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venerdì 22 ottobre 2021

Ludwig von Mises: un ritratto — Parte #3

 

 

di Francesco Simoncelli

GLOBALIZZAZIONE

Il quinto capitolo parla di globalizzazione, una cosa del XIX secolo spazzata via dallo statalismo nel XX secolo, e venuta nuovamente fuori di recente. Nel mezzo tra le due, c’è stato un Medioevo di protezionismo, di espropriazioni di investimenti esteri, di ostacoli ai movimenti di capitali, persone e merci, di discriminazioni contro gli stranieri.

Questi erano i metodi con cui si cercava di far progredire la società.

Esiste un solo modo per crescere, che è investire. E per investire ci sono due modi: risparmiare, o ottenere prestiti. I movimenti internazionali di capitali, cioè i prestiti tra cittadini ed imprese di diverse nazioni, rappresentano un elemento fondamentale che consente la crescita economica dei Paesi poveri, e dunque la globalizzazione della ricchezza prodotta dal capitalismo. Gli Stati Uniti e l’Europa continentale si sono sviluppati grazie al capitale inglese, ad esempio.

Oggi la battaglia contro l’esportazione di capitale verso i Paesi poveri, cioè a favore della perpetuazione della loro miseria, è portata avanti dalle imprese che cercano protezione, dai contadini che difendono l’”identità nazionale”, dai movimenti no global, dai sindacati che vogliono la legislazione “antidumping”. Di fatto, stanno dicendo “niente benessere per i negri”, anche se giustificano le loro idee con argomenti più etici, e anzi, spesso, parlano di morale con la stessa leggerezza con cui si ingurgitano popcorn al cinema.

Quando la FIAT deve decidere se investire in Polonia o in Italia, si parla della minaccia di non investire in Italia come un danno ai lavoratori. Quali lavoratori? Se si investe da una parte, si investe di meno dall’altra: qualcuno ne verrà danneggiato in ogni caso. Il fatto che non si considerino i lavoratori polacchi non è forse razzismo, ma poco ci manca. La “minaccia” di non investire in Italia non è che la decisione di investire altrove: non è ricatto, ma una scelta su dove impiegare al meglio i propri fondi. E se nessuno straniero investe in Italia, non lamentiamoci che nessun italiano vorrebbe farlo: il nostro nemico siamo noi stessi.

Ovviamente, gli investimenti esteri producono ricchezza se si pensa che non verranno espropriati: un Paese dove non si rispettano i diritti di proprietà, dove si minacciano nazionalizzazioni coatte, dove non c’è una giustizia civile funzionante (non sto parlando dell’Italia, Mises faceva l’esempio dell’India di Nehru, dopo l’indipendenza) non attrarrà investimenti esteri, e dunque non potrà beneficiare della globalizzazione. 


IL RUOLO DELLE IDEE

L’eclissi del liberalismo che si è avuta nel XX secolo, e che perdura tuttora, è nata da fattori culturali. Dietro il nazismo ci furono decine di pensatori, che crearono le categorie del nazionalismo, del razzismo, dello statalismo, dell’interventismo, del socialismo, dell’inevitabile conflitto tra nazioni. Ovviamente lo stesso vale per il comunismo, per lo Stato sociale, per l’interventismo economico, per la democrazia corporativa, per il liberalismo, l’opposizione alla schiavitù. Tutto, sia le cose buone che quelle cattive, nascono dalle idee. Le idee, per Mises, sono fondamentali: la politica è, nel lungo termine, il risultato di una continua battaglia di idee. Il polilogismo è la dottrina secondo cui le persone ragionano in maniera diversa, hanno cioè una struttura mentale incommensurabile, a seconda delle differenze sociali (marxismo), razziali (nazismo) o nazionali (nazionalismo). Questa dottrina serviva a cancellare l’idea universale di umanità e affermare la supremazia di concetti collettivi come la razza, la nazione, e la classe, attraverso cui organizzare la lotta politica.

Lo scopo delle ideologie del conflitto è rendere impossibile la cooperazione sociale: una volta che gli uomini hanno disimparato a vivere pacificamente, hanno bisogno di un Leviatano che dirimi le dispute. Una società di persone incapaci di cooperare è la società ideale per uno Stato onnipotente. L’Italia è un esempio. Il liberalismo al contrario è basato sull’idea – che non è un valore ma una teoria della società – che le persone abbiano comuni interessi nel lungo termine, e che la convivenza pacifica sia benefica per tutti, perché crea ricchezza attraverso lo scambio, la divisione del lavoro e l’accumulazione di capitale. Mises ritiene che si debba dunque combattere affinché le idee cattive vengano sconfitte da quelle buone, e queste ultime sono – nella tradizione liberale – quelle che fanno l’interesse di tutti, e non di una parte a svantaggio di tutti gli altri.

Per Mises, nei Parlamenti dell’Ottocento c’era gente che pensava di rappresentare la nazione, cioè gli interessi di tutti, e si parlava di grandi ideali e principi. Nei Parlamenti del Novecento abbiamo invece il rappresentante degli zuccherifici, il rappresentante dei metalmeccanici, il rappresentante dei pensionati: tutti a cercare privilegi per il loro gruppo, tutti a cercare di vivere a spese degli altri.

Gran parte dell’attività legislativa è il tentativo di qualche politico di comprare voti consentendo ad alcuni gruppi organizzati di vivere a spese altrui. I commercianti chiedono ai politici di non far aprire supermercati troppo vicini, a spese dei loro clienti. Gli industriali si alleano per chiedere protezione contro le importazioni da Paesi più efficienti, a spese del consumatore. Molti cercano di ottenere un lavoro a rischio zero, e spesso con un livello di impegno modesto, con il posto pubblico, a spese del contribuente. Tutti cercano di vivere meglio impedendo agli altri di fare loro concorrenza. La società italiana è come una maratona dove i corridori cercano di slacciarsi le scarpe l’un l’altro: lavoratori, imprenditori, professionisti, politici e funzionari sono i protagonisti di questa operetta tragicomica.

A leggere Bastiat, non si direbbe che la politica francese dell’Ottocento fosse più sana di quella italiana attuale. E ciò lo conferma Mises, parlando del parlamentarismo della Terza Repubblica francese.  James Madison spese pagine e pagine, nei “Federalist Papers”, per risolvere il problema delle fazioni, cioè delle lobby che curano il loro interesse particolare a danno dell’interesse generale, ed era il 1787.

Idee, quindi: le idee sono fondamentali. Ma dobbiamo anche renderci contro che gli uomini non pensano e non agiscono nel vuoto: pensano in una società, e agiscono per il tramite di istituzioni. La politica liberale di cui parla Mises è una possibilità, ma quella meno probabile. Le tendenze della politica sono infatti illiberali, le idee liberali possono opporsi a queste tendenze, ma non è possibile eliminarle. Il potere tende a concentrarsi, la sua concentrazione a ridurre la capacità umana di cooperare e di badare a sé stessi.

Le idee liberali erano riuscite a tenere a bada, sia attraverso le istituzioni (come la Costituzione americana) che attraverso la cultura (i valori liberali), le tendenze degenerative connaturali alla politica. Spariti i liberali, il peggio della politica è venuto fuori nella prima metà del XX Secolo, con la civiltà ad un passo dalla catastrofe finale. Poi c’è stato un recupero, nonostante l’idiozia delle politiche economiche del Dopoguerra, e oggi la libertà è nuovamente sotto mira.

Oggi serve una battaglia di idee e di valori per recuperare margini di mercato e di libertà.


CONCLUSIONI

Mises, ormai lo abbiamo capito, è stato la Cassandra del XX secolo: nulla di ciò che è successo lo avrebbe stupito, e molto di ciò che è successo lo si sarebbe potuto evitare, a dargli retta prima.

Le assurdità che dovette affrontare Mises erano peggiori di quelle che dobbiamo affrontare noi oggi. All’epoca si credeva che per aumentare i salari occorreva impegnarsi di meno al lavoro, che stampare moneta non causasse inflazione, che i prezzi si potevano far fissare da un ufficio apposito, che un ufficio di pianificazione avrebbe potuto gestire centralmente tutta l’attività economica di un’intera nazione.

La situazione è migliorata, ma in Italia però ancora si parla di protezionismo come un modo per creare ricchezza, di politiche industriali come un modo per pianificare la crescita, di salari minimi come un modo per aiutare i poveri. La recente crisi finanziaria ha messo in luce che ancora oggi non si prende sufficientemente sul serio il problema del debito pubblico, e non ci si è resi conto che usare la creazione di credito per aiutare i mercati durante le crisi li destabilizza sistematicamente. Ancora oggi, quindi, dobbiamo dar retta a Mises.

Purtroppo la politica tende a favorire le scelte miopi, che beneficiano gruppi organizzati e informati, interessi concentrati, a danno del lungo termine, dell’interesse generale, degli interessi diffusi. Questa tendenza è stata di molto rafforzata da idee, come ad esempio il keynesismo, che invitano esplicitamente a trascurare il lungo termine. Ancora oggi dunque abbiamo un’infinità di problemi causati dall’interazione tra tendenze politiche nefaste e idee economiche erronee.

Ricordandosi della crisi dell’Austria, Mises nella sua Autobiografia scrisse “Le mie teorie spiegano, ma non possono rallentare, il declino di una grande civiltà. Avevo l’intenzione di diventare un riformatore, ma divenni soltanto lo storico del declino”. Nonostante questo, siamo riusciti a sconfiggere il nazismo, il comunismo, l’inflazione, a rendere possibile la globalizzazione, a ridurre le aliquote fiscali.

Se non fosse per la spesa pubblica impazzita, i debiti pubblici fuori controllo e l’intero sistema finanziario che svena il contribuente grazie ai politici, il mondo è più libero oggi di trenta anni fa, soprattutto grazie al collasso del socialismo reale. Non è impossibile che si capirà presto o tardi anche che serve tagliare la spesa pubblica, e non proteggere le banche dalle conseguenze delle loro azioni. Ma non è facile: la politica tende spontaneamente a fare scelte sciocche.

“Nessuno può trovare un posto sicuro per sé stesso se la società corre verso la distruzione. Quindi ognuno, nel suo interesse, deve gettarsi con vigore nella battaglia delle idee. Nessuno può starsene da parte senza sentirsi chiamato in causa; gli interessi di ognuno dipendono dal risultato.” I guasti dello statalismo sono oggi evidenti, e le sue idee non sono mai state così deboli. Manca la forza di superare l’attrito dei cambiamenti istituzionali, di andare contro gli interessi costituiti, di proporre un’alternativa concreta allo status quo, e di scuotere le coscienze e gli intelletti dal sonno ottuso e servile in cui sono sprofondati.

O si dà retta a Mises, e ci si risparmia un mucchio di guai, o si aspetta che sia la realtà a dargli ragione, e a quel punto sarà troppo tardi per non farsi male. La storia è una maestra severa, Mises è più simpatico.

 

👉 Qui il link alla Prima Parte: https://www.francescosimoncelli.com/2021/09/ludwig-von-mises-un-ritratto-parte-1.html

👉 Qui il link alla Seconda Parte: https://www.francescosimoncelli.com/2021/10/ludwig-von-mises-un-ritratto-parte-2.html

 

venerdì 8 ottobre 2021

Ludwig von Mises: un ritratto — Parte #2

 

 

di Francesco Simoncelli

INTERVENTISMO

Mises definisce le funzioni proprie dello Stato come la difesa dei diritti di proprietà da violazioni violente e fraudolente contro aggressori interni od esterni. Il liberale, dice Mises, non odia lo Stato: il liberale ritiene che lo Stato non debba fare altro, esattamente come nessuno odia la benzina se ritiene che non sia adatta per dissetarsi.

