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mercoledì 9 febbraio 2022

Il rialzo dell'inflazione può essere interamente spiegato dal caos nelle supply chain?

 

 

di Nicolas Cachanosky

Solo pochi mesi fa sentivamo che l'inflazione non era un problema, che nel peggiore dei casi sarebbe stata una condizione transitoria. Ora sentiamo dalla Federal Reserve che l'inflazione è un motivo di preoccupazione che richiede un'azione significativa. Le autorità monetarie sono passate molto rapidamente da "niente di grave" a "dobbiamo agire ora".

Abbiamo anche visto spiegazioni del motivo per cui l'inflazione è aumentata ultimamente: supply chain. Questa spiegazione si riferisce a lunghe file di container nei porti in attesa di essere scaricati, carenza di manodopera e carenza di input critici come i chip necessari per la produzione di automobili, ecc. La spiegazione legata alle supply chain è sufficiente? Mentre un primo sguardo all'argomento sembra avere un senso, un esame più attento suggerisce che questo problema potrebbe non svolgere un ruolo importante in uno scenario di inflazione permanente. Infatti l'inflazione è correlata alla politica monetaria.

La definizione da manuale di inflazione è un aumento sostenuto del livello generale dei prezzi. Uno shock nelle catene di approvvigionamento che colpisce pochi beni, difficilmente produrrebbe inflazione. Se le auto diventano più costose a causa della carenza di circuiti nelle catene di approvvigionamento, i soldi extra spesi per i veicoli significano meno soldi spesi per altri beni; pertanto il prezzo delle automobili aumenterebbe ed il prezzo degli altri beni scenderebbe. Sarebbe un cambiamento dei prezzi relativi, non un cambiamento nel livello generale dei prezzi. Affinché si verificasse quest'ultimo caso, dovrebbe esserci un massiccio shock nelle supply chain dimodoché le carenze interessino tutti o la maggior parte dei beni. Non è chiaro se questa sia la situazione che stiamo affrontando: ad esempio, la mancanza di circuiti per costruire automobili difficilmente spiega l'aumento dei prezzi nel mercato immobiliare. Un primo problema, quindi, è la probabilità che i problemi delle catene di approvvigionamento possano influenzare il livello generale dei prezzi.

Un secondo problema riguarda tempi e ritardi. È noto che un eccesso di offerta di denaro incide sul livello dei prezzi con ritardi lunghi e variabili. Potrebbe volerci più di un anno prima che uno shock monetario influisca completamente sul livello generale dei prezzi. Uno shock di offerta, tuttavia, ha un ritardo molto più breve. Quando si verifica un disastro naturale, ad esempio, i rialzi dei prezzi si manifestano quasi immediatamente anziché mesi dopo l'evento. Se gli shock reali influiscono sui prezzi più velocemente degli shock nominali, l'attuale colpa affibbiata alle catene di approvvigionamento ha un problema perché non c'è niente di nuovo qui: le carenze nelle supply chain sono iniziate nel 2020 con lo scoppio del Covid-19 e le relative restrizioni all'attività commerciale.

Un terzo problema è che suddetta spiegazione non è coerente con un'inflazione permanente. Gli shock nell'offerta sono in genere un evento occasionale: un disastro naturale vi colpisce una volta, facendo salire il livello dei prezzi una volta. Se l'inflazione sarà permanente, è improbabile che sia a causa di una serie di shock dell'offerta perché dovremmo vedere una serie continua di shock negativi nelle supply chain. Tuttavia ciò che osserviamo è che il commercio si è aperto di nuovo anziché chiudersi ancora di più. Le attività come ristoranti e bar hanno aperto di più e anche se le catene di approvvigionamento sono state influenzate negativamente dall'identificazione della variante Delta la scorsa estate e dalla variante Omicron in autunno, è improbabile che la malattia si traduca in un tasso di inflazione più elevato e permanente. Più l'inflazione diventa permanente, più è difficile che gli shock dell'offerta siano una spiegazione valida.

