteso, più la specializzazione diventa complessa. Di questi tempi non si trovano "dog sitter" nei piccoli villaggi di montagna, ma nelle grandi città: alcune persone si guadagnano da vivere passeggiando con i cani di altre persone. La crescita economica moderna è un complesso enigma, ma se ha un carattere unificante, è il costante allargamento del grado di scelte disponibili. Questo è in verità l’egualitarismo della borghesia a cui la McCloskey fa riferimento nel titolo del suo libro: un idea di parità di dignità, parità di opportunità nel ricercare la realizzazione di sé stessi, nel perseguimento della propria felicità (citata nel più eminente documento borghese, la Dichiarazione d’Indipendenza).



Un cambiamento nel modo di pensare

L’era della borghesia, così come l’onda della grande crescita economica, inizia quando le persone cominciano a pensare che non c’è alcuna vergogna nel fornire ad altri cose che gli piacciono. Prima di ciò, come l’economista Don Boudreaux ha scritto riassumendo il punto di vista della McCloskey:

Diversamente dai guerrieri che si sporcavano le mani con onore (ossia col sangue), i commercianti si sporcavano le mani col disonore (ossia con il profitto). Diversamente dai nobili che ottenevano la loro ricchezza con onore (ossia incassavano la rendita della terra), i mercanti ottenevano le loro ricchezze con disonore (ossia attraverso lo scambio). Diversamente dai chierici che ricevevano la loro ricompensa con onore (ossia contemplando l’eternità), i borghesi ricevevano la loro ricompensa con disonore. (Boudreaux 2014).

Questa era “la tassa del disonore” scrisse Bourdeaux, che come tutte le tasse “scoraggia le attività che colpisce, rendendo le attività non tassate relativamente più attraenti” (Boudreaux 2014). Ad un certo punto della storia, si ebbe una sostanziale riduzione di quella tassa. Da quando si è iniziato a dire che la vita del venditore non era una vita da canaglia, allora le persone hanno iniziato a considerarla in modo differente: le persone intelligenti e ambiziose hanno iniziato a pensare che fosse una professione di valore da perseguire, senza averne vergogna.

Prendiamo in considerazione la medicina al posto del commercio. Per un lungo tempo nella storia, i medici sono stati per metà parrucchieri per metà dottori. Le cure mediche era considerate complementari alla preghiera, e quest’ultima era generalmente più efficace. Le cose cambiano quando migliorano gli strumenti, la medicina diventa una scienza, le cure sono diventate “industrializzate” con l’ospedale. E tutto ciò ha portato al contempo ad un forte apprezzamento sociale nei confronti dei medici, tant’è che tutte le madri del mondo sono piene di felicità quando i loro figli esprimono il desiderio di diventare dottori. La questione dell’approvazione sociale è determinante per il successo di una professione, poiché spinge un gran numero di studenti brillanti nelle università di medicina.

Nel mio Paese, l’Italia, gli intellettuali tendono a privilegiare le scienze umane alle scienze naturali. Le famiglie tendono a credere che i loro figli non avranno futuro se intraprenderanno studi matematici o scientifici, se non quello di diventare professori delle scuole superiori (carriere con un salario non alto). Questi fattori potrebbero avere qualcosa a che fare con il fatto che nelle università italiane è presente un basso numero di matricole nelle discipline scientifiche, tecnologiche o matematiche, e di conseguenza un basso numero di laureati. Solo ora questa domanda del mercato del lavoro si sta aggiustando, in una economia che si dirige verso l’informatica e la robotica.

Se l’apprezzamento sociale di imprenditori, commercianti e inventori è stata la chiave che ha reso possibile la crescita economica, l’ultimo libro della trilogia della McCloskey affronta difatti le forze che si contrappongono a tale apprezzamento. La McCloskey è ben consapevole che facendo risalire il sorgere della crescita economica moderna alla “cultura”, si è posta in grande dissonanza con gran parte della “cultura” del nostro mondo, che perlopiù si oppone al cosiddetto “capitalismo”. “È accaduto qualcosa di strano nelle menti dei letterati”, scrive (McCloskey 2016 559-568) riferendosi ad “artisti, intellettuali, giornalisti, professionisti e burocrati”.



Il problema degli Intellettuali

La McCloskey non è la prima ad evidenziare il problema. La questione riguardante il “perché gli intellettuali si oppongono al capitalismo?”, tanto per citare il titolo di un lavoro di Robert Nozick (Nozick 1998), è stato uno dei temi del liberalismo classico dello scorso secolo. In ambito accademico, gli intellettuali liberali classici si sono trovati di fronte ad una crescente opposizione proprio da parte dei loro pari. Solo una piccola parte del mondo accademico apprezza il sistema di mercato. Il capitalismo era visto come un sistema senza speranza nel diciannovesimo secolo, mentre una nuova era stava per sorgere, liberata dalla "anarchia della produzione". Gli accademici liberali classici hanno fatto di tutto per opporsi a questa fobia del mercato da parte di molti intellettuali, timorosi “dell’effetto a cascata” che questo avrebbe avuto sull’intera società. Per questo hanno tentato di identificarne lo schema su cui si reggeva, in modo da poter arginare i motivi che facevano schierare tanti intellettuali contro l’economia di mercato. Molti di loro pensavano che il cosiddetto interesse personale avesse avuto un ruolo importante nell’antipatia dei loro colleghi verso le relazioni commerciali, e alcuni di loro teorizzavano che gli intellettuali erano primariamente motivati dal risentimento. La McCloskey pensa che non ci siano vere prove in tal senso.

La prima serie di risposte alla domanda “perché gli intellettuali si oppongono capitalismo?” può essere sintetizzata prendendo come riferimento il lavoro di Ronald Coase, The Market for Goods and the Market for Ideas (Coase 1974, 384-391). Gli intellettuali sono fortemente favorevoli verso un’alta regolamentazione del mercato delle “cose”, ma non così tanto per il mercato delle idee, dove si oppongono in modo irremovibile.

Il mercato delle idee è il mercato in cui gli intellettuali conducono i loro commerci. Questo li conduce al paradosso prodotto dalla convergenza dell'interesse personale con l'autostima. Quest'ultima porta gli intellettuali ad enfatizzare l’importanza del loro mercato. Viceversa quello degli altri sembra naturale che debba essere regolato, soprattutto se molti intellettuali identificano in sé stessi coloro che dovranno farlo. Allo stesso modo l'interesse personale combinato con l'autostima assicura loro che, mentre gli altri vengono regolati, la medesima regolazione non deve essere applicata a loro. (Coase, 384-391)

Milton Friedman argomenta per analogia evidenziando che per gli intellettuali le soluzioni coercitive sono sempre più facili da vendere ad un largo pubblico più che quelle basate sul mercato. “Le soluzioni collettiviste sono più semplici. Se c’è qualcosa di sbagliato basta una legge per porvi rimedio” (Cobb, Maghan, Raico 1974), e una risposta semplice vende più libri e riviste di una risposta complicata.

La seconda serie di risposte è stata data da pensatori diversi come Joseph Schumpeter, Ludwig von Mises e Robert Nozick. Per Nozick gli intellettuali sono semplicemente persone che erano studenti di successo nella propria classe, dove le ricompense erano distribuite attraverso modalità definite da un'autorità centrale. Una volta usciti da scuola ed entrati nel mondo del lavoro, sono rimasti sconvolti nel constatare quante competenze differenti venivano premiate rispetto a quelle in loro possesso, per le quali si erano esercitati.

Gli intellettuali vogliono che l’intera società diventi, per decreto, una grande scuola, per ritornare in quel piacevole ambiente dove si erano trovati così bene ed erano stati tanto apprezzati (Nozick 1998, 10).

Schumpeter e Mises sottolineano come il capitalismo per la prima volta nella storia abbia generato un'abbondante istruzione di massa. Da questo punto di vista, la scuola di massa crea un'eccedenza di intellettuali, i quali difficilmente potranno trovare un lavoro conforme alle loro aspettative. Da questo nasce e si sviluppa quel risentimento contro il capitalismo. La loro evoluzione anti-capitalista si rinforza quando si rendono conto che i partiti politici e la burocrazia saranno potenzialmente i loro principali datori di lavoro.