L’ipotesi di partenza è che esista un diritto indipendente dallo Stato: ipotesi che nel XX secolo è stata distrutta dall’avvento della legislazione e del giuspositivismo. Ma questa ipotesi è centrale in tutti i pensatori liberali: solo se i diritti individuali non dipendono dalla politica è possibile parlare di libertà. Senza una legge superiore allo Stato che limiti lo spazio della politica, non ci sono diritti, non c’è libertà, non c’è giustizia.

La libertà è fatta di diritti negativi: un diritto è negativo quando impone agli altri di non fare qualcosa, e positivo quando impone agli altri di farla. “Non uccidermi!” è un diritto negativo, “Sfamami!” è un diritto positivo. Siccome l’effettivo contenuto dei diritti positivi – il costringere gli altri a fare qualcosa per noi – non è chiaro, questi diritti creano una prateria di interventi politico perché fanno sorgere un’infinità di contese su cosa effettivamente gli altri devono essere costretti a fare per noi. Non è mai esistita una società priva di diritti positivi (“devo essere difeso in un tribunale!”), ma la moltiplicazione dei diritti positivi è esiziale per la libertà: in fin dei conti, i diritti positivi sono una forma di schiavitù, perché si costringe qualcuno a lavorare per gli altri tramite la coercizione.

Cosa è l’interventismo per Mises? Non è l’intervento dello Stato per garantire il funzionamento della giustizia. Non è neanche avere una municipalizzata o una singola impresa nazionale (queste cose al massimo producono con una certa spontaneità corruzione ed inefficienza). L’interventismo è la dottrina che sostiene che si possano influenzare i mercati migliorandone i risultati attraverso il controllo dei prezzi.

Sul mercato, chiunque può produrre ad un certo costo produce, se il prezzo è superiore al costo. E chiunque voglia consumare un bene lo compra, se il prezzo è sufficientemente basso rispetto al beneficio che risulta dal consumo. Più un prezzo è basso, più consumatori domandano il bene, ma meno produttori la offrono. L’inverso vale se il prezzo sale. Esiste un prezzo di equilibrio in cui domanda e offerta si uguagliano. Il sistema dei prezzi è dato dall’interazione di milioni di singoli prezzi.

Ogni prezzo cerca di uguagliare domanda e offerta di un particolare bene in un particolare mercato, ma così facendo modifica le condizioni negli altri mercati (se le FIAT scendono di prezzo, si compreranno meno Ford), e quindi il sistema dei prezzi comporta un processo complicatissimo dove tutte le domande e tutte le offerte cercano di incontrarsi.

La teoria dell’interventismo è molto semplice: ogni produttore deve rientrare nei costi di produzione con i ricavi delle vendite. Se si vuole il latte più economico, non si può ridurre il prezzo del latte ex lege, perché la concorrenza di norma già spinge i prezzi al livello minimo (ci può essere un margine di potere di mercato, ma è spesso meglio affrontarlo riducendo gli ostacoli alla concorrenza che fissando prezzi in maniera burocratica e dunque irrazionale). Se si controllano i prezzi con un tetto massimo i produttori andranno in perdita e si ritireranno dal mercato. Per evitare ciò, occorre controllare il prezzo del latte anche all’ingrosso, ma così scapperanno i grossisti. E allora bisognerà controllare il prezzo delle mucche, ma così scapperanno i macellai. Alla fine, bisognerà controllare tutti i prezzi, ma in questo modo il mercato smette di esistere.

Dal latte, la logica dell’interventismo arriva fino a ad estendere il controllo statale sull’intera Via Lattea. Le vie di mezzo, come l’interventismo, sono internamente irrazionali, e o si eliminano, o portano spontaneamente al socialismo (che è altrettanto irrazionale per quanto visto prima). I controlli sui prezzi vanno aboliti, oppure si crea uno strutturale squilibrio tra domanda e offerta, se il prezzo legale differisce da quello economico.

Riducendo gli incentivi a produrre, il controllo dei prezzi non può rendere le merci più abbondanti, ma al contrario le rende più scarse.

Lo stesso discorso si può fare con i salari minimi, che rendono la domanda di lavoro inferiore all’offerta, creando disoccupazione, soprattutto tra chi ha una bassa produttività, cioè i lavoratori più poveri. Questo è spacciato per politica sociale, ma è probabilmente la causa del fatto che la disoccupazione di lungo termine è concentrata soprattutto tra i lavoratori meno produttivi. Questa è una proprietà dell’interventismo: si introduce per beneficiare i “deboli”, e danneggia soprattutto loro. In compenso favorisce la classe politica. 

Zwangswirtschaft è un termine che Mises impiega per descrivere una forma di socialismo poco nota: il socialismo nazista, che non si chiamava nazional-socialismo per caso. Hitler aveva creato un sistema socialista in cui ogni “imprenditore” – che non era più tale – doveva chiedere al funzionario ministeriale i prezzi e le quantità prodotte, e anche per avere un anticipo doveva chiedere al funzionario, come ogni impiegato. 

Zwangswirtschaft significa economia di comando. In Germania questo sistema fu smantellato da un gruppo di economisti liberali che facevano capo a Walter Eucken: almeno uno di loro, Wilhelm Roepke, era stato allievo di Mises, e questo fu una delle cause del miracolo economico tedesco nel Dopoguerra.

Occorre notare che la definizione di interventismo è da specificare bene: l’interventismo della “via di mezzo” è il controllo dei prezzi, per cui vale perfettamente il ragionamento di cui sopra. Non varrebbe invece ad esempio per una semplice municipalizzata, per quanto inefficiente possa essere.

Molto spesso si parla di interventismo senza specificare granché: si usa l’argomentazione misesiana in maniera lasca, anche dove non può essere applicata, solo perché se ne apprezzano le conclusioni. I limiti del ragionamento sono ben specificati in “I fallimenti dello Stato interventista”, un libro di Mises edito da Rubbettino. Gli stessi distinguo andrebbero fatti ogni volta che è necessario, altrimenti l’argomento diventa come l’Ave Maria in latino, ripetuta a memoria, senza capirla, e farcendola di errori. Non c’è nulla di più degradante per uno studioso che usare i suoi argomenti come strumenti, da abusare all’occorrenza, per raggiungere certi fini, anche se sono gli stessi fini dello studioso in questione. 

[Nota: Mises non aveva una dottrina legale e una dottrina dello stato sviluppate, e dunque tende a credere che possa esistere una democrazia liberale in cui non si facciano leggi per favorire le corporazioni o comprare i voti o rendere dipendenti dal settore pubblico milioni di cittadini potenzialmente autonomi. Questo ottimismo temo fosse completamente infondato.]

 

INFLAZIONE

L’aumento della quantità di moneta ne riduce il valore, cioè ciò che la moneta può comprare: i prezzi aumentano. Ciò oggi è considerata una banalità, ed è nota come “teoria quantitativa della moneta”: quando Mises scrisse queste pagine, invece, si credeva alla teoria keynesiana, per cui l’inflazione era impossibile in assenza della piena occupazione. Alla fine degli anni ’60 un tizio abituato a sbagliarle tutte, tale Paul Samuelson, dopo aver detto che i fari privati erano impossibili (Coase li trovò subito dopo), e prima di dire che l’Unione Sovietica era una storia di successo (crollò pochi anni dopo), disse che non c’erano più dottrinari che credevano che l’inflazione fosse un fenomeno monetario. Poi scoppiò l’inflazione.

Mises però fa molta attenzione ad evitare di considerare la teoria quantitativa in maniera meccanicistica: la nuova moneta fa alzare i prezzi perché aumenta la domanda, ma la domanda che aumenta non è la “domanda aggregata”, ma la domanda del particolare consumatore (o della particolare impresa) che riceve la nuova moneta, e non aumenta il “livello dei prezzi”, ma i prezzi delle merci domandate da chi riceve moneta. I primi a spendere hanno maggiore potere d’acquisto: gli ultimi ottengono la moneta quando i prezzi sono già aumentati, e gli scaffali del supermercato più vuoti.

Oggi abbiamo imparato a controllare l’inflazione, ma non a controllare la politica monetaria. Dopo gli eventi degli anni ’70 ci si è resi conto che la moneta è una cosa troppo seria per lasciarla ai politici, ed è stato introdotto il concetto di “indipendenza” della banca centrale, che significa che la moneta viene gestita da una tecnocrazia e non dalla politica. Purtroppo nonostante si sia imparato che eccedere nel creare moneta crea inflazione, come negli anni ’70, non si è ancora imparato che usare la politica monetaria per “facilitare la vita” alle banche, implica che le banche non hanno più alcun incentivo a comportarsi responsabilmente. Il risultato è stata la crisi finanziaria iniziata nel 2007, e da cui di fatto non si è ancora usciti.

Il gold standard, proposto da Mises come alternativa all’inflazionismo, serve solo a rendere la base monetaria indipendente dalla politica. Se si trovassero delle regole e delle istituzioni tali da gestire la moneta in maniera responsabile, non ci sarebbe bisogno di un gold standard. Ciò è però improbabile: la politica di norma perché miope e molto incline a comprare il consenso oggi in cambio di un grave problema domani.

Mises descrive in maniera chiara come l’aumento della quantità di moneta, e dunque l’inflazione, se usato come strumento per ridurre il costo del lavoro, e dunque la disoccupazione creata dai sindacati che impongono con la coercizione salari eccessivi, produce un aumento ulteriore dell’inflazione perché i sindacalisti si accorgono presto del trucco. Questa idea era già nota a Mises e Hayek negli anni ’30, ma i macroeconomisti degli anni ’50, ’60 e ’70 non lo sapevano, e costruirono la teoria macroeconomia sull’idea contraria, che si potesse sistematicamente aumentare l’occupazione attraverso l’inflazione. Questa follia si chiama “Curva di Phillips”. Non si può sottovalutare il contributo della macroeconomia alla stupidità umana.


👉 Qui il link alla Prima Parte: https://www.francescosimoncelli.com/2021/09/ludwig-von-mises-un-ritratto-parte-1.html

👉 Qui il link alla Terza Parte: https://www.francescosimoncelli.com/2021/10/ludwig-von-mises-un-ritratto-parte-3.html


venerdì 24 settembre 2021

Ludwig von Mises: un ritratto — Parte #1

 

 

di Francesco Simoncelli

Con l'appropinquamento del 140° anniversario della nascita di Ludwig von Mises, il caso ha voluto che ritrovassi questo saggio che ritenevo fosse andato perso. Presentato dapprima per il Von Mises Italia rappresenta un elogio a tutto tondo della vita, le opere e le idee che il grande economista Austriaco ci ha lasciato in eredità. Studiarle, coltivarle e diffonderle sono tre azioni che noi, venuti dopo, possiamo perseguire in modo da omaggiare chi le ha sviluppate ed utilizzarle come base per l'ulteriore progressione della materia. Ludwig von Mises è stato un economista, un filosofo, e un pensatore politico. È stato uno dei più grandi liberali del XX secolo, senza il quale le più importanti novità del pensiero liberale, e i più importanti sviluppi del pensiero economico della Scuola austriaca, non sarebbero stati possibili.

Tanto per farsi un’idea, senza Mises non ci sarebbe stato Hayek: il pensiero economico di Hayek (teoria del calcolo economico, teoria del ciclo economico, teoria del processo concorrenziale) nasce con Mises, e Hayek lo espande e lo perfeziona, e anche la filosofia politica e giuridica di Hayek è il risultato delle discussioni di Hayek con uno studioso che cercava di applicare le idee di Mises al diritto, Bruno Leoni.

