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martedì 24 agosto 2021

Da una crescita economica veloce ad una crescita zero fino alla decrescita

 

 

di Richard Salsman

L'aumento della prosperità nel corso delle generazioni è reso possibile da ciò che gli economisti chiamano, a breve termine, crescita economica; la prosperità è il concetto più ampio, in quanto implica non solo una maggiore produzione (crescita economica), ma una qualità della produzione apprezzata dagli acquirenti. La stessa prosperità porta qualcosa di più concreto: un tenore di vita più elevato. Con ciò godiamo di una salute migliore, di una vita più lunga e di una maggiore felicità.

Sfortunatamente per coloro che desiderano standard di vita più elevati in America, le misure empiriche mostrano che il tasso di crescita economica sta rallentando. Non è affatto un problema transitorio; accade da decenni e coincide con aumenti di produttività più lenti. Purtroppo pochi leader nel mondo accademico, economico e politico riconoscono la cupa tendenza; pochi possono spiegarla ed alcuni addirittura la preferiscono. Alcuni la attribuiscono alla "stagnazione secolare", ma è più un termine descrittivo che esplicativo.

Prima basiamo la nostra discussione sui fatti. Il grafico seguente riassume i tassi di crescita in due misure comuni della crescita economica degli Stati Uniti: il prodotto interno lordo (PIL) reale (aggiustato all'inflazione) e l'indice della produzione industriale (IPI, che registra la produzione reale, l'estrazione mineraria ed i servizi di pubblica utilità). L'IPI esclude il settore dei servizi, che ha rappresentato una quota crescente della produzione totale degli Stati Uniti negli ultimi decenni, ma questo da solo non deve comportare un rallentamento della crescita dell'indice. Tuttavia il grafico chiarisce che la crescita dell'IPI americano è notevolmente rallentata negli ultimi due decenni.

È noto che economisti ed analisti di mercato prevenuti "scelgono con cura" i loro dati e periodi di tempo per spingere nozioni preconcette, quindi usiamo le due misure di crescita comuni e più ampiamente accettate, nonché periodi di tempo ampi e comparabili. Evitiamo così anche la tentazione di attribuire prestazioni disparate a questo o quel presidente o partito politico (come è anche abitudine degli investigatori di parte). Nella seguente grafico analizzo i dati in tre periodi uguali: 1960-1980, 1980-2000 e 2000-2020. Calcolo anche i tassi di crescita annui composti in ciascuna misura.

Il rallentamento dei tassi di crescita americani negli ultimi sei decenni è peggiorato con il passare del tempo. Anche PIL e IPI raccontano una storia simile. Il PIL è cresciuto del 3,8% all'anno dal 1960 al 1980, poi del 3,4% all'anno dal 1980 al 2000 e solo dell'1,8% all'anno dal 2000. L'IPI inizialmente è salito del 4,3% all'anno (1960-1980), ma poi solo del 3,0% all'anno nel periodo intermedio (1980-2000), e peggio, solo dello 0,3% annuo dal 2000. Anche il Giappone ha subito una crescita dell'IPI vicino allo zero per decenni, ma ha iniziato a ristagnare un decennio prima (nel 1990).

Considerate alcune delle implicazioni intergenerazionali nel grafico qui sopra. Se un'economia può crescere del 4,3% all'anno (il numero più alto nel grafico), raddoppierà la sua capacità produttiva ogni 16 anni. Se viveste in un'economia così solida per tutta la tua vita (presumiamo 70 anni), sperimentereste un'economia venti volte più produttiva di quanto fosse all'inizio. Il miglioramento del tenore di vita sarebbe materiale e notevole. Molti americani negli anni Quaranta potevano raccontare, con stupore, un cambiamento straordinario se avessero guardato indietro agli anni Settanta del XIX secolo. Questo non poteva essere detto da molte popolazioni (o Paesi) nei decenni a partire dagli anni '40.

Se invece del 4,3% annuo un'economia può crescere solo dello 0,3% annuo (il numero più basso nel grafico), non sono necessari 16 anni ma 233 anni per raddoppiare la sua capacità produttiva (in 7-8 generazioni). Se viveste in un'economia così stagnante per tutta la vostra vita, sarebbe solo il 23% più produttiva. Non sarebbe cambiato molto, in meglio, durante quel periodo (supponendo che l'avanzata venisse da una base simile a quella per il cambio multiplo). La vostra esperienza di vita probabilmente sarebbe come quella degli anziani americani nel 1740, appena prima della Rivoluzione Industriale (e dell'adozione delle istituzioni capitaliste), quando i settant'anni precedenti non avevano visto miglioramenti economici così stupendi come quelli che sarebbero seguiti.