In età avanzata Mises ha scritto un breve ed illuminate saggio, The Anticapitalist Mentality. Mettendo in evidenza quanto gli intellettuali fossero colpiti dalla povertà di gusto delle masse, e il carattere irreversibile di questa mancanza:

Il capitalismo poteva rendere le masse tanto ricche da potersi permettere di acquistare libri o riviste. Ma non le poteva dotare della capacita di discernere un Mecenate o un Can Grande della Scala. Non è una mancanza del capitalismo se l’uomo comune non è in grado di apprezzare libri non comuni (Mises 1956, 52).

Da notare che il problema non è la semplice cecità degli intellettuali nei confronti delle virtù del mercato e del libero scambio, ma la loro distonia con l'accadimento storico rappresentato dalla crescita economica moderna, la quale ci ha dato la produzione di massa e ci ha fatto diventare parte della cosiddetta “società dei consumi”.

La McCloskey mantiene un atteggiamento indulgente verso i suoi oppositori. O almeno appare indulgente ad una prima occhiata. Ci fa notare che l’anti-capitalismo può emergere per diverse ragioni, incluse quelle psicologiche: “È raro che gli intellettuali francesi e inglesi del diciannovesimo secolo non fossero simultaneamente figli della borghesia ed inflessibili oppositori a tutto ciò che è borghese” (McCloskey 2016 597). Ma l’anti-capitalismo cresce anche perché le verifiche del mercato disturbano quelle società mancanti di una prima generazione pienamente arricchita” (McCloskey 2016, 595).

Che il mondo fosse già sfuggito alla trappola malthusiana era già abbastanza chiaro al tempo in cui Engels scrisse, The Conditions of the Working Class in England: il reddito medio era già abbastanza cresciuto, seppur non ancora “alle vette raggiunte nel terzo quarto del diciannovesimo secolo” (McCloskey 2016, 608). Quell’immagine di desolazione ha eccitato la fantasia degli storici ed è stata immortalata da romanzieri, pittori e fotografi.

Ma essenzialmente, sostiene la McCloskey, gli intellettuali anti-capitalisti non comprendono ciò di cui stanno parlando. “Gli economisti e gli storici dell’economia lo sanno, in termini quantitativi” (McCloskey 2016, 26). Loro hanno una percezione quantitativa del calo del tasso di analfabetismo (“dal 90% della popolazione adulta mondiale nel 1850 al 20% nel 2000”); o quanto “la speranza di vita… sia cresciuta vertiginosamente… da una aspettativa di vita alla nascita di meno di trent’anni nel 1800 a cinquantadue nel 1960 ed a settanta nel 2010, includendo anche le zone povere del mondo” (McCloskey 2016, 26-27); o quanto “l’accesso all’acqua potabile abbia enormemente contribuito a tutto ciò” (McCloskey 2016, 27).

Certo, gli intellettuali, di destra e di sinistra, si sono sempre lamentati “del carattere di masse della nostra società” (McCloskey 2016, 25); come se la produzione di massa abbassasse l’apprendimento, la cultura o la morale. La McCloskey è d’accordo con George Stigler quando alla fine sostiene che la critica degli intellettuali alla società di massa è mal posta, e per molti versi ipocrita (Strigler 1967, 5). Strigler sostiene che:

Molte società sono state giudicate dalla loro cultura aristocratica. Infatti in periodi remoti la maggior parte della popolazione non era considerata né parte della cultura né della società: la maggior parte erano analfabeti, sottomessi alla tradizione, e gran parte di quelle persone viveva un’esistenza brutale in baracche miserabili. Viceversa ora il nostro senso sociale si forma sulla maggioranza della popolazione, e questa maggioranza oggi è generosa, insoddisfatta, impegnata duramente nel lavoro, per una larga parte concentrata in uno sforzo senza precedenti nella propria educazione, vorace frequentatrice abituali delle arti. (Strigler 1967, 5-6)

Maggior benessere, cultura del mercato, più “uguaglianza borghese”, la società tende ad essere più giusta. “La globalizzazione, il neoliberismo e Milton Friedman sono stati un bene per i poveri, in una maniera senza precedenti” (McCloskey 2016, 73). Perché i letterati non riescono a leggere i dati?



Non una vera meritocrazia

La risposta della McCloskey è che questi sono diventati degli “Neo-pseudo-aristocratici”, i quali credevano nel “merito” ma lo giudicavano non strettamente in termini monetari (McCloskey 2016 124). Il suo punto di vista è simile a quello di Nozick: gli intellettuali si risentono verso il mercato perché non ricevono quel premio per i loro sforzi che invece credevano di meritare. Ma l’autrice amplia il punto di vista di Nozick, facendo notare che gli intellettuali considerano il “merito” in termini strettamente aristocratici. Loro non sopportano la caratteristica per eccellenza del mercato: il cambiamento, quello che noi osserviamo nei prodotti e nei costumi, e che spesso rende obsolete le vecchie gerarchie, comprese le gerarchie dei meriti.

La crescita economica moderna è stata veramente “la grande trasformazione” (McCloskey 2016, 543);[3] il passaggio “dallo status al contratto”. Tutto ciò significa una maggiore mobilità sociale, ma anche erosione della gerarchia. Questa è stata una storia molto stimolante (in tre generazioni, una parte consistente delle varie famiglie è passata dalla condizione di contadini a quella di professionisti istruiti nelle università), ma ha anche generato un grande spavento. Essere bloccati in una posizione sociale può essere una maledizione, ma è psicologicamente confortevole. Per qualsiasi accadimento negativo, si può facilmente dare la colpa alla nascita o al destino. In una società basata sul contratto, le persone sono ricompensate per la loro abilità di soddisfare i bisogno dei loro simili.

Molte persone vivono con dolore il ruolo assegnato al profitto, in particolare il ristoratore che pensava fosse una buona idea aprire un locale solo per scoprire successivamente che la sua è stata una pessima idea (McCloskey 2016, 568).

La McCloskey sa bene, e lo enfatizza fortemente, che la società borghese non è in senso stretto una “meritocrazia”, che i consumatori possono non avere gusto o gli imprenditori possono solo essere più fortunati e non “migliori” dei loro competitori. E questo in verità non è il motivo dell’esistenza del mercato: non esiste per premiare il migliore, qualsiasi cosa significhi, ma per dare alle persone le cose che vogliono. In questo senso possiamo leggere ciò che la McCloskey chiama “la riforma borghese”, l’immaginario patto sociale tra gli innovatori e gli uomini d’affari e tutti noi.

Lasciateci distruggere in modo creativo il vecchio modo di fare le cose, la falce, il carro trainato dai buoi, le lampade ad olio, gli aeroplani ad elica, le macchine da presa, e la fabbriche senza l’alta tecnologia dei robot, e vi renderemo tutti ricchi. (McCloskey 2016, xxxiii).

Nessuno, ovviamente, ha sottoscritto coscientemente questo patto: ma nella società borghese questo è il comune sentire, la silenziosa accoglienza riservata alla celebrazione delle “milioni di ribellioni”. Questo tipo di attitudine è più comune negli Stati Uniti che nei Paesi europei, dove un non piccolo numero di imprese di successo inizia nel garage di un innovatore.



Libri inusuali

I libri della McCloskey sono alquanto inusuali, perciò facilmente godibili da un pubblico di non specialisti. Il suo stile rapsodico in Bourgeois Equality, come pure nei precedente, è coinvolgente e accessibile anche al profano. Lei è un’economista che sa scrivere, che rende la lettura piacevole. I suo lettori di lunga data non saranno sorpresi nel venire a sapere che tra i suoi sforzi accademici, c’è stata la pubblicazione di un piccolo e divertente libro proprio sugli accademici (McCloskey 1999). Inoltre la McCloskey è certamente colpevole di un eccesso di generosità verso gli autori che ammira. Il lettore viene messo a conoscenza di nomi e riferimenti con una pedanteria di cui farebbe certamente a meno. La McCloskey è ossessionata dal proposito di dare a ciascuno ciò che lei gli deve, vuole menzionare a tutti i costi quegli accademici che le hanno fornito informazioni utili. Questa generosità è apprezzabile e nobile, ma spesso appesantisce pagine altrimenti molto belle. Ed infatti le belle pagine non mancano in questi libri. La McCloskey travolge il lettore con fatti, intuizioni, stile.