Ludwig von Mises nacque a Lemberg (Lviv in ucraino, Leopoli in italiano), oggi Ucraina, all’epoca parte dell’Impero Austro-Ungarico, il 29 Settembre 1881. Laureatosi in legge, letti gli scritti del fondatore della Scuola austriaca Carl Menger divenne un economista.

Carl Menger fu il fondatore della Scuola austriaca, una delle tre varianti della Scuola economica marginalista sorte negli anni ’70 del XIX secolo. Il contributo fondamentale della Scuola marginalista fu di risolvere il problema del valore, che gli economisti classici non riuscivano a risolvere, data la loro teoria del valore-lavoro. Perché un quadro dipinto da me in mille ore di fatica vale un miliardesimo di un quadro dipinto da Caravaggio in un decimo del tempo? Perché un chilo di grano vale meno di un chilo di diamanti? La Scuola marginalista di Walras (il terzo marginalista fu Jevons) ha dato origine all’economia matematica contemporanea, con la sua analisi dell’equilibrio economico, cioè la condizione “statica” in cui ogni possibile opportunità di profitto è stata sfruttata e non c’è più niente da fare.

La Scuola austriaca è invece sempre stata interessata al processo anziché all’equilibrio, cioè le interazioni di individui che portano allo sfruttamento delle opportunità di profitto, fino – nel caso limite di nulla rilevanza pratica – all’equilibrio. La Scuola austriaca parla di processi e non di equilibrio, di imprenditorialità e creatività e non di ottimizzazione, di ignoranza e non di struttura dell’informazione imposta dall’alto, di tempo e non di produzione istantanea, di uomini e non di automi.

Nel 1912 scrisse un libro di teoria monetaria in cui fondò, in conclusione al lavoro, la teoria austriaca del ciclo economico, oggi nota anche come teoria del ciclo di Hayek, o di Mises-Hayek.

Dopo esser tornato dalla Prima Guerra Mondiale scrisse un saggio sull’economia socialista in cui ne dimostrò l’impossibilità, gettando le basi per la teoria del calcolo economico che è stata al centro di un dibattito che occupò gli anni ’20 e ’30, in cui Mises e Hayek cercarono di spiegare ai socialisti che le loro idee erano  irrealizzabili. Breve nota: “socialismo” significa nazionalizzazione dell’economia tramite pianificazione, non cleptocrazia partitocratica come in italiano.

Negli anni ’20 difese anche il liberalismo dalle politiche interventiste, mostrando come la logica inerente in queste politiche portava a risultati opposti rispetto a quanto affermato dai loro difensori. Nel 1934 fuggì a Ginevra, essendo lì stato invitato ad insegnare, perché l’Austria avrebbe potuto finire da un giorno all’altro in mano ai nazisti, e lui era ebreo. Nel 1940 fuggì negli Stati Uniti perché la Svizzera non era più un posto sicuro: le autorità svizzere temevano un ospite così meritatamente odiato dai nazisti.

Negli anni ’40 sviluppò le sue teorie sul calcolo economico e sulla metodologia economica per fondare, insieme ad Hayek, la teoria austriaca del processo di mercato, che di fatto è la base microeconomica della teoria austriaca, in contrapposizione alla teoria dell’equilibrio che va per la maggiore. Divenne distinguished fellow dell’American Economic Association nel 1969, l’anno della pensione, a 88 anni, e il 10 Ottobre 1973, a 92 anni, morì. L’anno dopo il suo migliore allievo, Hayek, vinse il Nobel per l’Economia. Alcuni dicono che avrebbero dovuto darlo anche a Mises, ed è certamente vero.

Sia a Vienna che a New York, Mises tenne un circolo, cioè un gruppo di discussione. Ai due circoli di Mises, spesso chiamati Mises Kreis, o “Privatseminar”, parteciparono decine di persone illustri. Il Premio Nobel Hayek, il fondatore della teoria dei giochi Oskar Morgenstern, il fondatore del libertarismo Murray Rothbard, il più importante economista austriaco vivente Israel Kirzner, economisti come Wilhelm Roepke, Gottfried Haberler, Lionel Robbins e Fritz Machlup, il sociologo Alfred Schutz, e il filosofo Felix Kaufmann.

Mises è sempre stato uomo di minoranza: remò tutta la vita contro lo spirito dei suoi tempi, e perse tutte le battaglie politiche. Remare controcorrente è l’unica vocazione possibile per un liberale, perché la politica spinge sempre ad espandersi a danno della libertà. Il tempo ha dato ragione a Mises su moltissime cose, come vedremo.

Mises si recò nel 1959 a Buenos Aires, in Argentina, per tenere sei conferenze, che furono poi raccolte nel libro di cui vi sto parlando. Si trattava di un Paese che fino a poco prima era stato uno dei più ricchi del mondo. È pieno di italiani perché era molto più ricco dell’Italia, e in termini pro capite era paragonabile agli Stati Uniti. Poi però prese la strada dell’interventismo, col populista Juan Peron e il suo regime.

Nel 1959 Peron era stato cacciato e si respirava aria di ottimismo: Mises voleva fare qualcosa per instradare il Paese verso il liberalismo. La differenza tra Argentina e Stati Uniti è che la prima ha avuto nel XX secolo una sfilza di politici come Franklin Delano Roosevelt. Il mercato è molto resistente, ma non invulnerabile. Esattamente come i suoi consigli di riforma per l’Impero Austro-Ungarico, e successivamente per la Repubblica Austriaca, non furono ascoltati, col risultato del totale tracollo economico e sociale; esattamente come le sue idee sul socialismo furono inascoltate per decenni, fino al crollo dell’Unione Sovietica nel 1991; esattamente come le sue idee contro l’inflazionismo furono trascurate, portando prima alla Grande Depressione, e poi  all’inflazione degli anni ’70; probabilmente nessuno in Argentina gli diede retta. Peron ridivenne presidente poco dopo, e oggi l’Argentina, dopo un tracollo finanziario nel 2001, è retta da una scriteriata che per finanziare il deficit pubblico ha derubato i cittadini dei loro risparmi pensionistici.

Il primo capitolo di “Politica economica” di Ludwig von Mises è molto semplice e non contiene molti ragionamenti teorici: è una confutazione del termine capitalismo. Sembra strano, ma parrebbe che nel 1959, e in realtà anche oggi, era necessario ricordare banalità come il fatto che non c’è mai stata prosperità senza capitalismo, e che lo stato naturale dell’uomo non è l’abbondanza ma la miseria.

Mises afferma molto chiaramente una serie di cose importanti, come che il capitalismo è stato il primo sistema sociale non basato sulle caste in cui ogni persona nasceva, viveva e moriva allo stesso livello nella scala sociale, e che la sovrappopolazione pre-capitalistica (5 milioni di persone nel ‘600, in Inghilterra, sembravano troppe) ha come soluzione il capitalismo: quando si dice “c’è troppa gente in Africa” in realtà bisognerebbe dire “non c’è abbastanza capitale in Africa”, visto che di gente ce n’è decisamente di più in Italia, a parità di spazio, e quello che manca sono i mezzi di produzione capitalistici.

Il capitalismo, dice Mises, è il diritto di ognuno di servire meglio il consumatore. È un sistema dove non bisogna chiedere il permesso dello Stato per aprire una pizzeria, portare in giro le persone (taxi e autobus), dare consigli legali, lavorare, e far lavorare la gente. Non è l’Italia, decisamente. Mises ricorda poi come l’odio per il capitalismo – rimando a “La fine dell’economia” di Ricossa – nasce non dai proletari, a cui il capitalismo consentì la sopravvivenza prima e la prosperità poi, ma dagli aristocratici, preoccupati per il Landflucht (la fuga dalla campagna) dei loro servi verso le città. Il più grave problema di una società liberale è che non ha bisogno di leader: chi vuole comandare, deve prima minarne le basi. Forse su una cosa ci si può sorprendere: che il capitalismo porti ad una forte uguaglianza delle condizioni. La differenza tra un ricco e un povero è quella che c’è tra una Cadillac e una Chevrolet, dice Mises.

Chi ha osservato gli Stati Uniti, da Tocqueville (1830) a Hoffer (1950) ha sempre sottolineato la forte uguaglianza delle condizioni e l’assenza di un’aristocrazia. Eppure negli ultimi venti anni alcuni sostengono che ci sia stato un aumento della disuguaglianza all’interno dei Paesi, anche se certamente c’è stata anche una diminuzione di questa tra Paesi grazie alla globalizzazione. La prima tesi non è considerata empiricamente ben dimostrata, comunque, mentre i benefici della globalizzazione per i poveri sono evidentissimi. Anche se fosse, bisognerebbe poi capire se l’aumento della disuguaglianza sia legato alla dinamica di un mercato “libero” oppure ad eventuali protezioni corporative imposte dallo Stato tramite i consueti processi di “rent seeking”.


SOCIALISMO

La libertà economica e la libertà sono la stessa cosa. La libertà è infatti il diritto di impiegare i propri mezzi per perseguire i propri fini: niente libertà sui mezzi (libertà economica) implica niente libertà sui fini. Senza mercato, in Unione Sovietica chiunque poteva essere mandato a produrre gelati al pistacchio in Siberia, mentre sul mercato qualsiasi cosa sia considerata utile dagli altri trova di norma un finanziatore, anche se non piace allo Stato.

Cosa sarebbe la libertà senza libertà economica? Nei Paesi dell’Europa Orientale sotto il giogo comunista si diffuse una forma di lotta non-violenta al regime chiamata Samizdat: la stampa clandestina di libri vietati dalle autorità, fatta a mano, a volte con la macchina da scrivere e la carta carbone, raramente con tecniche più avanzate come il ciclostile. Qual era la difficoltà? Che la proprietà privata di queste attrezzature era vietata, ovviamente per controllare le idee eversive come la libertà. La libertà è una e indivisibile: la compressione di una libertà porta alla compressione delle altre. Cos’è la libertà di stampa, ad esempio, se i finanziamenti ai giornali vengono forniti dallo Stato? È la libertà di ingraziarsi i politici.

La libertà, dice Mises, esiste all’interno del sistema di cooperazione sociale. Non è libertà dalla società, è libertà nella società: è il diritto di scegliere se e come cooperare con gli altri individui. C’è ancora chi dice che il liberalismo sia atomistico e disdegni la società, e ci sono ignoranti che parlano di Mises come di un individualista atomista: in realtà il liberalismo disdegna i dittatori sociali – anche democratici – che vogliono decidere al posto degli altri, ma non la cooperazione sociale. La politica non è la società: la società è anche e soprattutto collaborazione volontaria, e questa, nel liberalismo, c’è sempre stata.

L’esempio di van Gogh è particolarmente bello. Van Gogh, dice Mises, fece una vita misera e non fu capito, visse a spese del fratello, e vendette in vita un solo quadro. Eppure ne dipinse centinaia, che oggi valgono milioni di euro. Che cosa sarebbe successo a Van Gogh in Unione Sovietica? Una commissione di esperti di pittura l’avrebbe giudicato pazzo, e l’avrebbero rinchiuso in una fabbrica per fare ciò che il pianificatore pensava fosse più utile per la società. Cosa è meglio? Sul mercato basta trovare acquirenti o benefattori, e se si è disposti a patire la fame è possibile anche far a meno di loro, senza libertà si è alla mercé dei politici.

Da qui si evince l’importante idea di Mises riguardo l’armonia degli interessi: nel lungo termine cooperare con gli altri permette di vivere meglio, perché la divisione del lavoro, come già notato da Adam Smith ne “La ricchezza delle nazioni”, permette di creare ricchezza. Lo scambio è un gioco a somma positiva dove un lattaio con due bicchieri di latte e un pasticcere con due fette di crostata possono scambiare un bicchiere con una fetta e fare entrambi una colazione completa.