Sia la storia che la teoria dimostrano che il capitalismo è la fonte di grandi (e sostenibili) guadagni di prosperità. Questo perché è il sistema che meglio conserva, protegge e difende il libero funzionamento di mente, spirito e corpo, ciò che lascia libere di pensare le migliori menti umane, ciò che premia innovatori e creatori di ogni tipo, in ogni campo – anche nelle scienze, negli affari, nella politica e nelle arti. Il capitalismo raggiunge questo obiettivo perché è un sistema composto unicamente da diritti di proprietà privata, stato di diritto, scopo di lucro, modello di governo societario per gli azionisti, denaro sano ed onesto, regolamentazione minima, tasse basse (ed uniformi) e libero scambio.

Poi esistono anche sistemi politico-economici ibridi; anzi, dominano oggi. Ma le verità ed i principi di base valgono ancora, così come i principi della nutrizione, anche se un diabolico dietologo potrebbe raccomandare una dieta ibrida di cibi freschi e marci. Nella misura in cui un'economia è capitalista, sarà dinamica, prospera e in crescita; sarà innovativa e vedrà progressi tecnologici. Non affronterà limiti tecnici o esistenziali che vincolano i sistemi non capitalisti. Nella misura in cui un'economia affronta atteggiamenti e politiche anti-capitaliste, sarà statica, impoverente e stagnante. L'economia in crescita produrrà risultati più diseguali, ovviamente, a causa di talenti, ambizioni e scelte di carriera naturalmente disuguali; l'economia stagnante vedrà risultati più uguali – ad eccezione dei pochi oligarchi favoriti – proprio come preferiscono gli egualitari, nonostante meno libertà e standard di vita inferiori.

Gran parte del grave rallentamento della crescita americana negli ultimi due decenni (e rallentamenti simili a livello globale) è attribuibile all'aumento della spesa pubblica, della tassazione e della regolamentazione, che ho documentato in studi precedenti ("Man mano che lo stato cresce, diminuisce la prosperità" e "Il neoliberismo dal lato dell'offerta batte sicuramente l'alternativa"). Alcuni economisti attribuiscono i rallentamenti economici alla crescita tecnologica più lenta, ma questa è un'influenza più immediata (e tecnica) che non nega necessariamente le cause istituzionali che ho sottolineato. Né la tecnologia opera inspiegabilmente o in modo esogeno rispetto "all'economia" stessa. Anche una crescita più lenta della tecnologia non è inevitabile; sarà lo stesso un risultato se c'è tassazione e regolamentazione eccessive.

Negli ultimi decenni ci sono stati molti più importanti sostenitori di questo mix di politiche anti-capitaliste rispetto al numero di influenti pro-capitalisti. Gli anti-capitalisti non possono più eludere così apertamente l'evidenza che il capitalismo è l'unico motore vitale della prosperità, che "fornisce i beni". Preferiscono spingere l'idea che non c'è niente di buono in una produzione sempre maggiore di beni.

I primi anti-capitalisti insistevano sul fatto che il capitalismo avrebbe impoverito il lavoro, per poi suicidarsi tra le rivoluzioni operaie; invece il capitalismo ha prodotto un'abbondanza stupenda e senza precedenti. Ha creato un'enorme classe media, la quale fu derisa dai socialisti. Invece di ammettere il loro errore e diventare pro-capitalisti, i successivi anti-capitalisti hanno cambiato il loro criterio e hanno insistito sul fatto che l'abbondanza in sé era irrilevante (a causa della disuguaglianza o del tempo libero insufficiente), oppure era pericolosa (per il pianeta, o la longevità umana) e “insostenibile”. Gli anti-capitalisti "predicevano la fine del capitalismo" da più di 150 anni, riflettendo ciò che un autore recente definisce una serie perpetua di "disavventure intellettuali". Infatti un grosso problema è che tanti anti-capitalisti sono anche anti-intellettuali, essendosi convinti che fattori non volitivi governino il mondo.