L’importanza del lavoro di Deirdre McCloskey difficilmente può essere sottovalutata. Se inserite in un motore di ricerca “Deirdre McCloskey bourgeois” i risultati sono 215,000 collegamenti. La sua trilogia è stata largamente recensita e largamente discussa. Ancor più importante, grazie alla sua infaticabile testimonianza in ogni parte del mondo, ha aiutato a cambiare la retorica tanto dei singoli accademici quanto dei think tank, tradizionalmente attaccati ai classici argomenti del liberalismo: governo minimo e libertà di mercato. La “riforma della McCloskey” è l’aver evidenziato gli indiscutibili benefici materiali prodotti da queste idee per le masse, ed in alcuni casi il modo in cui vennero messe in pratica. Ricordare al pubblico la grandezza del cambiamento sperimentata da quando James Watt perfezionò il motore a scoppio; imparare ad apprezzarlo significa aiutare a non metterlo a rischio.

Di recente la McCloskey, riferendosi al suo approccio, lo ha definito “liberalismo umano” (McCloskey 2017, 10). Tutte le etichette sono per definizione imperfette, e questa non la è di meno. Per un verso, il liberalismo, come ogni teoria politica, si occupa dell’uomo, non di uccelli o greggi. D’altro canto, il liberalismo è stato umanitario fin da principio: si pensi a quanto ha fatto per limitare il potere assoluto, l’abolizione della schiavitù, per permettere alle persone di fare ciò che vogliono del proprio corpo e con le cose di loro proprietà. Che il liberalismo metta “il profitto prima delle persone” è una caricatura che la McCloskey ben conosce.

Il più grande valore dell'opera della McCloskey è che sottolinea un punto a volte dato per scontato dai liberali classici. Il liberalismo classico è una filosofia per l'uomo comune. Non gli importa delle visioni (aristocratiche) di grandezza ed eroismo, e non è appassionato di crociate (di sinistra) per l'umanità che non considerano affatto le vite dei singoli individui. Comprende il grande arricchimento proprio perché ha portato una prosperità senza precedenti ad un gran numero di persone.

Il carattere innovativo dell’opera della McCloskey, è l’aver dato un più solido terreno di difesa a ciò che ha iniziato l’economista Ludwig von Mises, quando, negli anni venti del secolo scorso, era il solo ed unico difensore del liberalismo classico. I demagoghi, scrisse Mises, dipingono la rivoluzione industriale come se “tutti i progressi della tecnica e della produzione fossero ricaduti ad esclusivo beneficio di pochi, mentre le masse affondavano sempre più nella miseria.” Ma:

basta solo una minima riflessione per comprendere che i frutti della rivoluzione tecnologica e industriale hanno prodotto un miglioramento e una soddisfazione proprio ai desideri delle grandi masse. Tutte le grandi industrie che producono beni di consumo lavorano direttamente a loro beneficio; tutte le industrie che producono macchine per la produzione di semilavorati lavorano indirettamente per loro. Il grande sviluppo industriale delle ultime decadi – comprese quelle della seconda metà del diciottesimo secolo – hanno prodotto un miglior soddisfacimento dei bisogni delle masse. Lo sviluppo dell’industria dell’abbigliamento, della produzione di scarpe, e i miglioramenti nel processo di distribuzione dei beni alimentari hanno avvantaggiato il grande pubblico. E’ grazie a queste industrie se oggi le masse sono meglio vestite e curate come mai prima. Comunque la produzione di massa non ha provvisto solo a cibo, alloggio e vestiti, ma anche ad altre richieste da parte della moltitudine. I giornali servono la massa tanto quanto l’industria del cinema, persino il teatro e altre simili fortezze dell’arte sono diventate, giorno dopo giorno, luoghi d’intrattenimento. (Mises 1927, 10-11).

Nell’età in cui formidabili guadagni avevano dato vita a grandi uomini, Mises ci ricorda l’uomo comune. Per troppo tempo questo punto di vista è stato omesso. Lo slogan “spennare il ricco”, senza considerare le possibili ricadute su innovazione e produttività, non funziona. “Produzione” e “distribuzione” di ricchezza sono state distinte in modo analitico, come se l’alterazione di quest’ultima non potesse mai danneggiare la prima. I consumatori sono stati biasimati per il decadimento morale, e pochissimo rispetto è stato prestato alla libertà di scelta delle persone.

Le poche voci dissidenti hanno spesso mancato quella comprensione storica del cambiamento che le avrebbe rese più forti. Una miglior apprezzamento dell’Era Borghese può dar loro coraggio. Questo liberalismo classico come filosofia dell’uomo comune, è ciò che rende perfetta la meravigliosa trilogia della McCloskey.


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Note

[1] La McCloskey fornisce una critica dettagliata dei "continuisti", i quali considerano la rivoluzione industriale nient'altro che una continuazione dei redditi in lieve aumento in Europa (McCloskey 2016, 533). Va detto che la stessa McCloskey è stata la principale critica di una delle presunte "discontinuità", cioè il comportamento dei proprietari terrieri e dei contadini prima e dopo i recinti. La McCloskey pensa che la dispersione delle trame aiutasse gli agricoltori a ridurre al minimo il rischio nelle colture, e quindi che l'uscita da un sistema del genere diventasse razionale solo quando le possibilità tecniche avrebbero consentito la concentrazione della terra senza rischi maggiori. Quindi non era un cambiamento istituzionale a rendere possibile il comportamento razionale, ma il cambiamento tecnologico e delle condizioni economiche. Si veda McCloskey (1991).

[2] Come usato in Minogue (1963).

[3] In Bourgeois Equality, la McCloskey discute dell'influenza che Karl Polanyi ha avuto sul clero (McCloskey 2016, 543-552).

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Bibliografia

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Stigler, George. 1967. The Intellectual and the Marketplace. Chicago: University of Chicago Press.

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giovedì 29 marzo 2018

Un euro forte equivale ad un forte mal di testa per la BCE





di Daniel Lacalle


Nelle ultime settimane l'euro è arrivato al suo massimo livello, rispetto al dollaro USA, da tre anni a questa parte. Questo è un movimento che sorprende, soprattutto quando la Banca Centrale Europea sta portando avanti l'espansione monetaria più aggressiva del mondo dopo la Banca del Giappone.

Un euro forte non è un problema per nessun cittadino europeo. Le famiglie europee detengono gran parte della loro ricchezza finanziaria nei depositi. Inoltre un euro forte frena l'inflazione nei prodotti importati, principalmente energia e cibo, generando un significativo effetto ricchezza.

Se guardiamo all'indice delle materie prime tra il 6 gennaio 2017 e il 12 gennaio 2018, possiamo vedere che è sceso di oltre il 12% in euro, mentre è leggermente salito in dollari USA. Per il cittadino europeo medio, un euro stabile o forte è una benedizione e uno dei fattori essenziali dietro la ripresa del reddito delle famiglie.

Un euro forte non è stato un problema nemmeno per le esportazioni. La Spagna, ad esempio, ha aumentato del 53% il peso delle esportazioni in rapporto al PIL negli ultimi cinque anni e le esportazioni dell'Eurozona nel 2017 hanno segnato un record, aumentando più della media del commercio globale e con un surplus commerciale da record, uno dei fattori decisivi che spiegano la forza dell'euro.