Questa cosa è fondamentale per capire la teoria sociale di Mises: la proprietà consente il mercato, e il libero scambio crea ricchezza per tutti, almeno nel lungo termine. In società, ognuno serve sé stesso servendo gli altri: l’”utilitarismo” di Mises (che non c’entra nulla con l’utilitarismo classico, che si basava sul “calcolo della felicità totale”, che per Mises non ha senso) sta nell’idea che stare in società conviene, e che le regole del liberalismo permettono alle persone di godere dei benefici dalla cooperazione sociale.

Sul piano teorico la cosa più importante da sapere sul socialismo è il problema del calcolo economico. Facciamo un esempio. Domani c’è un’inondazione in Cile e la produzione di rame mondiale diminuisce del 5%. Dopo pochi minuti il prezzo del rame aumenta del 15%. Il giorno dopo una società che produce fili elettrici si accorge di dover pagare di più la materia prima, e aumenta il prezzo dei cavi. Dopo due giorni una miniera in Australia viene riaperta perché conviene estrarre rame, al nuovo prezzo. Dopo tre giorni, le azioni di una società che produce sistemi senza fili aumentano del 20% e i manager decidono di espandere la produzione per via della nuova domanda di dispositivi che fanno un minor uso di cavi.

Qualcuno di voi pensa che una cosa così complicata possa essere capita da una sola persona? Che un burocrate possa seguire ogni piccolo aggiustamento conseguente ad un’inondazione in Cile? Che un economista di Harvard possa capire di quanto deve aumentare il prezzo del prodotto di una società di dispositivi wireless grazie alla nuova configurazione di prezzi? Che un pianificatore possa sapere dall’alto del suo ufficio del Reichsfuhrerwirtschaftsministerium (il Ministero dell’Economia della Germania nazional-socialista) che c’è una miniera abbandonata in Australia?

La pianificazione è impossibile: il mercato è troppo complicato per farlo funzionare come una caserma. Le informazioni sono troppo decentrate, tacite, diffuse per poter essere accentrate ed usate efficacemente da un comitato di burocrati, ci ricorda Hayek. Serve un sistema di “divisione del lavoro intellettuale” (dice Mises altrove) perché il mercato è troppo complicato per l’intelligenza di ogni singolo individuo: serve che ognuno ne capisca una sola piccola parte, e che un meccanismo impersonale coordini le azioni individuali. Questo meccanismo è il sistema dei prezzi. I prezzi esistono perché c’è la libertà di scambiare, che implica la libertà di inserire nel sistema dei prezzi nuove informazioni sulla domanda e l’offerta di ogni merce. Proprietà, prezzi e profitti sono le tre ‘P’ che rendono possibile il funzionamento del mercato.

Il socialismo è impossibilitato a funzionare efficientemente. Deve necessariamente portare allo spreco e alla miseria. Non è una questione di incentivi: non è possibile per un comitato di pianificatori prendere decisioni in assenza di mercati. Ci sono cose che un mercato di agricoltori analfabeti fa benissimo, ma che sono impossibili per un comitato di pianificatori con IQ elevatissimi, dotati di PhD e decenni di esperienza alle spalle, forniti di tutte le statistiche e dei più potenti computer, e disposti a lavorare duramente e onestamente per il bene della società. Non possono fare nulla di buono, tranne togliersi di mezzo.


👉 Qui il link alla Seconda Parte: https://www.francescosimoncelli.com/2021/10/ludwig-von-mises-un-ritratto-parte-2.html

👉 Qui il link alla Terza Parte: https://www.francescosimoncelli.com/2021/10/ludwig-von-mises-un-ritratto-parte-3.html


lunedì 23 agosto 2021

La fine di Bretton Woods, Jacques Rueff ed il “peccato monetario dell'Occidente”

 

 

di Lawrence White

Il 15 agosto 2021 è ricorso il 50° anniversario del giorno in cui il presidente Richard Nixon "chiuse la finestra dell'oro", ponendo fine al sistema monetario internazionale di Bretton Woods. È un momento opportuno, quindi, per riconsiderare le incongruenze interne di quel sistema. Come capirono i suoi critici contemporanei, Bretton Woods era destinato a fallire se non fosse stato fondamentalmente riformato ed uno dei suoi principali critici fu l'economista francese Jacques Rueff.


Jacques Rueff

Rueff (1896-1978) è stato il più importante economista liberale classico francese della sua generazione. Da giovane, lavorò sotto Raymond Poincaré alla svalutazione del franco nel 1926. In seguito si occupò di questioni finanziarie per l'ambasciata francese a Londra, dove osservò in prima persona il tentativo fallimentare della Gran Bretagna di riportare in auge il gold standard dopo un periodo di guerra ed inflazione, senza svalutazione dell'oro per eguagliare l'erosione del potere d'acquisto della sterlina rispetto al metallo giallo in tempo di guerra (o una deflazione sufficiente per riportare il potere d'acquisto della sterlina al pari di quello dell'oro). Rueff attribuì la Grande Depressione al fallimento nel ristabilire il gold standard dopo la guerra, infatti un "gold-exchange standard" improvvisato e in continua evoluzione permise di accumulare squilibri fino al crollo di quel sistema finanziario. Non fu il gold standard, ma un gold-exchange standard mal gestito dalle banche centrali che fallì nel periodo tra le due guerre.

Rueff aiutò ad organizzare il Walter Lippmann Symposium, un raduno internazionale di liberali classici a Parigi nel 1938 e discutere il libro di Lippmann del 1937, The Good Society. L'incontro fu visto come un precursore della Mont Pelerin Society, a cui avrebbe successivamente partecipato. Nel 1939 divenne vice governatore della Banca di Francia, ma fu licenziato durante l'occupazione tedesca a causa delle sue origini ebraiche.

Dopo la seconda guerra mondiale, Rueff fu un importante sostenitore del libero scambio mentre ricopriva una serie di posizioni ufficiali nel governo francese, nella Commissione europea del carbone e dell'acciaio e alla Corte europea. Quando il presidente francese Charles DeGaulle tornò al potere nel 1958, nominò Rueff presiedere di una commissione sulle riforme fiscali e monetarie. Il risultante "Piano Rueff" rese il franco francese liberamente convertibile in dollari, ponendo fine ai controlli sui cambi, dopo una considerevole svalutazione. Il piano prevedeva anche riduzioni dei dazi, l'eliminazione dei sussidi alle imprese e il dimezzamento del deficit di bilancio. Nel suo necrologio il New York Times scrisse che Rueff "era meglio conosciuto per il suo programma di riforma del 1958, il quale stabilizzava l'economia francese" all'inizio della Quinta Repubblica di de Gaulle, aggiungendo poi: "Con l'adozione del Piano Rueff, l'economia francese iniziò un periodo di vigorosa espansione commerciale e Rueff ha continuato ad essere premiato negli anni '60 come aspro critico delle politiche monetarie degli Stati Uniti e dei deficit di bilancio".


Le contraddizioni interne di Bretton Woods

Rueff e l'economista americano Robert Triffin furono i due analisti più importanti per identificare i problemi intrinseci del sistema monetario internazionale del dopoguerra stabilito a Bretton Woods. Secondo il sistema, le valute di altre nazioni dovevano mantenere tassi di cambio fissi con il dollaro USA (erano convertibili in dollari USA, ma non direttamente in oro). Il dollaro USA era la "valuta chiave", l'unica direttamente convertibile in oro e rispetto alla quale era detenuta una grande riserva aurea. Il diritto di riscatto, tuttavia, era limitato alle banche centrali estere, aziende e cittadini statunitensi continuavano ad essere legalmente esclusi dal detenere oro monetario. Per ottenerlo bisognava riscattare i dollari, una banca centrale estera doveva essere disposta a rischiare la disapprovazione delle autorità statunitensi in un momento in cui gli Stati Uniti stavano fornendo aiuti Marshall e difesa contro il blocco sovietico.

Rueff vide nel sistema di Bretton Woods, con il dollaro USA la valuta chiave, le stesse debolezze esibite dal gold exchange standard durante il periodo tra le due guerre mondiali, con la sterlina britannica e il dollaro USA che condividevano lo status di valuta chiave. Col gold standard classico ogni banca centrale (o sistema bancario, se come gli Stati Uniti e il Canada non aveva una banca centrale) deteneva le proprie riserve auree. Con Bretton Woods, al contrario, le banche centrali non statunitensi detenevano solo asset denominati in dollari statunitensi rimborsabili in oro (soprattutto titoli del Tesoro statunitensi) come riserve per mantenere un tasso di cambio fisso con il dollaro.

Questo accordo diede agli Stati Uniti quello che il ministro delle finanze francese definì un "privilegio esorbitante". Gli Stati Uniti potevano acquisire beni e servizi dal resto del mondo espandendo l'offerta di dollari, pagando il conto solo in un futuro indefinito. La tentazione si rivelò irresistibile. L'impianto di Bretton Woods non era compatibile con gli incentivi: permetteva al governo degli Stati Uniti di emettere valuta di riserva mondiale, con benefici immediati ma con pochi costi immediati per il perseguimento di una politica monetaria troppo espansiva per mantenere il suo ancoraggio nel lungo periodo. Le banche centrali estere detenevano asset in dollari come riserve e quindi li avrebbero accettati volentieri, almeno fino ad un certo punto (le banche centrali estere non detenevano banconote della Federal Reserve o saldi di conti correnti in dollari; le scambiavano con asset sicuri in dollari che fruttavano interessi). Il flusso di dollari all'estero significava che i sistemi monetari esteri guadagnavano riserve e potevano anche espanderle nominalmente, mentre (in in contrasto con il classico gold standard in base al quale gli Stati Uniti avrebbero perso oro per regolare la propria bilancia dei pagamenti) gli Stati Uniti non avevano bisogno di contrarle. Così il gold exchange standard, nelle parole di Rueff,"compromette la sensibilità e l'efficacia del meccanismo del gold standard" nell'auto-regolamentarsi.

Notare una cosa: fino ad un certo punto. L'immediato dopoguerra fu caratterizzato da lamentele di una "carenza di dollari" in Europa, poiché le banche centrali cercavano di accumulare le riserve di dollari di cui avevano bisogno per ancorarvi le loro valute nazionali. Nel corso del tempo, con il governo degli Stati Uniti che stampava dollari da esportare in Europa in cambio di beni e servizi, le discussioni si spostarono sul problema di un "eccesso di dollari". Le banche centrali europee accumularono più asset denominati in dollari di quanti avrebbero voluto. Come notò in seguito Rueff, gli Stati Uniti potevano persino andare oltre il punto di accumulo volontario, visto che potevano utilizzare la leva politica o diplomatica per scoraggiare le banche centrali estere dal riscattare l'oro. Ma tali discorsi diplomatici non sarebbero stati efficaci per sempre, poiché l'espansione monetaria causò l'accumulo di riserve sempre crescenti di dollari nelle banche centrali europee.

A differenza di Triffin, che preferiva risolvere i problemi del sistema di Bretton Woods con l'ampliamento delle linee di credito del FMI, Rueff raccomandava di eliminare le sue contraddizioni fondamentali sostituendo il gold standard di Bretton Woods con un gold standard internazionale a tutti gli effetti di stampo pre-bellico. Ogni nazione doveva detenere le proprie riserve auree. In questa raccomandazione Rueff era quasi solo, affiancato da un solo economista europeo contemporaneo, Michael Heilperin del Graduate Institute of International Studies di Ginevra. Negli Stati Uniti il giornalista economico Henry Hazlitt criticò Bretton Woods in modo simile a quello di Rueff. I politici internazionali, ovviamente, non abbracciarono l'analisi o le raccomandazioni di Rueff.