Perché allora la politica monetaria non viene additata come causa dell'inflazione? Sospetto che ci siano due ragioni. La prima: si dice che sin dalla crisi del 2008 la FED abbia aumentato l'offerta di denaro in maniera massiccia, senza altresì innescare alcun aumento significativo nel livello dei prezzi. Gli shock monetari, quindi, sembrano estranei all'inflazione, di conseguenza l'inflazione attuale deve essere una spiegazione dal lato dell'offerta. Il problema, ovviamente, è che l'inflazione non dipende solo dalla base monetaria, dipende da un aggregato monetario più ampio come M2 e dal comportamento di altre variabili come la domanda e la produzione di denaro. Poiché l'aumento della base monetaria non si è tradotto in aumenti di M2 (la maggior parte dell'espansione monetaria rimane sotto forma di riserve in eccesso presso la FED), non ci si dovrebbe aspettare un aumento del livello dei prezzi. Il motivo per cui ora vediamo l'inflazione è perché qualcosa è cambiato di recente. Come ho spiegato in un post precedente, le recenti politiche del governo federale hanno incanalato denaro direttamente verso consumatori ed aziende. Sono d'accordo con John Cochrane sul fatto che gli stimolo fiscali siano un ottimo candidato per spiegare il recente aumento dei tassi d'inflazione. C'è la percezione che dopo il 2008 il legame tra offerta di denaro e livello dei prezzi si sia rotto e che, quindi, gli shock nominali non possano spiegare l'inflazione. Tale percezione è sbagliata: il collegamento non è stato interrotto, in realtà il meccanismo di trasmissione è cambiato.

Un secondo motivo è di natura politica. È più conveniente per il governo federale sostenere che l'inflazione sia dovuta a shock nelle catene di approvvigionamento o altri capri espiatori (come le società malvagie) piuttosto che ammettere che sia opera propria. Riuscite ad immaginare l'amministrazione Biden che ammette che l'American Rescue Plan e tutti quegli assegni inviati alle famiglie in tutto il Paese incarnano una parte importante dei motivi per cui oggi abbiamo un'inflazione più alta?

Naturalmente gli shock dell'offerta possono avere un certo impatto sul livello dei prezzi. Tuttavia questa spiegazione dell'inflazione dal lato dell'offerta non si adatta bene a tassi d'inflazione permanenti o elevati, specialmente quando li vediamo insieme. Una volta che si passa dal regno dei piccoli movimenti del livello dei prezzi ad uno scenario più permanente e più elevato, è più probabile che la fonte dell'aumento del livello dei prezzi sia sul lato monetario, anche se il governo federale non vuole ammetterlo.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


giovedì 6 gennaio 2022

Criptovalute e National Banking Act: come apprendere la lezione sbagliata dalla storia

 

 

di Nicolas Cachanosky & William Luther

I policymaker sono stati rapidi nel paragonare le criptovalute col periodo storico in cui le banche erano "libere di fare ciò che volevano". Il presidente della SEC, Gary Gensler, sostiene che le stablecoin siano simili alle banche slegate da regolamentazione centrale, come accadeva prima del National Bank Act. Le stablecoin sono criptovalute con un tasso di cambio fisso rispetto alle principali valute fiat, come il dollaro ad esempio. Per fare ciò chi emette le stablecoin deve detenere riserve liquide sufficienti per convertirle al tasso di conversione promesso. Gensler mette in dubbio la “redditività a lungo termine delle criptovalute”, come riporta il Wall Street Journal, “sottolineando l'importanza di proteggere gli investitori portando tale mercato sotto controllo normativo”.

La senatrice Elizabeth Warren ha espresso un parere simile:

Nel XIX secolo le "banconote selvagge" venivano emesse da banche senza asset sottostanti. E alla fine le banche che le emettevano andavano fallite e la fiducia della popolazione nel sistema bancario veniva indebolita. Il governo federale intervenne, tassò queste banconote e sviluppò invece una valuta nazionale. Ed è per questo che abbiamo avuto la stabilità di una valuta nazionale.