La “fine del capitalismo” è possibile, certo, ma per sua natura non morirà di sua spontanea volontà, per cause “naturali” (nonostante il dogma dei primi anti-capitalisti); può essere assassinato con una corda intorno al collo, mentre sanguina per un migliaio di tagli inflitti non da "lavoratori" scontenti o persino amministratori delegati "svegli", ma dai nuovi anti-capitalisti non lavoratori.

Che la robusta crescita economica in America non sia più nemmeno un'aspettativa o una priorità dei politici può essere visto nel fatto che l'amministrazione Biden quest'anno ha emesso un budget decennale con l'ipotesi di una crescita del PIL a lungo termine di solo l'1,8% per anno. Questo è il tasso medio negli ultimi vent'anni di relativa stagnazione economica; almeno non prevede un ulteriore rallentamento, ma questo non dice molto. Si potrebbe attribuire agli statistici il merito di essere conservatori, o "realistici", nella loro prospettiva, ma potrebbero anche dichiarare di sapere che le politiche di Biden causeranno stagnazione economica e in cuor loro lo sanno. Li loderei per la franchezza, ma non se sono avversi a standard di vita più elevati.

L'evidenza è chiara: l'America, una volta la nazione economicamente più solida del mondo, è passata da una crescita rapida ad una crescita zero; e la politica ora accetta la stagnazione come una norma, un obiettivo, un "ideale". Il prossimo passo, da un'amministrazione ancora più radicale in un futuro non troppo lontano, potrebbe essere una spinta alla “decrescita”, che significa successive contrazioni della produzione economica. Gli scritti e le proposte di “decrescita” esistono da molti anni e si stanno moltiplicando (a cominciare dal libro del 2009, Farewell to Growth, di Serge Latouche). Se l'odierna preferenza per la crescita lenta può essere così facilmente normalizzata, allora la stessa cosa può accadere anche con la decrescita. Il principio è lo stesso – che la prosperità umana è irrilevante, o secondaria – e differisce solo nel grado. Ricordate, Principi di economia politica di J. S. Mill (1848), che furono pubblicati nello stesso anno del Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels, includeva una sezione che esaltava "lo Stato stazionario".

Gli accoliti della decrescita di oggi sono una minoranza, ma decenni fa anche i fan della crescita lenta erano una minoranza; i primi vogliono che le nazioni più avanzate ritornino ai tempi (e agli standard di vita) pre-capitalisti. Mentre alcuni anti-capitalisti desiderano ardentemente la fine del capitalismo e bramano una futura utopia di ricchezza non capitalista (una contraddizione), altri tra di loro bramano il mondo conosciuto prima del capitalismo, il mondo non capitalista che era fondamentalmente feudale e medievale.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


giovedì 19 agosto 2021

Il Giappone ed i suoi tre decenni di pacchetti di stimoli depressivi

 

 

di Richard Salsman

Il New York Times riporta che "il Giappone approva nuovi stimoli da $1.100 miliardi per combattere la crisi sanitaria". Come elabora il Times, lo “stimolo record del Giappone da ¥117.000 miliardi, che sarà finanziato in parte da un secondo budget extra, ha seguito un altro pacchetto da ¥117.000 miliardi approvato il mese scorso. Il nuovo pacchetto porta la spesa totale del Giappone per combattere la crisi sanitaria a ¥234.000 miliardi, ovvero circa il 40% del prodotto interno lordo. I pacchetti (quest'anno) hanno portato la dimensione del budget ad un record di ¥160.000 miliardi, con nuove emissioni di obbligazioni che rappresentano il 56,3% delle entrate annuali e hanno sollevato lo spettro di ulteriori emissioni obbligazionarie per compensare il calo delle entrate fiscali”.

È uno “stimolo record”, sentenzia il Times. Roba eccitante! Sicuramente funzionerà, no!?

Ma perché tutto ciò dovrebbe aiutare a "combattere" una "crisi sanitaria" o a "stimolare" l'economia giapponese? Per “economia” non ci riferiamo, come economisti, all'output, ovvero la produzione di beni e servizi, in rapporto al PIL reale? Come può la spesa in deficit creare ricchezza? Non ci sono prove a sostegno di questa tesi.