Il disfacimento del sistema di Bretton Woods

L'oro venne drenato dal Tesoro degli Stati Uniti durante gli anni '60, quando le banche centrali europee riscattarono alcune delle loro scorte di oro. La riduzione delle riserve auree statunitensi, a sua volta, amplificò ulteriormente i rimborsi: le banche centrali europee avevano compreso il pericolo crescente di una svalutazione del dollaro rispetto all'oro man mano che le riserve auree statunitensi si andavano esaurendo. Una banca centrale che avesse conservato asset in dollari quando sarebbe arrivata la svalutazione, si sarebbe ritrovata col cerino in mano.

Il Fondo Monetario Internazionale cercò di nascondere il problema emettendo "Diritti Speciali di Prelievo" (DSP) da utilizzare come mezzo di settlement internazionale al posto dell'oro, ma i DSP si rivelarono inutili nel fermare il drenaggio dell'oro dal Tesoro degli Stati Uniti. Quando le riserve auree statunitensi scesero a livello critico nell'agosto 1971, invece di frenare la politica monetaria statunitense, Nixon "chiuse la finestra dell'oro", interrompendo l'ultimo legame del sistema monetario internazionale col metallo giallo. Un sistema di settlement scoperto venne approvato nell'accordo Smithsonian del 1971, ma durò meno di 18 mesi prima che il mondo entrasse nell'era moderna delle valute fiat fluttuanti.

Il libro di Rueff del 1971, The Monetary Sin of the West, (pubblicato per la prima volta in francese come Le Péché Monêtaìre de l'Occident) fornisce un quadro nefasto della situazione con il sistema di Bretton Woods durante il suo ultimo decennio. Rueff vedeva gli squilibri accumulati negli anni '60 come simili a quelli che si erano accumulati prima del 1929 e temeva una crisi di dimensioni della Grande Depressione. La crisi che arrivò nel 1971, tuttavia, non fu una crisi di deflazione del debito, ma una crisi di ripudio del debito e di inflazione.

Rueff sostenne acutamente che ci si devono aspettare crisi croniche quando una banca centrale è incaricata di un gold standard. I meccanismi di mercato di un gold standard decentralizzato coordinano l'offerta di denaro con la domanda/offerta meglio di quanto possa o voglia qualsiasi pianificatore monetario centrale: “Non credo, infatti, che le autorità monetarie, per quanto coraggiose e ben informate possano essere, possano effettuare deliberatamente quelle contrazioni nell'offerta di denaro che il meccanismo del gold standard avrebbe generato automaticamente”. In pratica, le autorità hanno ritardato la contrazione, prolungando il boom fino a quando la correzione necessaria non è diventata un grande shock doloroso, mentre un gold standard decentralizzato opera quotidianamente, lentamente e gradualmente per mantenere l'equilibrio attraverso il meccanismo di price-specie flow.

In un articolo del febbraio 1970 su Le Monde, Rueff avvertì che "se le richieste residue di conversione di dollari in valuta estera o oro [...] fossero più di quanto gli Stati Uniti potessero soddisfare", le autorità monetarie americane avrebbero dovuto chiudere la finestra dell'oro. Come nota di accompagnamento, inserita nell'edizione americana del 1972, si legge: "Questo accadde il 15 agosto 1971".

La previsione di Rueff che il sistema di Bretton Woods non sarebbe sopravvissuto nella sua forma allora attuale, perché altri governi nazionali alla fine non sarebbero stati disposti a continuare ad accumulare pile di crediti in dollari, si è dimostrata corretta. D'altra parte Rueff avvertì costantemente che un'altra Grande Depressione incombeva se il sistema non fosse stato prontamente riformato nel modo da lui suggerito; scrisse molte volte di una "catastrofe" nelle sue opere. Dopo il fatto sappiamo che questi avvertimenti erano eccessivamente allarmistici, poiché non prese in considerazione la strategia di uscita proposta da Milton Friedman negli anni '60, anche prima che le riserve auree statunitensi iniziassero ad esaurirsi, vale a dire un passaggio a tassi di cambio fluttuanti combinato con una regola monetaria per limitare l'inflazione una volta che l'oro fosse stato rimosso. Non era necessaria alcuna deflazione.

Naturalmente Friedman ottenne solo la prima metà del suo programma. La fine de jure di Bretton Woods sancì la fine de facto (dalla metà degli anni '60) della politica monetaria da parte della FED vincolata alla rimborsabilità dell'oro. Nessun altro vincolo lo sostituì. La crescita annuale di M2 ha raggiunto le due cifre. Il tasso d'inflazione, già in aumento, seguì: passò a due cifre nel 1974, 1979 e 1980. Come si scoprì, quindi, il gold exchange standard di Bretton Woods terminò con l'espansione monetaria e la Grande Inflazione, non con la contrazione monetaria ed una Grande Depressione. Si potrebbe dire che l'inflazione posticipò la recessione al 1980-82. Anche se è vero che il 1980-82 fu una recessione relativamente grave, non somigliava affatto alla Grande Depressione.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


venerdì 8 settembre 2017

Capitalismo di libero mercato & capitalismo clientelare





di Richard Ebeling


Nella mente di molte persone in tutto il mondo, il termine "capitalismo" è sinonimo di ingiustizia, sfruttamento, privilegio e potere immeritati, e lucro immorale. Ciò che è spesso difficile da far capire, è che questa concezione mal riposta nel "capitalismo" non ha nulla a che fare con un libero mercato e una libertà economica, e soprattutto non ha nulla a che fare con un capitalismo laissez-faire.

Durante i giorni bui del collettivismo nazista in Europa, l'economista tedesco, Wilhelm Röpke (1899-1966), utilizzò il porto neutrale della Svizzera per scrivere e indire conferenze sui principi morali ed economici della società libera.

"Il collettivismo", metteva in guardia, "è il pericolo fondamentale e morale dell'occidente." Il trionfo del collettivismo significava "una tirannia politica ed economica, un'irreggimentazione e centralizzazione di ogni settore della vita, la distruzione della personalità, il totalitarismo e la meccanizzazione rigida della società umana."

Se il mondo occidentale dovesse essere salvato, disse Röpke, sarebbe necessario un "rinascimento del liberalismo [classico]" che scaturisce "da un desiderio elementare per la libertà e per l'individualità umana."



Qual è il significato del termine capitalismo?

Nel contempo, una tale rinascita sarebbe stata inseparabile dall'instaurazione di un'economia capitalista. Ma che cos'è il capitalismo? "Ogni volta che ci troviamo di fronte ad una difficoltà," diceva Röpke, ecco che "il capitalismo contiene così tante ambiguità da diventare inadatto per una valuta onesta."

Come soluzione, Röpke suggeriva di "fare una netta distinzione tra il principio di un'economia di mercato in quanto tale... e lo sviluppo reale che durante i secoli XIX e XX ha portato alla fondazione storica dell'economia di mercato."

Röpke continuò: "Se il termine 'capitalismo' dev'essere proprio utilizzato, allora dev'essere utilizzato con le dovute riserve e al massimo solo per designare la forma storica dell'economia di mercato... Solo in questo modo siamo al sicuro dal pericolo... di rendere il principio dell'economia di mercato responsabile per cose che sono da attribuire a tutta una combinazione storica... di elementi economici, sociali, legali, morali e culturali... in cui [il capitalismo] è apparso nel XIX secolo."

In tempi più recenti è diventata abitudine usare il termine "capitalismo clientelare", il che implica un "capitalismo" che viene distorto, abusato e manipolato da chi detiene il potere politico per trarre un vantaggio personale e uno per i gruppi con interessi particolari che desiderano ottenere ricchezza, ricavi e "quote di mercato", privilegi che invece avrebbero dovuto acquisire in un mercato aperto, libero e concorrenziale offrendo ai consumatori beni e servizi migliori rispetto ai loro rivali.



Capitalismo corrotto e capitalismo di libero mercato

Il capitalismo corrotto non è, purtroppo, una novità. Anche se nel XIX secolo la filosofia liberale classica della libertà politica e della libertà economica stava crescendo in influenza in Europa e in America, molte delle riforme verso una società più libera sono avvenute all'interno di un insieme d'idee, istituzioni e politiche che indebolirono l'istituzione di una società veramente libera.

Così, lo sviluppo storico del capitalismo moderno è stato "deformato" in alcuni aspetti essenziali fin dall'inizio. A quell'epoca le implicazioni e le esigenze di un'economia di mercato libera, trovavano opposizione e venivano sovvertite dai privilegi feudali residui e dall'ideologia mercantilista.

Anche se nei decenni centrali del XIX secolo molti dei fautori del capitalismo di libero mercato e del liberalismo individualista proclamavano la loro vittoria sul governo oppressivo e invadente, le nuove forze della reazione collettivista nascevano sotto forma di nazionalismo e socialismo.

Tre idee, in particolare, indebolirono i principi dell'economia di libero mercato e, di conseguenza, il capitalismo storico finì per contenere elementi totalmente in contrasto con l'ideale di laissez-faire – un capitalismo competitivo completamente separato dallo stato collettivista e assetato di potere.



“L'interesse nazionale” e le “politiche pubbliche”

Nei secoli XVII e XVIII, la nascita dello stato-nazione moderno in Europa occidentale generò l'idea di un cosiddetto "interesse nazionale" superiore rispetto agli interessi del singolo. Lo scopo delle "politiche pubbliche" era quello di definire ciò che serviva allo stato, e di limitare e dirigere le azioni degli individui lungo quei canali che sarebbero serviti a far progredire questo presunto "interesse nazionale".

Nonostante la scomparsa del concetto di diritto divino dei re e l'ascesa del concetto dei diritti (individuali) degli uomini, e nonostante la confutazione del mercantilismo da parte degli economisti di libero mercato nei secoli XVIII e XIX, i governi democratici hanno continuato a sostenere il concetto di un "interesse nazionale".

Invece di servire gli interessi del re, ora si postulava di servire gli interessi dei "popolo". Nel XX secolo le politiche pubbliche iniziarono ad occuparsi di "piena occupazione", livelli mirati di crescita economica, salari "equi" e profitti "ragionevoli", e investimenti pubblici in quelle attività ritenute appropriate per lo sviluppo economico.

Il capitalismo, dunque, venne considerato compatibile con uno stato interventista. Nel XIX secolo, in America spesso prese la forma di quelli che in seguito vennero definiti "miglioramenti interni" – lo stato finanziava e sovvenzionava "opere pubbliche" per costruire strade, canali e ferrovie, il tutto grazie ai soldi dei contribuenti i quali finivano nelle mani di aziende interessate a soddisfare la volontà dello stato piuttosto che quella dei consumatori.

Inoltre si manifestò attraverso il protezionismo commerciale destinato a favorire artificialmente le "industrie nascenti" con barriere tariffarie molto alte. Determinate aziende correvano dallo stato insistendo che non sarebbero mai potute crescere e prosperare se non fossero state protette dalla concorrenza estera, ovviamente a discapito dei consumatori che poi avrebbero avuto meno possibilità di scelta.

Ancora oggi esistono i progetti concernenti opere pubbliche, oltre ad una manipolazione dei modelli d'investimento attraverso politiche fiscali volte a proteggere le "start-up" considerate auspicabili dal punto di vista ambientale o essenziali dal punto di vista della "sicurezza nazionale". Senza dimenticare la regolamentazione economica pervasiva che controlla ed impone i metodi di produzione, i tipi e i gradi della concorrenza, e le associazioni e le relazioni che sono autorizzate in ambito commerciale a livello nazionale e internazionale.