Quindi, in teoria, una valuta digitale emessa e supportata da una banca centrale potrebbe fornire i vantaggi delle criptovalute senza tali rischi. La Federal Reserve, un'istituzione di fiducia, potrebbe fornire alla popolazione una versione digitale del denaro che sia sicura, stabile e accettata ovunque.

Secondo lei il settore privato non regolamentato non è riuscito a produrre un sistema monetario affidabile in passato; lo stato dovrebbe intervenire per rimediare alle carenze percepite nelle criptovalute emesse privatamente, come ha fatto con i suoi antecedenti storici.

C'è solo un problema con questa narrazione: non è coerente con la storia. L'esperienza statunitense non mostra i pericoli posti da un sistema bancario non regolamentato: al contrario, dimostra chiaramente i pericoli di una cattiva regolamentazione. I politici hanno appreso le lezioni sbagliate dalla storia.

Tanto per cominciare, il sistema bancario non regolamentato era incredibilmente raro. Gensler e Warren perpetuano il mito che il sistema bancario commerciale fosse invaso da istituti che emettevano banconote convertibili in oro o argento senza le riserve sufficienti per onorare quelle promesse e fuggivano col malloppo prima che i legittimi proprietari se ne accorgessero; e che questa "tradizione" non terminò fino a quando non intervennero i regolatori federali. Infatti il sistema bancario non regolamentato era limitato a pochi stati e durò solo pochi anni.

"Gli eventi in Michigan sono spettacolari", scrive Jerry Dwyer, "ma oltre a non durare molto a lungo, non sono nemmeno persistiti nel senso che non sono riapparsi in altri stati. Nel 1838, mentre il Michigan stava soffrendo per la sua debacle, New York approvò la legge sul free banking, cosa che la sua legislatura stava discutendo da diversi anni. Il sistema free banking di New York è ampiamente considerato di notevole successo".

Dwyer ci informa delle perdite di chi deteneva banconote connesse al sistema free banking a New York dal 1842 al 1863.

I tassi di perdita annuali sulle banconote di New York erano relativamente alti negli anni Quaranta dell'Ottocento – 4% nel 1842, 0,2 percento nel 1844 e 0,4 percento nel 1848 – e poi mai più dello 0,1%. Quest'ultimo tasso, ricordiamolo, comprendeva anche perdite dovute alla distruzione involontaria o alla collocazione errata delle banconote.

Forse il 4% sembra abbastanza alto, ma non è molto più alto delle commissioni standard di oggi sui terminali commerciali per effettuare pagamenti.

Dwyer parla anche delle perdite per coloro che detenevano banconote di quelle banche di New York che poi sarebbero fallite.

Per alcuni anni i tassi di perdita sulle banconote di queste banche risultarono relativamente alti. Tuttavia queste perdite videro una progressiva diminuzione nel tempo come accadde per i tassi di perdita precedenti. Il tasso più alto fu del 42% nel 1842, all'interno della gamma dei tassi di perdita stimati per il Michigan alcuni anni prima. Negli anni Quaranta dell'Ottocento, il tasso di perdita medio annuo era del 9,8%, nel 1850 del 3,7% e nei quattro anni del 1860 fu dello 0,1%. Sebbene il tasso di perdita sopportato da coloro che detenevano banconote fallite a volte risultava notevole, anche questo tasso di perdita diminuì nel tempo.

Anche quando una banca andava in bancarotta, quindi, chi ne usava le banconote in genere ne soffriva poco.

Nulla di tutto questo nega che ci fossero problemi nel sistema bancario statunitense di allora. Le banche statunitensi erano notoriamente instabili, ma essa non era dovuta alla mancanza di regolamentazione bensì alle norme terribili a livello statale.

Prima del National Banking Act, le banche erano istituite a livello statale. Non erano autorizzate ad aprire filiali oltre i confini di stato e molti stati andarono addirittura oltre impedendo l'apertura di filiali bancarie all'interno dello stato stesse. Di conseguenza il sistema bancario statunitense era caratterizzato da un gran numero di banche di piccole dimensioni e poco diversificate. Queste banche locali erano sovraesposte alle loro piccole economie locali e gli shock locali, come il maltempo, che riduceva i raccolti agricoli, avevano un impatto terribile sui loro bilanci. E, in molti casi, queste banche andavano in bancarotta.