Ma un euro forte è una cattiva notizia per i pianificatori centrali, gli stati indebitati e i settori obsoleti o a basso valore aggiunto che hanno bisogno del sussidio nascosto della svalutazione. Un euro forte distrugge le aspettative della BCE sull'inflazione, l'aumento dei profitti stimati dei settori a bassa produttività e mette in pericolo la riduzione del debito degli stati inefficienti, i quali non sono stati in grado di ridurre i loro deficit abbastanza rapidamente. La politica monetaria della BCE, che diventa un assalto ai risparmiatori e ai settori efficienti per sovvenzionare l'inefficienza e l'indebitamento, non funziona in un mondo globalizzato con economie aperte. E, ironia della sorte, ciò è positivo per le famiglie europee, le quali vedono rafforzarsi la loro ricchezza nei depositi e vedono stabilizzarsi il reddito disponibile perché l'inflazione è bassa.

Sebbene la Banca Centrale Europea mantenga tassi ultra bassi ed i suoi acquisti mensili a €30 miliardi, non è in grado di svalutare l'euro come vorrebbe.

Il pianificatore centrale europeo si sta infatti domandando il perché. L'economia statunitense accelera la sua crescita, le aspettative d'inflazione aumentano, il deficit commerciale è ai minimi decennali, la Federal Reserve sta alzando i tassi d'interesse... e il dollaro USA non si rafforza. La spiegazione principale sta nel surplus commerciale della Cina e dell'Eurozona. Le banche centrali dovrebbero sapere che è difficile avere profitti commerciali in aumento e valute deboli.

Un dollaro debole mentre l'economia americana cresce così com'è, rappresenta un'opportunità per la Federal Reserve. Può aumentare i tassi e rafforzare le opzioni in vista di un rallentamento globale senza preoccuparsi della sua valuta. Powell sfrutterà questa opportunità?

Il problema per l'Unione Europea è che se la BCE continua a cercare di creare l'inflazione per decreto, non la ottiene e finisce per creare maggiori squilibri. Se cerca di contenere l'euro, espone l'Europa a rischi ancora peggiori che potrebbero generare ulteriori problemi a medio termine. E se la BCE cerca di contenere i rischi crescenti, l'euro si rivaluterà. Addio, quindi, alle aspettative d'inflazione della BCE.

Le mie stime suggeriscono che dodici mesi consecutivi con l'euro/dollaro sopra 1.21 porterebbero le aspettative d'inflazione nell'Eurozona all'1.3% rispetto all'obiettivo del 2% e le stime di crescita degli utili dell'Eurostoxx 100 da +8% allo 0%, poiché gli esportatori di basso valore aggiunto subirebbero un calo delle vendite e le banche vedrebbero margini più deboli a causa della bassa inflazione e dei tassi bassi.

Un altro fattore è la Cina, la quale cerca di rafforzare la sua posizione globale vendendo dollari. Ma la Cina ha visto aumentare il suo debito nel 2017 ben oltre il PIL del Regno Unito, e il suo surplus commerciale soffre di un dollaro debole e uno yuan artificialmente alto.

Tutto ciò prova che le guerre tra valute sono inutili in economie aperte. I pianificatori centrali e le loro batterie di analisti keynesiani sono sorpresi dal fatto che le economie non funzionino come presuppongono i loro fogli di calcolo Excel. Le loro correlazioni attese ed i loro rapporti di causa/effetto falliscono, malgrado ciò non ammettono i propri errori. Non li attribuiscono al fatto che le loro correlazioni e le loro stime sono obsolete e sbagliate, invece dicono che "non è stato fatto abbastanza" e "sarebbe stato peggio altrimenti" (leggere Paul Romer) e la loro fede religiosa nell'interventismo rimane intoccabile.

La BCE dovrebbe preoccuparsi di ciò che può veramente fare, ovvero, monitorare i rischi dell'eccesso di debito, le bolle e la disconnessione tra i rendimenti delle obbligazioni e la realtà. Dovrebbe preoccuparsi, ad esempio, che il bond biennale greco viene trattato ad un rendimento inferiore rispetto al bond americano a 2 anni. Un'assurdità.

Ma non preoccupatevi. Se le cose andranno a carte quarantotto, ci diranno che era dovuto ad una mancanza di regolamentazione.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://francescosimoncelli.blogspot.it/


mercoledì 28 marzo 2018

Il canto del cigno delle banche centrali, Ultima Parte





di David Stockman


Il rapporto sulla produzione industriale di gennaio ha riproposto l'ennesimo promemoria sul fatto che la FED non ha stimolato nulla dal punto di vista del suo duplice mandato.

Infatti, mentre celebra una "missione compiuta" riguardo una presunta ripresa dell'occupazione e si prepara fiduciosamente a portare avanti il suo QT (quantitative tightening), i nostri banchieri centrali keynesiani sono rimasti assolutamente muti su un fatto: non c'è stata nessuna ripresa nella produzione industriale statunitense.

Infatti la produzione di gennaio 2018 nel settore manifatturiero è ancora del 2.2% al di sotto del livello del dicembre 2007 e la produzione industriale totale è cresciuta ad un tasso annuale dello 0.19%.

Nel ciclo dal dicembre 2000 al dicembre 2007, ad esempio, la produzione industriale totale crebbe all'1.4% annuo e la produzione manifatturiera aumentò dell'1.9% all'anno su base picco/picco. In precedenza, durante il ciclo 1990-2000, i dati erano rispettivamente del 4.0% e del 4.6% annuo.

E se si desidera risalire al ciclo di Reagan-Bush dal luglio 1981 al luglio 1990, la tendenza di crescita da picco a picco per la produzione industriale totale fu del 2.3% all'anno e del 2.8% per la produzione manifatturiera. E a proposito, quel ciclo includeva anche una profonda recessione nel 1982 che era solo leggermente meno severa della crisi del 2008-2009.

In breve, quando non si va da nessuna parte nella produzione industriale durante 10 anni interi, nonostante la Grande Recessione, non si può affatto parlare di aver avuto successo. E la FED dovrebbe come minimo tentare di spiegare, o razionalizzare, ciò che altrimenti è un'aberrazione nella storia moderna dei cicli economici.

Inutile dire che le teste di legno nella FED non se ne sono affatto preoccupate. Mentre non si può assolutamente costruire un'economia solo su istruttori di pilates e baristi, l'Eccles Building ha apparentemente cancellato l'intera economia industriale dal suo radar.


È questa è solo la metà della storia. La stasi generale nella produzione industriale sin dal dicembre 2007 rispetto ai solidi tassi di crescita dei cicli precedenti, dimostrano che il massiccio "stimolo" della FED non può neanche rivendicare il merito per gli impulsi isolati di crescita che si sono materializzati nell'economia industriale americana dal picco pre-crisi.

La produzione nazionale di beni di consumo è ancora del 6% al di sotto del suo picco di dicembre 2007. E, come mostrato anche di seguito, la produzione di attrezzature per il business è progredita a solo l'1% rispetto a dove era 10 anni fa!

Infatti l'unica cosa che ha tenuto in piedi la produzione interna è la produzione di petrolio e gas, aumentata del 78% rispetto ai livelli del dicembre 2007 a causa del boom dell'olio di scisto.

Eppure la produzione di petrolio è guidata in modo evidente dalla domanda/offerta mondiale, non da dove la FED ha ancorato il tasso dei fondi federali o dal suo comportamento fraudolento col QE.

La verità è che le macchinazioni dell'attuale Politburo Rosso di Pechino, insieme alla politica di controllo della produzione a Riyadh e gli enormi progressi nella tecnologia del fracking provenienti da Houston, sono state di gran lunga più importanti nello spingere la linea blu nel grafico qui sotto rispetto alle politiche del politburo monetario nell'Eccles Building.

Pertanto la produzione dell'OPEC è stata ridotta di 1.8 milioni di barili al giorno, aumentando così i prezzi e incentivando i produttori d'olio di scisto americani; i prezzi sono stati ulteriormente spinti dai 5 milioni di barili/giorno di crescita dei consumi in Cina a partire dal 2007; e i costi del fracking sono scesi da $75 al barile a $40 al barile, alimentando così un aumento di 5 volte nella produzione nazionale di olio di scisto sin dal 2007.