Nell'uso fuori luogo dell'espressione "capitalismo americano di libero mercato" c'è poco che non sfugga al braccio lungo della stato altamente interventista, e l'applicazione del potere politico ha come risultato conseguenze impreviste che vanno a beneficio di pochi e a spese di molti.

Lo stato interventista nell'evoluzione storica del capitalismo è diventato agli occhi della maggior parte delle persone un presupposto imprescindibile per mantenere l'economia di mercato al servizio del cosiddetto "interesse nazionale".



Il settore bancario centrale: pianificazione monetaria centrale

Sia in Europa sia negli Stati Uniti, l'applicazione e la pratica dei principi di un'economia di libero mercato sono state compromesse dall'esistenza della pianificazione monetaria centrale incarnata nel settore bancario centrale.

Viste dapprima come un dispositivo per garantire un flusso costante di denaro a buon mercato e per finanziare le operazioni dello stato senza che quest'ultimo dovesse rivolgersi direttamente ai sudditi e ai cittadini attraverso l'imposizione fiscale, le banche centrali furono presto considerate come l'istituzione monetaria essenziale per la stabilità economica.

Ma l'economista tedesco, Gustav Stopler, spiegò molti decenni fa nel suo libro, This Age of Fable (1942), che il controllo statale sul denaro indebolisce la nozione stessa di un'economia di libero mercato:

"Pochi fautori del capitalismo di libero si rendono conto di quanto i loro ideali siano stati fatti a pezzi nel momento in cui lo stato ha assunto il controllo del sistema monetario. . . Un capitalismo 'libero' con responsabilità per la moneta e il credito nelle mani dello stato, ha perso la sua innocenza. Da questo punto in poi non è più una questione di principio, ma di aspettative, ovvero, fino a che punto si spigneranno le interferenze dello stato. Il controllo del denaro è il controllo supremo tra tutti i tipi di controllo statale."

Una volta che lo stato controlla l'offerta di moneta, ha la capacità di ridistribuire la ricchezza, creare inflazione e causare depressioni economiche e recessioni; falsificare la struttura dei prezzi e dei salari distorcere i valori e le scelte degli acquirenti e dei venditori; e generare un'errata allocazione del lavoro e del capitale in tutta l'economia, diffondendo quindi squilibri economici.

Quindi, a fronte di un'instabilità del mercato e di distorsioni causate dalla cattiva gestione della massa monetaria e del sistema bancario, le autorità politiche razionalizzano ancora di più l'intervento statale affinché "aggiusti" le conseguenze dei cicli di boom-bust create dalle stesse banche centrali.



La “crudeltà” del capitalismo e lo stato sociale

Le classi privilegiate della società pre-capitalistica odiavano il mercato. L'individuo è stato liberato dalla sottomissione e dall'obbedienza nei confronti della nobiltà, dell'aristocrazia e degli interessi terrieri.

Per questi gruppi privilegiati, un libero mercato significava la perdita di manodopera a basso costo, la scomparsa di un "giusto rispetto" da parte dei loro "sottoposti" e l'incertezza economica scaturita dal mutare delle circostanze di mercato.

Per i socialisti del XIX e XX secolo, il capitalismo era una fonte di sfruttamento e precarietà economica per "la classe operaia" che era considerata dipendente dai presunti capricci della "classe capitalista".

Lo stato sociale è diventato la "soluzione" per la presunta crudeltà del capitalismo, una soluzione che ha creato una vasta burocrazia e ha rimosso dalla società quello che significava la libertà: responsabilità e mutuo soccorso attraverso l'associazione volontaria e la benevolenza umana.

Un sistema "capitalista" con uno stato sociale non è più una società libera. Vengono penalizzati i laboriosi e produttivi attraverso le tasse e altri oneri di ridistribuzione in base alla logica del "vittimismo": altri nella società non ricevono il "giusto".

Vengono indeboliti lo spirito e la realtà della realizzazione individuale, e si diffonde una mentalità di "diritto" su ciò che altri hanno onestamente prodotto. E viene ripristinata la terribile idea che lo stato non dev'essere il protettore dei diritti individuali di ogni cittadino, ma l'arbitro che determina mediante la forza ciò che ognuno merita "giustamente".

La competizione pacifica e armoniosa del libero mercato nella ricerca dell'eccellenza e del miglioramento creativo, viene sostituita dal gioco del saccheggio reciproco poiché gli individui e i gruppi nella società cercano d'afferrare ciò che possiedono gli altri attraverso un sistema ridistributivo statale.



Il capitalismo di libero mercato è stato ostacolato e distorto

Il principio dell'economia di libero mercato non è mai stato raggiunto. Quello che viene chiamato oggi "capitalismo" è un sistema contorto e deforme di relazioni di mercato sempre più limitate, e processi di mercato ostacolati e repressi da controlli statali.

E all'apice del sistema del capitalismo "clientelare" interventista ci sono le ideologie del mercantilismo settecentesco, il socialismo e il nazionalismo del XIX secolo, e lo statalismo sociale paternalistico del ventesimo secolo.

In questo sviluppo deformato del "capitalismo storico", come lo definì Wilhelm Röpke, le istituzioni di un'economia di libero mercato o sono state indebolite o sono state soppresse.

Nel contempo, i principi e il significato reale di un'economia di libero mercato sono diventati sempre più incompresi. Ma sono questi che bisogna riscoprire se si vuole salvare la libertà e scrollarsi di dosso il fardello del "capitalismo storico".

I socialisti e i "progressisti" hanno rubato il concetto di liberalismo come filosofia politica dei diritti individuali e della libertà, del rispetto e protezione della proprietà privata acquisita onestamente, e della produzione e commercio pacifici e volontari. Il concetto di liberalismo è stato usurpato e trasformato nel grande fratello paternalistico che oggi controlla ogni aspetto della nostra vita in nome del "bene sociale".



Ripristinare l'ideale del capitalismo di libero mercato

I socialisti con la parola "capitalismo" intendevano una serie di abusi. Ma significava anche un sistema d'impresa creativa composto da individui liberi e autonomi, ognuno perseguente i propri obiettivi pacifici attraverso il lavoro onesto, il risparmio e gli investimenti. L'uomo "self-made" del capitalismo era un modello ideale per i giovani d'America. Un uomo che era motivato dalla sua visione di sé come responsabile e indipendente, che poteva costruire qualcosa di nuovo, migliore e più efficiente in base al potenziale del ragionamento e delle sue azioni.

La sua ricchezza, se accumulata con successo, era guadagnata in modo onesto nel mercato delle idee e dell'industria, non saccheggiata e rubata con la forza e il potere politico. Nessun individuo viene derubato o sfruttato in un libero mercato, dal momento che tutto il commercio è volontario e nessun uomo potrebbe essere costretto ad operare uno scambio o ad associarsi con qualcuno che non è di suo gradimento.

La libera concorrenza fa sì che ognuno tenda a ricevere e guadagnare un salario che riflette la stima del suo valore produttivo agli occhi degli altri. Ogni individuo è libero di migliorare le sue doti e capacità affinché possa rendere i suoi servizi più preziosi agli occhi degli altri, e quindi guadagnare un salario superiore commisurato alle nuove competenze.

La ricchezza accumulata consente la formazione di investimenti e di capitali per la produzione di beni e servizi nuovi, migliori e più voluti dai consumatori, la maggior parte dei quali è composta da lavoratori salariati impiegata nella produzione e fabbricazione di tali merci sotto la guida di uomini d'affari e imprenditori di successo.

Il capitalismo di libero mercato incorona il consumatore come "re" del mercato, il quale determina se gli imprenditori debbano guadagnare profitti o subire perdite, in base a ciò che decidono d'acquistare e quanto spendere.

È il capitalismo di libero mercato che contribuisce a rendere ogni uomo e donna "capitano" del proprio destino, libero/a di scegliere quale lavoro e occupazione svolgere e libero/a di spendere il reddito guadagnato lungo quello stile di vita che dà senso e scopo alla propria vita.

Nessuna persona deve sopportare umiliazioni, abusi o mancanze di rispetto da parte di un burocrate o un funzionario politico che ha il controllo sulla sua sorte attraverso il potere pianificatore, normativo e ridistributivo dello stato.

Il capitalismo di libero mercato offre opportunità e scelte alle persone come consumatori, lavoratori e produttori, con la libertà di cambiare rotta quando i costi eccedono i vantaggi.

Il capitalismo di libero mercato, o laissez-faire, rende possibile tutto questo perché poggia su un fondamento filosofico profondo: il diritto dell'individuo alla propria vita, di viverla come vuole fintanto che rispetta il pari diritto degli altri a fare lo stesso.

Il capitalismo di libero mercato insiste sul fatto che non vi è "interesse nazionale" più elevato al di sopra degli interessi individuali dei singoli cittadini. Con un capitalismo di libero mercato, lo stato non dovrebbe controllare il denaro e il sistema bancario così come non dovrebbe controllare la produzione e la vendita di scarpe, sapone, o salame.

E il capitalismo di libero mercato richiede che la proprietà guadagnata onestamente debba essere protetta dal saccheggio e dal furto, e ciò include qualsiasi tentativo di giustificare il rubare a Pietro per ridistribuire a Paolo attraverso il potere coercitivo dello stato.

Il buon nome del "capitalismo" dev'essere ripreso e restaurato, così come il buon nome e il concetto di "liberalismo" dev'essere restituito ai sostenitori della libertà individuale e della libera impresa.

Ma questo compito richiede amanti della libertà affinché spieghino e chiariscano agli altri che quello che abbiamo oggi non è "capitalismo", e definirlo per quello che invece è veramente.

La realtà del "capitalismo storico", di cui parlava Wilhelm Röpke, è il "capitalismo clientelare" il quale dev'essere respinto in modo che gli uomini liberi possano un giorno vivere e beneficiare dal capitalismo di libero mercato, unico sistema economico coerente con una società libera.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


lunedì 31 ottobre 2016

Böhm-Bawerk: un economista Austriaco che disse “No” al Big Government





di Richard Ebeling


Viviamo in un'epoca in cui politici e burocrati conoscono solo una via politica: uno stato sempre più grande. Eppure c'è stato un tempo in cui anche coloro che hanno servito nel governo difendevano una sua presenza limitata nella vita delle persone. Uno dei più grandi di questi è morto un centinaio di anni fa, il 27 agosto 1914, l'economista austriaco Eugen von Böhm-Bawerk.

Böhm-Bawerk è più famoso come uno dei principali critici del marxismo e del socialismo negli anni precedenti la prima guerra mondiale. È altrettanto famoso come uno degli sviluppatori della teoria "dell'utilità marginale" come base per mostrare la logica e il funzionamento del sistema dei prezzi in un mercato competitivo.

Ma per tre volte ha anche ricoperto il ruolo di ministro delle finanze nel vecchio impero austro-ungarico, periodo durante il quale ha strenuamente combattuto per una spesa pubblica e una tassazione più basse, bilanci in pareggio, e un solido sistema monetario basato sul gold standard.



Il pericolo di una spesa pubblica fuori controllo

Anche dopo che Böhm-Bawerk aveva lasciato la carica pubblica ha continuato a mettere in guardia dai pericoli insiti in una spesa pubblica incontrollata, poiché avrebbe condotto l'Austria-Ungheria lungo la strada della rovina. Parole tanto vere allora quanto oggi.

Nel gennaio del 1914, poco più di un un anno e mezzo prima dell'inizio della prima guerra mondiale, Böhm-Bawerk, in una serie di articoli su uno dei più importanti giornali di Vienna, disse che il governo austriaco stava seguendo una politica d'irresponsabilità fiscale. Nel corso degli ultimi tre anni, la spesa pubblica era aumentata del 60%, e per ciascuno di questi anni il deficit pubblico era stato pari a circa il 15% della spesa totale.