La parte "fresca" del titolo del Times è meglio tradotta come "recente", perché negli ultimi tre decenni, in mezzo a varie crisi, il Giappone ha adottato letteralmente dozzine di pacchetti di "stimolo" tra cui non solo una massiccia spesa in disavanzo ma tagli dei tassi, una politica di interessi a zero (ZIRP), "QE" (monetizzazione del debito pubblico da parte della banca centrale) e persino acquisti diretti di debito privato. Nessuno di questi pacchetti ha mai dimostrato di migliorare le prestazioni economico-finanziarie del Giappone, infatti la sua performance è stata erosa dalla gigantesca spesa pubblica.

La performance economico-finanziaria del Giappone ha raggiunto il picco nel 1989-1991 e, a parte i periodi di breve rimbalzo, è rimasta stagnante sin da allora, a causa della degenerazione delle finanze pubbliche. Vale la pena di ricordare le cause del picco e dei successivi “decenni perduti”. Alla fine degli anni '80 la Banca del Giappone (BoJ), su consiglio di importanti economisti, interpretò il decennio come artificiale, una mera "bolla" e decise di farla "scoppiarle" con rialzi punitivi dei tassi d'interesse. La BoJ ha invertito la curva dei rendimenti, il che è un segnale di recessione soprattutto perché rende non premia l'intermediazione del credito ("prendere in prestito a breve, prestare a lungo").

Dopo l'inversione della curva dei rendimenti firmata dalla BoJ, il PIL reale del Giappone decelerò da una crescita del 9,4% nel 1988 a solo il 4% nel 1989; nel 1993 il PIL si stava contraendo. Anche la produzione industriale decelerò, dal 7,4% nel 1988 al solo 3,5% nel 1989, prima di contrarsi del 13% tra il 1991 e il 1993. Oggi l'indice di produzione industriale del Giappone rimane del 12% al di sotto del picco del 1991. Anche l'indice azionario Nikkei è crollato dopo i rialzi dei tassi della BoJ: un 60% tra la fine del 1989 e la metà del 1992. Nel 2009 il minimo dell'indice è stato dell'80% più basso rispetto al picco nel 1989; oggi l'indice rimane del 46% al di sotto del picco del 1989.

Si potrebbe dire che la BoJ ha sicuramente “avuto successo” nella sua missione di combattere la presunta artificiosità della performance economico-finanziaria del Giappone negli anni '80; da allora i politici giapponesi hanno diligentemente seguito i consigli di keynesiani come Paul Krugman, implementando dozzine di "pacchetti di stimolo". Infatti hanno cercato di rilanciare artificialmente l'economia giapponese, non deregolamentandola, non tagliando le tasse o frenando la crescita dello stato, ma con una massiccia spesa pubblica in deficit.

Il seguente grafico illustra il drammatico cambiamento nelle finanze pubbliche del Giappone dopo il 1990. Nei quindici anni precedenti al 1990, la crescita della spesa pubblica e delle entrate fiscali è andata quasi in tandem; le nuove emissioni di debito erano limitate e addirittura calarono tra il 1982 ed il 1990. Da allora, tuttavia, la crescita della spesa ha superato di gran lunga la crescita delle entrate fiscali, principalmente a causa di aumenti delle tasse e di un'economia stagnante. La spesa in disavanzo e la nuova emissione di debito sono state privilegiate: la ricetta keynesiana.

Decenni di spesa cronica in deficit hanno peggiorato l'indebitamento del Giappone (rapporto debito/PIL). Il grafico qui sotto mostra che il debito è ora pari al 235% del PIL, rispetto al 175% nel 2010, al 125% nel 2000, al 64% nel 1990 e al 50% nel 1980. Dopo aver rialzato il tasso di riferimento alla fine degli anni '80 per combattere una "falsa" prosperità , la BoJ da allora l'ha drasticamente riabbassato. Per un quarto di secolo il tasso è stato inferiore all'1% non tanto per “stimolare” l'economia, ma per consentire al Tesoro giapponese di prendere in prestito in modo più conveniente. La BoJ è stata politicamente dipendente, servendo principalmente chi spendeva in deficit.

Ci si aspettava che alla fine questa spesa in disavanzo pluridecennale avrebbe "stimolato" l'economia o le azioni del Giappone, ma soprattutto i keynesiani (e alcuni monetaristi) se lo aspettavano. Chi invece crede all'economia di Say, non se lo aspettava; anzi, ha previsto che i vasti aumenti della spesa pubblica e dei prestiti avrebbero ostacolato la prosperità.