In questo contesto, giocherellare con il tasso dei fondi non ha nulla a che fare con il settore principale della produzione industriale statunitense. Fatta eccezione per il fatto che le politiche di repressione finanziaria della FED hanno drasticamente ridotto i costi di finanziamento dello shale-patch, facendo quindi piovere rendite immeritate sulle teste di produttori e speculatori.


L'ironia qui è che i dati sulla produzione industriale sono in realtà pubblicati dalla FED, e nel corso del tempo è stata una delle principali metriche monitorate dal FOMC. Quindi non solo la FED ha ignorato i propri dati sulla produzione industriale, ma sembra anche non aver preso nota del problema cronico che ha afflitto questa metrica: una costante discesa.

Quello che stiamo dicendo è che una cosa che ha alimentato l'illusione della "ripresa" è il fatto che gran parte dei dati provenienti da Washington è stata impregnata di pregiudizi keynesiani. Cioè, il feticismo per i costrutti statistici riflette la convinzione di Washington che lo "stimolo" fiscale e monetario innescano sempre ed ovunque un rimbalzo dell'attività economica.

Questo pregiudizio, a sua volta, viene espresso nei rapporti economici mensili e trimestrali, che si basano su una raccolta di dati incompleti (e talvolta scarsi) e su estrapolazioni basate su formule. Pertanto, come mostrato nel grafico qui sotto, i dati iniziali per la produzione industriale nella prima metà del 2015 (linea azzurra in alto) sono risultati superiori del 6% rispetto a quanto effettivamente accaduto successivamente con una raccolta di dati più completa.

In questo caso, ovviamente, il mini ciclo di deflazione industriale mondiale del 2015-2016 non sarebbe dovuto accadere, non dopo che la FED aveva inondato con $3,500 miliardi di liquidità i canyon di Wall Street per assicurarsi una solida ripresa economica dalla Grande Recessione. Quindi il il cosiddetto ciclo di tendenza delle stime iniziali deve essere rivisto.

Come precisiamo di seguito, non si tratta semplicemente di una pigrizia intellettuale o di un errore in buona fede. Non c'è stato nulla di lontanamente simile ad una vera "ripresa". Ovviamente qualcosa è andato in tilt. La probabilità di tornare ad una qualsiasi cosa che lontanamente assomigli al trend precedente dopo nove anni di espansione tiepida, è impossibile da un punto di vista puramente statistico.

Questo perché il FOMC è così ipnotizzato dai propri modelli keynesiani che in realtà crede che la prosperità nel mondo del lavoro sia stata sostanzialmente raggiunta e che al tempo stesso sia necessario muoversi a tutta velocità con il QT.

Dopotutto, l'ultima cosa che i nostri pianificatori monetari centrali potrebbero sopportare è finire in recessione senza avere frecce nella propria faretra, ovvero, la capacità di ridurre il tasso dei fondi federali in risposta ad una crisi recessiva, e quindi rivendicare il merito per i poteri rigenerativi intrinseci del capitalismo.

Di conseguenza penseranno al QT e non saranno preoccupati dai dati in entrata. Anche se le tendenze dei dati sottostanti – come drammaticamente cristallizzato nel caso della produzione industriale – indicano fondamenta marce, i delta mensili rimarranno probabilmente positivi fino al crollo del mercato azionario.

Come abbiamo sottolineato in precedenza in questa serie di articoli, la causa del ciclo economico è stata invertita nell'era della Finanza delle Bolle. La FED ora non ha più la capacità di stimolare l'economia di Main Street con boom insostenibili e basati sul credito.

Il suo stimolo monetario, infatti, non lascia mai i canyon di Wall Street, dove alimenta una speculazione dilagante e scommesse finanziarie finché le bolle risultanti non scoppiano. Poi l'economia di Main Street viene martellata da azioni di "ristrutturazione" da parte dei piani alti delle grandi aziende, le quali comportano drastiche liquidazioni di scorte, manodopera e asset a reddito fisso.

Inutile dire che queste liquidazioni – sforzi disperati per placare gli dei del trading – innescano un'improvvisa contrazione nella catena della produzione.

Cioè, una recessione che né il FOMC né Wall Street vedono arrivare perché si concentrano essenzialmente su dati errati – i delta, non le tendenze ed i livelli – e perché credono erroneamente che lo stimolo monetario stimoli effettivamente l'economia di Main Street.


Inutile dire che le prove per l'assoluta impotenza della FED in termini di stimolo della produzione e crescita dell'occupazione, non smettono mai di accumularsi. Infatti ecco l'ennesimo dato che inizialmente ha prodotto il tipico titolo per sventolare una presunta "economia forte": la costruzione di abitazioni a gennaio è aumentata del 7.3% rispetto allo scorso anno.

Però ciò che conta per la crescita del PIL e l'occupazione è il livello della costruzione di abitazioni unifamiliari, la quale rappresenta l'85% della nuova produzione di immobili e non è distorta dalle selvagge oscillazioni mensili dei tassi di costruzione dei grandi condomini. Di fatto, il titolo sensazionalistico è saltato fuori annualizzando e aggiustando stagionalmente l'aumento di 7,800 unità nelle costruzioni annuali, di cui quasi il 40% erano unità plurifamiliari a basso valore.

Al contrario, nel gennaio 2018 il livello attuale della costruzione di case unifamiliari non era superiore a 27 anni fa, a quello del maggio 1991, alla fine della recessione del 1990-1991!

Certo, allora la popolazione era di 256 milioni rispetto ai 329 milioni di oggi; e anche il numero di famiglie che necessitavano di riparo era inferiore di circa il 25%.

Il grafico qui sotto sottolinea la completa debolezza della componente edilizia del PIL, non che la FED abbia stimolato una ripresa economica.


Si sostiene spesso che nulla di tutto questo è importante, perché l'edilizia abitativa e la produzione industriale sono apparentemente reliquie dell'economia di vostro nonno. Affronteremo il mito degli Studio di Pilates in un'altra occasione, ma anche quando si guarda alla totalità del PIL su base picco/picco per il ciclo attuale, la storia del piattume rimane la stessa.

Pertanto, durante il ciclo 2000-2007, il PIL reale è cresciuto del 2.5% all'anno. In precedenza, il PIL reale era cresciuto del 3.5% nel ciclo 1990-2000 su base picco/picco e del 3.4% durante il ciclo Reagan/Bush del 1981-1990.

Per contro, durante il periodo picco/picco decennale dal livello pre-crisi nel quarto trimestre 2007, il PIL reale si è espanso a solo l'1.45% annuo. Inoltre una parte significativa di quella "crescita" tiepida è rappresentata dall'espansione fuggitiva del settore sanitario.

Come mostrato nel grafico qui sotto, i servizi sanitari sono cresciuti di quasi il doppio del tasso del PIL reale negli ultimi dieci anni. Se si rimuovono i servizi sanitari, il tasso di crescita del PIL reale scende a solo l'1.25% all'anno.

E probabilmente non è stato nemmeno così forte, dato che il deflatore del PIL è aumentato ad un tasso dell'1.6% nello stesso periodo. Aggiungeteci un po' di inflazione del mondo reale e semplicemente non c'è stata affatto crescita reale.

Ci soffermiamo sul settore dell'assistenza sanitaria, perché nessuno sano di mente attribuirebbe il boom di tale settore a 100 mesi di Fed Funds a zero, o $3,500 miliardi in acquisti di obbligazioni col QE. Invece la forza motrice qui è rappresentata dai $3,000 miliardi all'anno di sussidi fiscali del settore pubblico.

In breve, l'economia statunitense ha trascorso dieci anni sulla linea piatta o addirittura sotto, come ci ricorda il calo da picco a picco del 7% nella produzione di beni non durevoli (linea verde nel grafico qui sotto). Questo è ciò che il massiccio stimolo della FED ha dato all'economia di Main Street: essenzialmente nulla.