Come disse Böhm-Bawerk, il parlamento austriaco e il governo in generale erano avvolti in una tela di ragno fatta di interessi specifici. Costituito da un gran numero di gruppi linguistici e nazionali, l'Impero austro-ungarico era stato danneggiato attraverso l'abuso del processo democratico, dove ogni gruppo d'interesse utilizzava il sistema politico per ottenere privilegi e favori a scapito di altri.

Böhm-Bawerk lo spiegò così:

"Abbiamo visto innumerevoli varianti del gioco fastidioso in cui si genera soddisfazione politica attraverso concessioni materiali. Se in passato i parlamenti sono stati i guardiani della parsimonia, oggi sono i suoi nemici giurati."

"Al giorno d'oggi i partiti politici e nazionalisti [...] hanno l'abitudine di coltivare l'avidità attraverso un ampio ventaglio di benefici per i loro connazionali o circoscrizioni, e se la situazione politica sarà corrispondentemente favorevole, vale a dire corrispondentemente sfavorevole per il governo, allora la pressione politica produrrà ciò che si vuole. Molto spesso, però, a causa della rivalità attentamente calcolata e la gelosia tra le parti, ciò che viene concesso ad un gruppo, dev'essere concesso anche agli altri — da una sola concessione costosa scaturisce un intero pacchetto di concessioni costose."

Accusò il governo austriaco d'aver "sperperato tutta la nostra fortuna [prosperità economica] fino all'ultimo centesimo, prendendo in prestito nel presente a scapito del futuro.

Per qualche tempo aggiunse anche: "Un numero elevato tra le nostre autorità pubbliche ha vissuto oltre le proprie possibilità." Una tale politica fiscale stava minacciando la stabilità finanziaria di lungo periodo e la solidità di tutto il paese.

Otto mesi più tardi, nell'agosto 1914, l'Austria-Ungheria e il resto d'Europa finirono nel cataclisma bellico che poi divenne noto come prima guerra mondiale. E non solo le finanze dell'Impero austro-ungarico finirono in rovina quando si concluse la guerra quattro anni più tardi, dal momento che l'impero stesso scomparve dalla mappa dell'Europa.



Un uomo onesto e integro

Eugen von Böhm-Bawerk è nato il 12 febbraio 1851 a Brno, capitale della provincia austriaca della Moravia (oggi la parte orientale della Repubblica Ceca). Morì il 27 agosto 1914, all'età di 63 anni, proprio mentre stava cominciando la prima guerra mondiale.

Dieci anni dopo la morte di Böhm-Bawerk, uno dei suoi studenti, l'economista austriaco Ludwig von Mises, scrisse un saggio sul suo insegnante:

"Eugen von Böhm-Bawerk rimarrà nella mente di tutti coloro che lo hanno conosciuto. Gli studenti che hanno avuto la fortuna d'essere membri del suo seminario [presso l'Università di Vienna] non potranno mai perdere ciò che hanno ottenuto dal contatto con questa grande mente. Per quei politici che sono venuti in contatto con tale uomo, la sua onestà estrema, il suo altruismo e la sua dedizione al dovere, rimarranno per sempre un fulgido esempio."

"E nessun cittadino di questo paese [Austria] dovrebbe mai dimenticare l'ultima ministro austriaco delle finanze, che, a dispetto di tutti gli ostacoli, ha cercato seriamente di mantenere l'ordine nelle finanze pubbliche ed evitare la catastrofe finanziaria. Anche quando tutti coloro che sono stati vicino a Böhm-Bawerk avranno lasciato questa vita, la sua opera scientifica continuerà a vivere e dare i suoi frutti."

Un altro degli studenti di Böhm-Bawerk, Joseph A. Schumpeter, usò gli stessi termini entusiastici nei confronti del suo maestro, dicendo: "Non era solo una delle figure più brillanti nella vita scientifica del suo tempo, ma anche un fulgido esempio di statista, un grande ministro delle finanze [...]. Come dipendente pubblico, si prese carico del compito più difficile e ingrato della politica, il compito di difendere sani principi finanziari."

I contributi scientifici a cui sia Mises sia Schumpeter si riferivano, erano quelli di Böhm-Bawerk e di quella che è diventata nota come teoria Austriaca del capitale e degli interessi, e della sua formulazione altrettanto penetrante della teoria Austriaca del valore e del prezzo.



La teoria Austriaca del valore soggettivo

La scuola Austriaca d'economia è nata nel 1871 con la pubblicazione di Principi d'Economia di Carl Menger. In questo lavoro, Menger sovvertì le premesse fondamentali degli economisti classici, da Adam Smith passando per David Ricardo fino a John Stuart Mill. Menger sosteneva che la teoria del valore-lavoro era fallace, perché presumeva che il valore delle merci fosse determinato dalle quantità relative di lavoro che erano state spese nella loro fabbricazione.

Invece Menger formulò una teoria soggettiva del valore, dicendo che il valore ha origine nella mente del valutatore. Il valore dei mezzi riflette il valore dei fini che il valutatore vorrebbe raggiungere. Il lavoro, quindi, come le materie prime e le altre risorse, deriva il proprio valore dal valore della merce che può produrre. Da questo punto di partenza, Menger delineò una teoria del valore dei beni e dei fattori produttivi, e una teoria dei limiti di scambio e della formazione dei prezzi.

Böhm-Bawerk e il suo futuro cognato, Friedrich von Wieser, scoprirono il libro di Menger poco dopo la sua pubblicazione. Entrambi videro immediatamente il significato del nuovo approccio soggettivo per lo sviluppo della teoria economica.

Verso la fine del XIX secolo Böhm-Bawerk entrò a far parte nella macchina pubblica, e presto divenne Ministero delle Finanze. Lavorò sulla riforma del sistema fiscale austriaco. Ma nel 1880, con l'aiuto di Menger, Böhm-Bawerk venne nominato professore presso l'Università di Innsbruck, posizione che conservò fino al 1889.



Gli scritti di Böhm-Bawerk sul valore e sul prezzo

Durante suddetto periodo scrisse i due libri che avrebbero stabilito la sua reputazione come uno degli economisti più importanti del suo tempo, Capital and Interest, Vol. I: History and Critique of Interest Theories (1884) e Vol. II: Positive Theory of Capital (1889). E un terzo volume, Further Essays on Capital and Interest, apparso nel 1914 poco prima della sua morte.

Nel primo volume di Capital and Interest, Böhm-Bawerk presentò un ampio e dettagliato studio critico sulla teorie dell'origine dell'interesse dal mondo antico fino al suo tempo. Ma fu nel secondo volume che emerse il maggiore contributo di Böhm-Bawerk al corpo dell'economia Austriaca. Al centro del volume, c'è una digressione di 135 pagine in cui viene presentata una dissertazione raffinata sulla teoria soggettiva Austriaca del valore e del prezzo. Egli sviluppò nei minimi dettagli la teoria dell'utilità marginale, mostrando la logica di come gli individui valutano e soppesano le alternative tra cui possono scegliere, e il processo che porta a decisioni di determinate combinazioni guidate dal principio marginale. E mostra come lo stesso concetto d'utilità marginale spiega l'origine e il significato dei costi e delle valutazioni assegnate ai fattori di produzione.

Nella sezione sulla formazione dei prezzi, Böhm-Bawerk sviluppa una teoria di come le valutazioni soggettive di acquirenti e venditori creino incentivi per le offerte di entrambe le parti. Egli spiega come la logica della creazione dei prezzi da parte degli attori di mercato, determina anche l'intervallo in cui qualsiasi prezzo d'equilibrio deve infine venire a crearsi, visti i prezzi massimi della domanda e i prezzi minimi dell'offerta degli acquirenti e dei venditori.



Capitale e tempo per gli investimenti come fonti di prosperità

È impossibile elencare tutti i pregi della teoria del capitale e dell'interesse di Böhm-Bawerk. Ma possiamo ricordare che affinché l'uomo possa raggiungere i suoi fini desiderati, deve scoprire i processi causali attraverso i quali il lavoro e le risorse a sua disposizione possono essere utilizzati. Al centro di questo processo di scoperta c'è l'intuizione che spesso il percorso più efficace per raggiungere un obiettivo desiderato, è quello che passa attraverso metodi "circolari" di produzione. Un uomo sarà in grado di catturare più pesci in un breve lasso di tempo, se prima costruirà una rete da pesca, ricavando una canoa da un tronco d'albero, e creando una pagaia da un altro albero.

Ci sarà una maggiore produttività in futuro, se l'individuo sarà disposto ad intraprendere un certo "periodo di produzione", durante il quale le risorse e il lavoro saranno utilizzate per fabbricare capitale — rete da pesca, canoa, e pagaia — che verrà poi impiegato per pescare quanti più pesci possibili, e soprattutto più grandi.

Ma il tempo necessario per intraprendere e attuare questi metodi più circolari di produzione comportano un costo. L'individuo dev'essere disposto a rinunciare ad attività di produzione (spesso meno produttive) nel futuro più immediato (andare a caccia con una lancia), perché lavoro e risorse richiedono un metodo di produzione che consuma più tempo, ma i risultati saranno più produttivi.



L'interesse su un prestito riflette il valore del tempo

Ciò portò Böhm-Bawerk alla sua teoria dell'interesse. Ovviamente gli individui che valutano le possibilità di produzione appena discusse, devono prima pesare i fini disponibili rispetto ad altri (forse più produttivi) ottenibili in seguito. Come regola generale, gli individui preferiscono merci prima piuttosto che dopo.

Ogni individuo pone un premio sui beni disponibili nel presente e pone una sorta di penale su alcuni beni che possono essere ottenuti solo in futuro. Dal momento che gli individui hanno diversi premi e penali (preferenze temporali), il commercio offre benefici reciproci. Questa è la fonte del tasso d'interesse: è il prezzo della negoziazione tra consumo e produzione di merci nel corso del tempo.



Böhm-Bawerk confuta la critica marxiana al capitalismo

Una delle più importanti applicazioni della teoria di Böhm-Bawerk la ritroviamo nella confutazione della teoria marxiana dello sfruttamento, secondo cui i datori di lavoro staccano profitti privando i lavoratori del valore di ciò che producono col loro lavoro. Presentò la sua critica alla teoria di Marx nel primo volume di Capital and Interest e in un lungo articolo originariamente pubblicato nel 1896 sulle "Contraddizioni irrisolte nel sistema economico marxista". In sostanza, Böhm-Bawerk sosteneva che Marx avesse confuso l'interesse col profitto. Nel lungo periodo non possono essere guadagnati profitti in un mercato competitivo, perché gli imprenditori faranno salire i prezzi dei fattori di produzione e attraverso la competizione faranno scendere i prezzi dei beni di consumo.

Ma tutta la produzione richiede tempo. Se tale lasso di tempo è di una lunghezza significativa, i lavoratori devono essere in grado di sostenersi fino a quando il prodotto è pronto per la vendita. Se non sono disposti o non sono in grado di sostenersi, qualcun altro deve anticipare il denaro (salari) per consentire loro di consumare nel frattempo.

Questo, spiegò Böhm-Bawerk, è quello che fa il capitalista. Risparmia rinunciando al consumo, e tali risparmi sono la fonte dei salari dei lavoratori durante il processo produttivo. Ciò che Marx definì "profitti provenienti dallo sfruttamento", Böhm-Bawerk definì invece il pagamento implicito dell'interesse per anticipare i soldi ai lavoratori durante i processi ciclici di produzione.