La seguente tabella mette a confronto la performance del Giappone negli ultimi tre "decenni perduti" (1990-2020) ed i precedenti tre decenni di robusta crescita (1960-1990). Il debito pubblico è cresciuto del 5,8% all'anno nei tre decenni successivi al 1990, mentre l'indebitamento è aumentato del 4,2% all'anno; nel frattempo il PIL reale è cresciuto solo dell'1,0% all'anno, il NIKKEI è sceso dell'1,7% all'anno e anche la produzione industriale si è contratta. Alla faccia dello "stimolo" giapponese! La ricetta keynesiana è stata peggio che inutile. È stata dannosa! Eppure, più fallisce, più i suoi aderenti insistono su dosi ancora maggiori di spesa in deficit.

Nei tre decenni precedenti al 1990, prima che la consulenza politica keynesiana diventasse dominante in Giappone, la nazione ha goduto di una crescita economica robusta e sostenibile grazie alla rettitudine fiscale. La tabella qui sopra chiarisce che il debito pubblico e l'indebitamento pubblico del Giappone salirono rispettivamente solo del 2,6% all'anno e del 2,0% all'anno, mentre il PIL reale crebbe del 6,4% all'anno, la produzione industriale del 7,2% all'anno e il Nikkei del 12,2% all'anno. Le prestazioni del 1990 superano le prestazioni successive al 1990. La differenza è dovuta principalmente al tragico sospetto di prosperità che prese piede in Giappone alla fine degli anni '80 e alla successiva adozione dei cosiddetti pacchetti di "stimolo", che, secondo me, sono depressivi:

Molti economisti ritengono che la spesa pubblica e l'emissione di denaro creino ricchezza o potere d'acquisto. Non è affatto così. Il nostro unico mezzo per ottenere beni e servizi reali è la creazione di ricchezza, la produzione. Con il baratto nessuno viene al mercato aspettandosi di comprare cose senza offrire qualcosa in cambio. Un'economia monetaria non altera questo principio chiave. Quello che spendiamo deve provenire dal reddito, che a sua volta deve provenire dalla produzione. La Legge di Say insegna che solo l'offerta costituisce la domanda: dobbiamo produrre prima di domandare, spendere o consumare. La domanda non è un semplice desiderio di spesa, ma desiderio di un maggiore potere d'acquisto.

I credenti nello "stimolo" affermano anche che la spesa pubblica comporta un magico effetto "moltiplicatore" sulla produzione aggregata, a differenza della spesa del settore privato. Sostengono la maggiore "propensione al consumo" dello stato. Ma consumare è il contrario di produrre. Gli stati certamente consumano e ridistribuiscono la ricchezza, e soprattutto la dividono; la matematica insegna che nulla – inclusa la ricchezza – può essere moltiplicata per divisione. I cosiddetti “moltiplicatori” immaginati dagli economisti di oggi sono, infatti, divisori. Molti studi hanno verificato tal principio.

Per vedere perché lo "stimolo" deprime veramente, basta consultare le basi. La creazione di denaro pubblico e di debito pubblico non è creazione di ricchezza; non è cibo, vestiti, riparo, energia o simili. Anche il denaro e il debito generati privatamente, che riflettono le esigenze del commercio e delle lunghe catene di produzione, rappresentano, facilitano e fanno circolare ricchezza, ma non sono essi stessi ricchezza. Nel frattempo i risparmi presi in prestito dagli stati non sono più disponibili per le imprese produttive, e quando uno stato crea denaro fiat oltre la volontà di possesso di chi lo usa, il denaro perde potere d'acquisto, il che aumenta il costo della vita. Queste non sono strade verso la prosperità.

Una politica pubblica tragicamente sbagliata dovrebbe essere abbandonata, non emulata. Purtroppo gli Stati Uniti, sin dal 2001, hanno copiato l'approccio del Giappone, con un ritardo di circa un decennio. Quella che alcuni qui chiamano politica fiscale-monetaria "non ortodossa" è stata "normalizzata" per la prima volta in Giappone. Le due nazioni differiscono per alcuni aspetti importanti, anche demografici, ma ciò non annulla le leggi dell'economia (o della finanza pubblica). Gli Stati Uniti e il Giappone sono vecchi stati che non possono permettersi quello che stanno facendo; tuttavia i loro politici non riescono ad avere successo elettorale senza persistere nella loro dissolutezza. La storia del Giappone segnala l'esito per chi la vuole imitare: stagnazione prolungata.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/