Ciò che la FED ha prodotto è stata una bolla finanziaria che ancora una volta sta per scoppiare. E siamo abbastanza fiduciosi che accadrà presto, perché le nostre banche centrali keynesiane sono inconsapevolmente propense a farlo accadere.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://francescosimoncelli.blogspot.it/


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martedì 27 marzo 2018

In difesa dell'accumulo di bitcoin





di Jeffrey Tucker


Nel gergo di Internet sono chiamati HODLER quelle persone che si aggrappano ai loro bitcoin e si rifiutano di spenderli. Invece si limitano ad aggiornare i propri wallet, sentendosi più ricchi mentre rinviano il consumo. Molti di questi milionari vivono come poveri. Ne ho incontrati molti di loro: in tutti gli Stati Uniti, in Israele, in Brasile. Credono che ogni dollaro che spendono oggi sarà due dollari che non guadagneranno in pochi mesi. Probabilmente hanno ragione.

Bitcoin sta subendo una deflazione storica, il che significa semplicemente che il suo valore è in crescita rispetto ai beni e ai servizi che può acquistare. Ciò è in contrasto con l'inflazione, in cui il valore della valuta scende rispetto al suo potere d'acquisto. L'inflazione ispira la spesa: meglio sbarazzarsi dei soldi mentre sono più preziosi. La deflazione ispira il risparmio – meglio tenerli in modo che la sua ricchezza aumenti nel tempo.

Quindi non c'è niente di egoistico, o strano, nel trattenere un bene che sta aumentando di valore. Sarebbe irrazionale fare altrimenti. E non c'è niente di strano nello spendere come un matto anche in inflazione. Le nostre aspettative sul futuro determinano ciò che facciamo oggi e specialmente nell'economia monetaria.



Soldi!

Questa tendenza a trattenere piuttosto che a spendere sta dando origine ad una nuova affermazione: i bitcoin non sono in realtà un mezzo di scambio. Non ci si può comprare un panino. Poche persone sono pagate in questa valuta. La sua adozione nel settore della vendita al dettaglio è lenta. La capitalizzazione di mercato totale alla stesura di questo articolo è di $219 miliardi, eppure il volume degli scambi non lo dimostra affatto.

Ed è vero che la maggior parte delle persone con un sacco di soldi lo stanno solo mettendo da parte. James Mackintosh, giornalista del Wall Street Journal, riassume la conclusione: "È diventato un veicolo per l'accaparramento e per il gioco d'azzardo da parte di orde di speculatori attratti dalle sue oscillazioni di prezzo".

Sto guardando ora la capitalizzazione di mercato totale dell'intero settore dei criptoasset: si avvicina ai $400 miliardi. A proposito, è più grande della capitalizzazione di mercato di JP Morgan. Questa valutazione è in mani private, crescendo di valore a ritmi incredibili. È aumentata del 1,000% nel 2017 e molte persone prevedono una crescita molto più elevata nel 2018.



Le implicazioni

Secondo la teoria keynesiana, la crescita economica è guidata dalla spesa dei consumatori, non dal risparmio, quindi chiunque stia accumulando denaro sotto il materasso sta impedendo al progresso di fare il suo corso. Gli accaparratori sono i nemici. "Ogni tentativo di risparmiare di più riducendo il consumo influenzerà allo stesso modo i redditi", scrisse J. M. Keynes, "e il tentativo necessariamente rappresenta un'auto-sconfitta". Rese popolare quello che divenne noto come il "Paradosso della Parsimonia".

Dovrebbe essere controintuitivo. Pensate che risparmiare per il futuro sia una buona cosa... ooops! State danneggiando gli altri e, alla lunga, farete del male a voi stessi. Dovreste spendere, anche indebitarvi solo per sepndere.

Ma a volte ciò che è "controintuitivo" è semplicemente sbagliato. È il nostro caso infatti. Non c'è nessun paradosso. L'intuizione è giusta. Il risparmio è una buona cosa, a livello individuale o per l'intera società. Rinviare il consumo è la condizione preliminare necessaria per consentire il risparmio. Risparmiare non è mai dispendioso. È vero che il risparmio infinito è inutile, ma non è così che funziona.

State sempre risparmiando per qualcosa. Il fine del risparmio è il consumo finale, in qualche modo. Ancora più importante per la crescita economica, il risparmio è la precondizione per gli investimenti. L'investimento è ciò che amplia la complessità della struttura della produzione. Ciò porta all'occupazione, all'espansione della divisione del lavoro e all'eventuale aumento della ricchezza.

Considerate il classico caso di Crusoe sull'isola. Ogni giorno va a pescare pesci da mangiare. Non ha tempo per tessere una rete, perché pesca sempre con un pezzo di legno. Ma ad un certo punto, si rende conto che potrebbe prenderne di più con una rete. Per guadagnare tempo, deve smettere di pescare. Così mette da parte un paio di pesci in modo che possa mangiarli senza pescare, e durante questo periodo tesse una rete. Quest'ultima gli consentirà di moltiplicare il suo pescato di 10 volte. Il differimento del consumo di oggi per una grande ricchezza complessiva domani, è ciò che rende possibile il progresso.



La politica del saccheggio

Una volta che la teoria (keynesiana) sbagliata prese piede negli anni '30, divenne una politica nazionale per incentivare il consumo rispetto alle spese. L'oro venne confiscato alle persone. La spesa pubblica, si credeva, avrebbe stimolato l'economia e avrebbe compensato la capacità o la volontà delle persone di spendere. Il gold standard stesso era stato distrutto al fine di costruire un sistema monetario che potesse essere inflazionistico – in modo che il denaro sarebbe valso di meno in futuro, motivando così il desiderio di spendere.

Tutta questa politica s'è rivelata un disastro per la crescita economica. Dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti sperimentarono un'enorme espansione a seguito dell'accaparramento che si verificò durante la Depressione e la Guerra, e questo nonostante (e non a causa) la politica federale.

Dopo l'iniziale spinta alla crescita economica, la Federal Reserve iniziò il suo percorso inflazionistico. Il tasso di risparmio personale raggiunse il picco al 15%, ma i risparmiatori erano stati accecati da un'iperinflazione che si palesò alla fine degli anni settanta, saccheggiando i risparmi accumulati nei due decenni precedenti. Nessuna sorpresa: il risparmio personale ha continuato a scendere, i redditi si sono appiattiti e la crescita economica è diventata sempre più fievole. Ai nostri tempi, l'inflazione pare sia stata domata, ma ora ci sono i tassi d'interesse prossimi allo zero, i quali nuocciono lo stesso al risparmio.


Come potete vedere dal grafico, la crisi economica del 2008 ha traumatizzato una generazione al punto che le persone hanno cominciato a risparmiare a tassi molto più alti. Nessuno aveva più fiducia che il sistema si sarebbe preso cura di loro. È stato esattamente a questo punto che è nato bitcoin, e ha creato qualcosa che è davvero l'opposto del dollaro: una valuta progettata per veder aumentare il suo valore nel tempo.

Molte delle metafore che circondano Bitcoin sono state tratte dal gold standard del vecchio mondo. Parliamo di estrazione mineraria, per esempio, e di prove di lavoro (pensate ai minatori che indossano jeans e cercano oro nei ruscelli, o battono i picconi nelle caverne). Come con l'oro, c'è un limite sulla quantità che può essere creata. Ed esistono più livelli per determinare l'autenticità e l'affidabilità nella contabilità. In un certo senso, bitcoin è stato inventato per essere la prassi monetaria anti-keynesiana definitiva.



Viva la parsimonia

Ora vediamo i risultati. I bitcoiner sono HODLer. Risparmiano. Accumulano. Si sono rivoltati contro il consumo a favore del risparmio. Lo possiamo vedere tutto intorno a noi. I giovani che hanno investito in bitcoin rifiutano il consumo di lusso. Non possiedono macchine. Vanno in bicicletta e camminano. Non spendono molto per le cene. Vivono di generi alimentari a basso costo. Sanno che tutto ciò che consumano oggi diminuirà la loro capacità di consumo, investimento e ricchezza in futuro.

Tanti saluti al Paradosso di Parsimonia. Bitcoin parla della virtù del risparmio. I sapientoni possono criticarlo quanto vogliono, a bitcoin non interessa. Inoltre non avete bisogno della teoria economica per capirlo. Dovete solo seguire i soldi.