Alle banche era inoltre impedito di sostenere le proprie banconote con asset di propria scelta. Invece erano spesso tenute a detenere buoni del Tesoro statali di bassa qualità, i quali fornivano un'attraente fonte di credito agli stati locali ma mettevano in pericolo la solvibilità delle banche. E, anche nei casi in cui erano autorizzate a detenere obbligazioni federali, la diminuzione dell'offerta di tali obbligazioni a seguito della guerra civile limitò l'emissione di banconote e rese incredibilmente difficile soddisfare la domanda stagionale di banconote.

George Selgin contrappone il sistema bancario statunitense a quello canadese, il quale non era gravato dalle restrizioni sopra descritte.

Le banche canadesi, a differenza delle loro controparti statunitensi, erano libere di emettere banconote in base agli stessi attivi a sostegno delle loro passività rappresentate dai depositi. Di conseguenza erano perfettamente in grado di accogliere sia i cambiamenti secolari che quelli stagionali della domanda di denaro.

Il problema, in altre parole, non era la mancanza di regole ma l'esistenza di norme terribili!

Infine anche l'affermazione secondo cui il governo federale ha chiaramente migliorato le cose con l'introduzione del National Banking Act non è in sintonia con i dati storici. Tale legge non consentiva alle banche di ramificarsi oltre i confini statali. Piuttosto imponeva l'unità bancaria sull'intero Paese! Né consentiva alle banche di sostenere i propri crediti con qualsiasi asset desiderassero. Forse è per questo che poche banche cambiarono i loro atti costitutivi statali con quelli nazionali quando inizialmente ne ebbero l'opportunità – e non lo fecero fino a quando non venne approvata  una tassa considerevole sulle banconote statali.

Il National Banking Act avrebbe potuto offrire un'alternativa migliore, ma non è stato così. Invece spinse le banche ad accettare un'alternativa peggiore.

Forse il mercato delle criptovalute trarrebbe vantaggio dalla supervisione normativa, ma i burocrati hanno certamente torto a basare la loro tesi sull'esperienza storica degli Stati Uniti. La lezione che dovrebbero apprendere dalla storia è che la regolamentazione centralizzata può solo essere dannosa.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


giovedì 31 luglio 2014

Comprendere l'incombente default dell'Argentina

Sono già passati due anni da quando su queste pagine si avvertiva di un crollo dell'Argentina a causa della sua sconsideratezza economica. Eccesso di debito e lassismo nella politica monetaria hanno fatto da padroni nella conduzione degli affari economici del paese, truccando le statistiche ufficiali per nascondere sotto il tappeto la "sporcizia" accumulata. Il Venezuela e l'Ecuador sono nella stessa situazione, ma sotto i riflettori al momento c'è il governo della Kirchner. Quest'ultima, insieme ad Hugo Chavez, ha rappresentato quanto di più deletereo ci possa essere nella repressione delle libertà civili ed economiche. Purtroppo l'America Latina è un coacervo di ideologismo anti-libero mercato che fa del populismo il suo cavallo di battaglia (anche se ci sono paesi che stanno cercando di liberarsi da queste pastoie mentali, come il Brasile, il Perù, il Paraguay, il Cile, la Colombia), pensando, di conseguenza, di poter portare prosperità attraverso tanti foglietti di carta colorata. Sebbene abbiano la loro dose di colpe, non bisogna dimenticare anche l'influenza della politica monetaria USA in questi paesi. I paesi sudamericani, infatti, sono grandi esportatori di materie prime, settori particolarmente sensibili ai cicli economici. Possiamo affermare, quindi, che non è un caso se negli ultimi 30 anni le due crisi più grandi che hanno attanagliato l'America del Sud, siano coincise con il periodo più espansivo della politica della FED (es. 1980; 2009).
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di Nicolás Cachanosky


Al momento in cui scrivo, l'Argentina è a pochi giorni di distanza da un default per i suoi debiti. Come è potuto accadere tre volte in soli 28 anni?