Semmai vi siate sentiti disperati per il futuro, considerate solo quanto capitale è attualmente nel settore delle criptovalute. Verrà un tempo, forse tra cinque e quindici anni, quando tutto questo consumo differito si riverserà nell'economia mondiale sotto forma di capitale reale per costruire ricchezza e prosperità. E considerate anche che non si tratta di un'economia, né di una nazione. Parliamo di tutto il mondo: capitale e prosperità senza confini.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


lunedì 26 marzo 2018

Il canto del cigno delle banche centrali, Parte 4





di David Stockman


Lo sporco segreto della banca centrale keynesiana è che nelle attuali circostanze i suoi interventi non hanno quasi alcun impatto sul suo famoso doppio mandato: prezzi stabili e piena occupazione.

Questo perché l'inflazione di beni e servizi è una conseguenza combinata del settore bancario centrale globale. I movimenti dei capitali, del commercio, degli asset finanziari e dei tassi di cambio che derivano dalle politiche delle banche centrali mondiali, generano incessanti variazioni nell'IPC; e il flusso e riflusso di queste forze rende assolutamente vane le azioni del FOMC nei mercati monetari e obbligazionari di New York.

Nel mondo di oggi, non esiste l'inflazione in un solo Paese. A tale riguardo, lo strumento tradizionale della FED, ancorare il tasso dei fondi, è particolarmente obsoleto, impotente e ritualisticamente insensato. Dopotutto se l'obiettivo d'inflazione al 2.00% è inteso come obiettivo a lungo raggio, è stato raggiunto molto tempo fa. L'indice IPC per gennaio 2018 era a 249.2 rispetto ad un livello di 169.3 nel gennaio 2000, rappresentando quindi esattamente un aumento annuale composto del 2.17% nel corso di 18 anni.

Allora perché l'Eccles Building continua a blaterare riguardo un mancato raggiungimento di questo target?

D'altra parte, se il 2.00% è inteso come obiettivo a breve termine, di quante altre prove abbiamo bisogno? Da quando la FED è passata ad un ancoraggio profondo vicino allo zero bound nel dicembre 2008, non vi è stata alcuna correlazione tra il tasso d'inflazione e il tasso dei fondi.


Nelle sezioni qui sotto risolveremo la questione dell'inflazione una volta per tutte, dimostrando che l'idea stessa di un tasso d'inflazione al 2.00% (o qualsiasi altro target) è stupida e distruttiva. Quello che richiede il libero mercato/denaro sonante è esattamente l'opposto: una deflazione coerente e secolare in modo che i prezzi, i salari ed i costi interni (arrivati ai massimi sulla curva dei costi globali) possano dirigersi verso un allineamento competitivo migliore.

Allo stesso modo, l'obiettivo della piena occupazione è ugualmente insensato. Questo perché i canali di trasmissione della politica monetaria verso l'economia di Main Street sono rotti.

Con le famiglie impalate sul Picco del Debito, i tassi d'interesse bassi non stimolano la spesa incrementale tra prestiti e consumi: le famiglie sono state lasciate con solo i loro stipendi da spendere, e quel poco che avanza nei fondi giornalieri viene messo da parte (risparmi).

I livelli attuali e gli spread di rischio sui prestiti personali non garantiti, mostrano esattamente il perché il canale del credito alle famiglie sia congelato.

Le famiglie si portano dietro oltre $15,000 miliardi di debiti complessivi e altre passività, quindi ora tutto ciò che conta è solo il rischio di credito. Anche nel caso dei punteggi di credito più elevati, i tassi d'interesse sui prestiti a titolo personale non garantiti sono essenzialmente proibitivi e sono progettati per recuperare perdite enormi e prevedibili per crediti ingannevoli, non per stimolare uno tsunami di nuovi prestiti e spese tra i consumatori.

I tassi dei prestiti personali (non garantiti) indicati di seguito sono più o meno in linea con l'attuale TAEG medio sulle carte di credito, che si attesta al 16.15%.

Punteggi eccellenti (720-850) ........................ 10.5%-12.5%

Punteggi buoni (680-719) ............................... 13.5%-15.5%

Punteggi medi (640-679) ::::::.......................... 17.8%-19.9%

Punteggi mediocri (300-639) ........................... 28.5%-32.0%

Le uniche categorie reali in cui il credito alle famiglie sta ancora crescendo sono i prestiti agli studenti ed i prestiti per comprare automobili.

La crescita dei prestiti per auto durante l'attuale ripresa è dipesa dal valore gonfiato delle auto usate. Alla fine il boom dei prestiti per automobili si sgretolerà quando i prezzi delle auto usate scenderanno su base ciclica. Quindi il debito per auto si unirà presto al mercato dei mutui, in cui non c'è crescita. A quel punto, l'intera gamma di garanzie reali per le famiglie si sarà esaurita, assicurando in tal modo la chiusura completa del canale del credito alle famiglie.

Il fatto che praticamente tutti i canali del credito alle famiglie siano già stati bloccati, o fortemente congestionati dal Picco del Debito, è evidente nei dati sul debito delle famiglie. Secondo il rapporto sul flusso dei fondi, il debito delle famiglie è raddoppiato tra il picco del 2000 e la metà del 2008, con un tasso annuo del 9.1%.

Al contrario, negli ultimi nove anni il tasso di crescita del credito totale alle famiglie da tutte le fonti è stato solo dello 0.5% annuo.


Inutile dire che lo 0.5% annuo non rappresenta un boom della spesa al consumo. Il nostro politburo monetario può declamare fino a quando vuole che ha "stimolato" l'economia statunitense affinché tornasse alla piena occupazione, ma la crescita della spesa al consumo è stata tiepida sin dal picco pre-crisi, e ciò che è accaduto ha avuto origine principalmente nella Legge di Say, non nell'Eccles Building.

La spesa reale per il consumo (PCE) è cresciuta ad un ritmo dell'1.7% tra il quarto trimestre del 2007 e il quarto trimestre 2017, mentre le retribuzioni reali sono salite di circa l'1.4% annuo durante lo stesso periodo. Chiaramente la produzione e il reddito sono arrivati per primi e sono stati la fonte della maggior parte degli aumenti di spesa (come dovrebbe accadere in un'economia sana e sostenibile).

Al contrario, la PCE reale è cresciuta ad un ritmo annuo del 2.8% durante il ciclo da picco a picco 2000-2007, rispetto a solo l'1.7% dei salari reali. Ciò significa che l'aumento del 40% durante il boom del credito ipotecario di Greenspan è stato rappresentato da prestiti e altre fonti di spesa non acquisite.

In ogni caso, è finita la possibilità di potenziare le spese delle famiglie aumentando il ricorso al prestito e alla leva finanziaria. La spesa al consumo delle famiglie è principalmente guidata dai guadagni e dai risparmi, e la FED non ha nulla a che fare con nessuno dei due.

Infatti l'evidente deleveraging del reddito familiare sin dal 2008 dimostra che, qualunque sia stato lo stimolo della FED durante la sua campagna di stampa monetaria da $3,700 miliardi sin dall'ultima crisi finanziaria, mutui e spesa delle famiglie non c'entrano niente.


Inoltre l'unico altro canale di trasmissione della politica monetaria verso Main Street è storicamente stato il settore delle spese in conto capitale. Tuttavia, sotto gli auspici della Finanza delle Bolle della FED, i piani alti delle grandi aziende americane si sono trasformati in giunti dell'ingegneria finanziaria e sono diventati amanti della speculazione di Wall Street tramite riacquisti di azioni, operazioni di fusione & acquisizione, varie forme di LBO e ricapitalizzazioni a leva.

Quindi la FED non può più stimolare gli investimenti in beni produttivi come impianti, attrezzature e tecnologia. E questo fatto è chiaro come il giorno dai dati sulle tendenze degli investimenti delle imprese.

È possibile ottenere una crescita della produzione sia attraverso una maggiore capacità produttiva sia attraverso una migliore efficienza di strumenti, attrezzature e tecnologie. Ma prima che ciò avvenga, il capitale consumato nella produzione presente deve essere prima sostituito.

Vale a dire, ciò che conta per la crescita economica è l'investimento netto, non la spesa lorda per gli asset a reddito fisso. Naturalmente quest'ultima è la metrica preferita dai keynesiani a Washington e a Wall Street.

Nell'anno 2000, il capitale aziendale consumato nella produzione presente (ammortamenti e svalutazioni) ammontava a $1,016 miliardi rispetto ad un investimento lordo di capitale di $1,503 miliardi. Quindi la metrica per gli investimenti netti ammontava a $537 miliardi.

Avanziamo rapidamente di 17 anni attraverso la massiccia eruzione dell'ingegneria finanziaria tra i piani alti delle grandi aziende e otteniamo $1,980 miliardi di consumo annuale di capitale e $2,490 miliardi di spesa in conto capitale lorda (non residenziale). La matematica ci dice, quindi, che ci sono solo $510 miliardi di investimenti netti.

In altre parole, gli investimenti netti delle imprese oggi sono inferiori a quelli di 17 anni fa, e questo senza tenere conto dell'incremento cumulativo del 35-40% del livello dei prezzi nel frattempo.

Di conseguenza gli investimenti netti in dollari costanti sono nettamente diminuiti su base tendenziale per tutto questo secolo. Pertanto il picco massimo di $525 miliardi del 2000 è sceso del 10% al picco ciclico del 2007 ($473 miliardi) e del 13% al picco del 2014 ($457 miliardi) del ciclo attuale.

Infatti l'investimento netto in dollari costanti a $379 miliardi nel 2016 è stato del 28% inferiore al livello del 2000 e solo leggermente superiore rispetto agli investimenti netti reali di due decenni fa nel 1997.

Inutile dire che questo spiega perché gli aumenti di produttività e la crescita economica sono stati così deboli per gran parte di questo secolo fino ad oggi; quindi la politica della FED verso l'economia di Main Street non funziona più neanche attraverso il canale delle spese in conto capitale.

Il vero messaggio nel grafico qui sotto è che l'economia americana sta mangiando i semi che invece dovrebbe piantare, anche se il nostro politburo monetario la chiama erroneamente prosperità.


Alla fine il vero scandalo del settore bancario centrale è che si attribuisce meriti per cose che non causa e non può raggiungere l'economia di Main Street, ignorando il caos che scatenano sul sistema finanziario le sue macchinazioni.

Infatti il 2% di crescita durante i lunghi periodi tra le crisi finanziarie è ciò che il capitalismo fa da solo; e farebbe ancora meglio senza sussidi fiscali, barriere normative e soprattutto senza la canalizzazione (indotta dalla banca centrale) del capitale finanziario nella speculazione e nella finanziarizzazione.

Al contrario, ciò che fa il sistema bancario centrale è causare inflazione sistematica negli asset finanziari. Cioè, manipolare, falsificare e distorcere i prezzi, le curve di rendimento, gli spread creditizi e altre relazioni tra le variabili finanziarie.

Così facendo, appiattisce e deforma il delicato meccanismo del capitalismo incorporato nei mercati monetari e dei capitali; i suoi frutti putridi sono speculazioni sfrenate e bolle finanziarie distruttive a Wall Street e barriere anti-crescita su Main Street.

E questo ci porta alla follia del target dell'inflazione al 2.00%. Quest'ultimo riguarda tutti i pianificatori monetari centrali che vogliono giustificare le loro pesanti intrusioni nel sistema finanziario.

Come abbiamo visto, l'idea che la FED avesse qualcosa a che fare con l'arresto della crescita della produzione e dell'occupazione dal fondo del giugno 2009 si basa sulla retorica keynesiana ritualistica: i consumatori non hanno speso e allora gli investimenti sono precipitati.

Tuttavia prendete in considerazione i dati controfattuali. Se la FED fosse rimasta fuori dal business del credito fiat negli ultimi decenni, i tassi d'interesse per la compensazione del mercato sarebbero stati più alti. A sua volta, costi del debito e prezzi degli asset finanziari basati sul mercato avrebbero causato l'evoluzione dell'economia di Main Street in un modo completamente diverso.

In primo luogo, non ci sarebbe stato alcun LBO nazionale e quindi nessuna crescita soffocante del debito pubblico e privato. Tuttavia, come è evidente nel grafico qui sotto, i giri di debito extra imposti all'economia statunitense dai primi anni '80 sono stati accompagnati da un inconfondibile calo secolare del tasso di crescita della produzione.

Detto in modo diverso, se il coefficiente di leva nazionale fosse rimasto al suo storico 1.5X anziché salire al 3.5X di oggi, ci sarebbero circa $30,000 miliardi di debito totale per l'economia statunitense, non gli attuali $67,000 miliardi.

In assenza di questo debito incrementale da $37,000 miliardi, non abbiamo difficoltà a credere che il tasso di crescita tendenziale dell'economia statunitense sarebbe stato molto più alto del misero tasso dell'1.2% registrato sin dal 2007.


Per tre decenni consecutivi l'effetto dell'esplosione del debito di cui sopra è stato quello di permettere all'economia statunitense di spendere più di quanto abbia prodotto. Questo perché le altre principali banche centrali del mondo sono state contagiate dalle stesse illusioni keynesiane, dilaganti nell'Eccles Building sin dal 1987.

Di conseguenza quando la FED stampava, stampavano anche loro. Cioè, hanno acquistato dollari su vasta scala a causa della credenza mercantilista che la loro prosperità basata sulle esportazioni (sia nelle economie industrializzate asiatiche sia nei petro-stati) sarebbe stata messa in pericolo dai tassi di cambio in salita.

Purtroppo queste banche centrali hanno accumulato fino a $7,000 miliardi tra titoli delle GSE americane e titoli di stato dello zio Sam, e hanno scioccamente ceduto risorse reali. Ma ha anche significato che il conto commerciale degli Stati Uniti non è mai risultato in pareggio, e che i salari di base e i salari della classe media sono stati massacrati e cronicamente spostati off-shore.

A questo proposito, è importante confutare le sciocchezze di alcuni squinternati che sostengono che la bilancia commerciale non sia importante, e che gli stranieri hanno così tanta fiducia nell'America da scambiare volentieri i loro beni e servizi per la cartaccia degli Stati Uniti.

Non è vero!

In un sistema monetario sonante, i conti commerciali si bilanciano nel tempo a causa della disciplina automatica del sistema monetario. Questo perché i persistenti deficit portano alla perdita dell'asset di riferimento (oro) a favore dei creditori stranieri e ad un corrispondente aumento dei tassi d'interesse interni e alla deflazione della domanda, dei costi, dei prezzi e dei salari.

Alla fine, le importazioni diminuiscono, le esportazioni aumentano, si riequilibra la bilancia dei pagamenti e il conto delle partite correnti, e le economie nazionali vanno avanti, ma non si piantano permanentemente nel debito. Al contrario, i disavanzi commerciali cronici dell'America sono un prodotto del denaro fiat, non del libero mercato.


Come dimostreremo nella Parte 5, il grafico qui sopra non si sarebbe mai materializzato in un sistema monetario sonante. Invece del 2% d'inflazione (sia mirata che effettiva), il livello dei prezzi e dei costi interni sarebbe diminuito costantemente in risposta al flusso di manodopera a basso costo tra le risaie dell'Asia e l'energia a basso costo proveniente dalle sabbie del Golfo Persico.

Soprattutto, l'anomalia nel grafico qui sotto non si sarebbe mai manifestata. I lavoratori hanno ottenuto aumenti nominali del 250% sin dal 1987 (linea rossa), ma gli aumenti reali (linea blu) sono stati praticamente stagnanti. L'effetto risultante è stato uno spostamento della produzione off-shore e il sacrificio dei posti di lavoro della classe media e dei livelli salariali.


Ed ecco l'ennesima ironia del settore bancario centrale keynesiano: con l'obiettivo di risolvere un inesistente problema di presunta instabilità ciclica e crescita parziale di Main Street, ha in realtà brutalizzato gli standard di vita della classe media e ha migliorato quelli di coloro già ricchi.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://francescosimoncelli.blogspot.it/


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