Dopo il default del 2001, l'Argentina nel 2005 ha offerto una conversione del debito (ristrutturazione del debito) ai suoi creditori. Molti obbligazionisti hanno accettato l'offerta argentina, ma alcuni di loro no. Coloro che non hanno accettato la conversione del debito sono chiamati i "contrari". Quando l'Argentina ha iniziato a pagare le nuove obbligazioni a chi ha accettato la conversione del debito (i "favorevoli"), i contrari hanno portato l'Argentina in tribunale ai sensi del diritto di New York, la giurisdizione in base alla quale è stato emesso il debito argentino. Dopo che la Corte Suprema degli Stati Uniti ha rifiutato di ascoltare il caso argentino poche settimane fa, la sentenza del giudice Griesa è divenuta definitiva.

Tale sentenza impone all'Argentina di pagare il 100% del suo debito nei confronti dei contrari, mentre deve continuare a pagare ai "favorevoli" le cedole dei bond ristrutturati. All'Argentina non è consentito, come recita la sentenza di Griesa, di pagare alcuni creditori e altri no. La data del pagamento era il 30 giugno scorso. Poiché l'Argentina ha mancato il suo pagamento, ora è sotto un periodo di grazia di 30 giorni. Se l'Argentina non paga entro la fine di luglio finirà, ancora una volta, formalmente in default.

Si tratta di un caso complesso che ha prodotto diverse interpretazioni da parte di analisti e responsabili di politica. Alcune di queste interpretazioni, però, non sono fondate.



Come l'Argentina E' Diventata un Cattivo Debitore

Una comprensione della situazione argentina necessita di un contesto storico.

All'inizio degli anni '90, l'Argentina implementò la Legge della Convertibilità come misura per frenare la banca centrale e mettere fine all'iperinflazione che aveva avuto luogo alla fine degli anni '80. Questa legge fissava il tasso di cambio peso/dollaro ad 1:1 e dichiarava che la banca centrale poteva emettere pesos solo in rapporto alla quantità di dollari che entrava nel paese. La Legge della Convertibilità era più di un semplice tasso di cambio fisso. Era una disposizione di legge che trasformava la banca centrale in un comitato valutario in cui i pesos erano convertibili in dollari ad un rapporto "uno a uno". Tuttavia, poiché la banca centrale aveva una certa flessibilità nell'emettere pesos rispetto all'afflusso di dollari, è meglio descriverla come un comitato valutario "eterodosso" piuttosto che "ortodosso".

Comunque, nell'ambito di questo sistema, l'Argentina non poteva monetizzare il proprio deficit come fece negli anni '80 sotto il governo di Ricardo Alfonsin. Fu la monetizzazione del debito che produsse l'alta inflazione che si concluse in iperinflazione. A causa della Legge della Convertibilità degli anni '90, il governo di Carlos Menem non poteva finanziare il deficit fiscale con denaro facile. Così, invece di ridurre il deficit, Menem cambiò il modo in cui veniva finanziato: da uno schema basato sull'emissione di denaro ad uno schema basato sul debito estero. Il debito estero era in dollari e questo permise alla banca centrale di emettere i pesos corrispondenti.

L'Argentina degli anni '90 era già andata in default sei volte sin dalla sua indipendenza dalla Spagna nel 1816 (probabilmente un terzo della storia argentina ha avuto luogo in uno stato in bancarotta), e come se non bastasse assicurava una tutela istituzionale discutibile dei contratti e dei diritti di proprietà. Con il risparmio interno distrutto dopo gli anni dell'alta inflazione degli anni '80 (e degli anni precedenti), l'Argentina dovette rivolgersi ai fondi internazionali per finanziare il suo deficit. E a causa della mancanza di credito, l'Argentina dovette "importare" credibilità giuridica mediante l'emissione dei suoi titoli sotto la giurisdizione di New York. Se ci fosse stato un contenzioso con i creditori, l'Argentina dichiarò che avrebbe accettato la decisione della corte di New York.

Molti oppositori della sentenza di oggi sostengono che i creditori dell'Argentina hanno cospirato per togliere sovranità alla nazione sudamericana, ma la responsabilità è del governo argentino in sé che ha stabilito una lunga storia di inaffidabilità nel pagamento dei suoi debiti.



La Strada Verso l'Ennesimo Default

Questi bond degli anni '90 avevano due caratteristiche importanti, oltre ad essere emessi sotto la giurisdizione legale di New York: la presenza della clausola paripassu e l'assenza della clausola dell'azione collettiva. La clausola paripassu sostiene che l'Argentina si impegna a trattare tutti i creditori a parità di condizioni (in particolare per quanto riguarda i pagamenti delle cedole e del capitale). La clausola dell'azione collettiva stabilisce che nel caso di una ristrutturazione del debito, se una certa percentuale dei creditori accetta la conversione del debito, allora i creditori che rifiutano l'offerta (i "contrari") devono accettare automaticamente i nuovi bond. Tuttavia, quando l'Argentina è andata in default alla fine del 2001, i bond coinvolti includevano la clausola paripassu ma non quella dell'azione collettiva da parte dei creditori.

In base al contratto che l'Argentina offriva ai suoi creditori, che non includeva la clausola dell'azione collettiva, qualsiasi creditore aveva il diritto di ricevere un rimborso del 100%, anche se il 99.9% dei creditori avesse deciso di accettare una conversione del debito. E questo è esattamente quello che è successo con il default del 2001. Quando l'Argentina ha offerto le nuove obbligazioni ai suoi creditori a seguito del default, i "contrari" hanno fatto sapere all'Argentina che ai sensi del contratto stipulato avevano ancora il diritto ad un rimborso del 100% secondo la "parità di condizioni" (clausola paripassu). Cioè, l'Argentina deve pagare i "favorevoli" senza astenersi dal pagare anche i "contrari".

I governi di Nestor Kirchner e Cristina Kirchner, tuttavia, nell'ennesimo atto di disprezzo per le istituzioni, hanno deciso di ignorare i contrari al punto da cancellarli come creditori nei loro rapporti ufficiali (uno dei motivi per i quali il livello del debito sul PIL risulta più basso nelle statistiche ufficiali rispetto alla realtà).

Potremmo dire che il giudice Griesa non ha dovuto far altro che leggere il contratto che l'Argentina aveva offerto ai suoi creditori. Nonostante ciò, molto è stato detto in Argentina (e all'estero) su come la sentenza del giudice Griesa abbia danneggiato la sicurezza giuridica delle obbligazioni sovrane e della ristrutturazione del debito.

Il problema non è la sentenza del giudice Griesa. Il problema è che l'Argentina aveva deciso di preferire ancora una volta il deficit e la spesa pubblica sfrenata al pagamento dei suoi obblighi. La sentenza di Griesa suggerisce che un default non può essere utilizzato come strumento politico per ignorare i contratti. In effetti, i paesi con economie emergenti dovrebbero ringraziare la sentenza del giudice Griesa poiché questo permette loro di prendere in prestito a tassi più bassi, dato che molti di questi paesi o non sono in grado o non vogliono offrire protezione giuridica credibile ai propri creditori. Una sentenza favorevole al governo argentino avrebbe permesso al governo di violare i propri contratti, rendendo ancora più difficile l'accesso ai capitali ai paesi poveri.

Possiamo semplificare la nostra tesi proponendo un'analogia su scala minore. Provate a spiegare alla vostra banca che dopo aver sperperato i vostri guadagni per oltre un decennio, ora avete il diritto di non pagare il mutuo con il quale avete acquistato la vostra casa. Quando la banca vi porta in tribunale, spiegate al giudice che siete una povera vittima di avvoltoi malvagi e che avete il diritto di ignorare i creditori, poiché non avevate voglia di cambiare le vostre abitudini economicamente insostenibili. Quando il giudice vi dà torto, provate a spiegare al mondo come la decisione del giudice sia un'ingiustizia che mette a repentaglio il mercato bancario internazionale (come ha fatto di recente il governo argentino). Provate ora a giustificare la posizione del governo argentino.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/