Difendere il conservatorismo fiscale nel Ministero delle Finanze austriaco

Nel 1889 Böhm-Bawerk venne richiamato dal mondo accademico al Ministero delle Finanze austriaco, dove lavorò sulla riforma dei sistemi d'imposizione diretta e indiretta. Venne promosso a capo del dipartimento fiscale nel 1891. Un anno dopo diventò vice-presidente della commissione nazionale che propose di implementare il gold standard in Austria-Ungheria, come mezzo per stabilire un sistema monetario sonante scevro da manipolazioni statali.

Tre volte ricoprì il ruolo di ministro delle finanze: per breve tempo nel 1895, di nuovo nel 1896-1897, e poi dal 1900 al 1904. Durante l'ultimo periodo, Böhm-Bawerk dimostrò il suo impegno per il conservatorismo fiscale, con la spesa pubblica e la tassazione tenuti rigorosamente sotto controllo.

Tuttavia Ernest von Koerber, primo ministro austriaco, mise a punto un sistema di opere pubbliche notevolmente costoso nel nome dello sviluppo economico. Doveva essere costruita una fitta rete di linee ferroviarie e canali per collegare varie parti dell'Impero austro-ungarico — sovvenzionando nel processo una vasta gamma di gruppi d'interesse in quello che oggi sarebbe descritto come un programma di "stimolo" per "creare posti di lavoro".

Böhm-Bawerk lottò instancabilmente contro quella che considerava una stravaganza fiscale, cosa che richiedeva tasse più alte e debito più alto, senza che ci fosse garanzia alcuna che i benefici industriali avrebbero giustificato la spesa. Alle riunioni del Consiglio dei Ministri, Böhm-Bawerk andò contro alle proposte di spesa presentate dall'imperatore austriaco Francesco Giuseppe, il quale presiedeva le sedute.

Quando alla fine diede le dimissioni dal Ministero delle Finanze nell'ottobre 1904, Böhm-Bawerk era riuscito ad impedire la maggior parte dei progetti di spesa del primo ministro Koerber. Ma scelse di dimettersi a causa di quelle che considerava "irregolarità" finanziarie nel bilancio della difesa austriaca.

Tuttavia gli articoli di Böhm-Bawerk risalenti al 1914 e con argomento centrale le finanze statali, indicano che l'ondata di spesa pubblica che aveva combattuto così duramente aveva infine invaso il paese.



Controllo politico o legge economica

Pochi mesi dopo la sua scomparsa, nel dicembre 1914, venne stampato il suo ultimo saggio, "Control or Economic Law?" In esso spiegava come i vari gruppi d'interesse nella società, soprattutto i sindacati, fossero annebbiati dalla falsa concezione che attraverso l'uso o la minaccia della forza sarebbero stati in grado d'aumentare i salari in modo permanente.

Impostare arbitrariamente salari e prezzi ad un livello più elevato di quello che pensano datori di lavoro ed acquirenti – ad esempio con l'imposizione di un salario minimo – non fa altro che mandare fuori mercato alcuni prezzi e lavori.

Inoltre quando i sindacati impongono stipendi ai datori di lavoro, stipendi fuori mercato, i sindacati non fanno altro che erodere temporaneamente i margini di profitto dei datori di lavoro, i quali hanno l'incentivo a lasciare quel settore dell'economia.

Ciò che fa aumentare i salari reali dei lavoratori nel lungo periodo è la formazione di capitale e gli investimenti in quei metodi di produzione più indiretti, i quali aumentano la produttività dei lavoratori e quindi rendono i loro servizi più preziosi nel lungo periodo, mentre aumentano anche la quantità di beni e servizi che possono comprare con i loro stipendi di mercato.

Eugen von Böhm-Bawerk difese fino all'ultimo la ragione e la logica del mercato contro gli appelli emotivi e i ragionamenti sbagliati di coloro che volevano usare il potere e lo stato per acquisire dagli altri quello che non potevano ottenere attraverso la libera concorrenza. I suoi contributi alla teoria economica e alla politica economica l'hanno portato ad essere considerato uno dei più grandi economisti di tutti i tempi.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


venerdì 10 giugno 2016

La saggezza di Adam Smith per i nostri tempi





di Richard Ebeling


La costante crescita della spesa pubblica, della tassazione e della regolamentazione degli affari economici negli Stati Uniti e in molte altre parti del mondo, ha sollevato nuovamente la questione fondamentale del controllo politico e dell'intervento sul mercato. Il 5 giugno scorso è stato il 293° compleanno del famoso economista scozzese Adam Smith, e forse val la pena di ricordare le sue intuizioni sulla superiorità del libero mercato rispetto alla mano pesante dello stato.

Adam Smith è nato il 5 Giugno 1723 nel piccolo villaggio di Kirkcaldy, Scozia. Lo crebbe la madre dopo che il padre morì quando lui aveva solo due mesi di vita. Smith avrebbe potuto avere un futuro diverso quando all'età di quattro anni venne rapito da una banda di zingari. Fortunatamente per il genere umano venne formato un drappello di persone e fu salvato.

Era notoriamente distratto. Una volta cadde in un pozzo al lato della strada, mentre conversava animatamente con un amico. In un'altra occasione si fece una bevanda a base di pane e burro e dichiarò che fosse il tè peggiore che avesse mai preparato.

Smith fu professore di filosofia morale per più di dodici anni presso l'Università di Glasgow (1751-1763). Lasciò l'università per servire come precettore del figlio di un nobile inglese per tre anni, dopo di che venne premiato con una pensione privata che gli diede il tempo di lavorare sul libro di cui è più famoso, "Indagine sulla Natura e sulle Cause della Ricchezza delle Nazioni."

"La Ricchezza delle Nazioni" venne pubblicato nel marzo 1776, pochi mesi prima della firma della Dichiarazione d'Indipendenza Americana nel luglio del 1776. Se i Padri Fondatori americani articolarono nella loro Dichiarazione il caso politico in favore della libertà individuale, Adam Smith presentò la tesi complementare in favore della libertà economica e della libera d'impresa.



Un “sistema di libertà naturale”

Un motivo per scrivere il libro era quello di confutare il sistema allora esistente di controlli e regolamenti statali pervasivi, noti come mercantilismo. Adam Smith dichiarò che se fosse stata abrogata l'interferenza statale nel mercato, sarebbe sorto al suo posto quello che definì un "sistema di libertà naturale".

Ogni individuo, fino a quando non violava le "leggi della giustizia" – il rispetto per il diritto di ogni persona alla vita, alla libertà e alla proprietà acquisita in modo onesto – sarebbe stato "lasciato perfettamente libero di perseguire il proprio interesse e di portare la sua industria e il suo capitale in concorrenza con quelli di qualsiasi altro uomo o gruppo di uomini."

Quali sono, dunque, le funzioni dello stato in questo "sistema di libertà naturale"? Adam Smith gli assegnò un piccolo insieme di competenze legate all'autorità politica.

In primo luogo, la difesa nazionale: la protezione contro gli attacchi aggressivi di altri paesi che minaccerebbero la libertà e la sicurezza dei cittadini;

In secondo luogo, la polizia e i tribunali: garantire ad ogni cittadino la vita, la libertà e la proprietà contro ladri e banditi, e risolvere le controversie che possono insorgere tra gli uomini;

E, in terzo luogo, la fornitura di un piccolo manipolo di "opere pubbliche" come strade, ponti, dragaggio dei porti e simili. Fatta eccezione per un paio di altre attività limitate e ristrette, secondo Adam Smith tutte le altre questioni sarebbero state lasciate alle scelte e alle decisioni degli individui.

Il sistema della libertà naturale concepito da Smith, di conseguenza, era molto vicino all'ideale laissez-faire di libero mercato.



I pericoli dell'ingegneria sociale

Aveva timore di estendere il controllo dello stato al di là di questi doveri ristretti, perché era facile che coloro che chiamava "uomini del sistema" abusassero del potere politico. Questi sono coloro che oggi chiameremmo "ingegneri sociali" o "pianificatori paternalisti", i quali presumono di avere una conoscenza superiore rispetto a quella di tutti gli altri.

L'ingegnere sociale considera i membri della società come delle semplici pedine sulla "grande scacchiera della società", da spostare a suo piacimento senza soffermarsi a pensare che ciascuna di queste "pedine" è viva, pensa, valuta e pianifica individualmente le proprie decisioni.

Come scrisse Adam Smith nel suo libro, "La Teoria dei Sentimenti Morali" (1759):

"L'uomo del sistema, al contrario, ritiene di essere molto saggio nella sua presunzione, ed è spesso così innamorato della presunta bellezza del proprio piano ideale di governo, che non riesce a concepirne la minima deviazione."

"Va avanti affinché possa essere implementato completamente e in tutte le sue parti, senza alcun riguardo né per i grandi interessi o per i forti pregiudizi che potrebbero opporvisi; sembra immaginare di poter essere in grado organizzare i diversi membri di una grande società con la stessa facilità con cui la mano organizza i vari pezzi su una scacchiera."

"Egli non ritiene che i pezzi sulla scacchiera possano avere un altro principio di movimento al di fuori di quello impresso dalla sua mano; ma nella grande scacchiera della società umana, ogni singolo pezzo ha un principio di movimento proprio, del tutto diverso da quello che il legislatore potrebbe scegliere d' imprimere su di esso."

Gli "uomini del sistema" si considerano superiori agli altri, e quest'ultimi devono conformarsi obbligatoriamente al loro progetto politico. Come osservò Smith:

"Insistere sull'applicazione di un'idea particolare nonostante tutte le opposizioni, significa dare sfoggio del più alto grado di arroganza. Significa erigere il proprio giudizio a standard supremo di giusto e sbagliato. Significa immaginarsi l'unico uomo saggio in tutto il Commonwealth, e per questo degno di essere ascoltato in tutto e per tutto."



La divisione del lavoro e l'associazione umana

Ma se gli stati e gli ingegneri sociali non devono pianificare e dirigere il come e il dove delle questioni economiche legate alla vita quotidiana degli attori di mercato, com' è possibile garantire la produzione di prodotti e servizi che la gente desidererà acquistare per soddisfare i propri desideri?

Adam Smith affermava che i rapporti economici della società non hanno bisogno di una guida e della mano dominante dello stato. Essi emergono naturalmente e spontaneamente, senza ordini politici o direttive politiche.

Grazie ai talenti e alle abilità intrinseche e acquisite delle persone, in ogni società è emerso un sistema di divisione del lavoro. La gente inizia a specializzarsi in quella che ritiene che sia la propria specialità produttiva e che ritiene di poterla creare comparativamente meglio rispetto agli altri; offrendo questo tipo di produzione a qualcun altro, si decide di entrare in possesso di altri oggetti che vengono prodotti comparativamente meglio da altri individui. Adam Smith lo spiegò così:

"È il motto di ogni padre prudente di famiglia: non tentare di fare qualcosa che gli costerà di più farla che comprarla. Il sarto non tenta di creare le proprie scarpe, ma le acquista dal calzolaio. Il calzolaio non cerca di crearsi i propri vestiti, ma si avvale dei servizi di un sarto. Il contadino non cerca di fare né l'uno né l'altro, ma si avvale dei servizi di queste due figure."

"Tutti loro trovano che sia meglio impiegare la loro industria laddove hanno un qualche vantaggio rispetto ai vicini, e utilizzare in un secondo momento la loro produzione, o parte della loro produzione, per acquistare quei prodotti che non riuscirebbero a creare da soli."

"Quella che viene definita prudenza nella conduzione degli affari familiari, difficilmente può essere definita follia quando pensiamo ad un grande regno. Se un paese straniero può fornirci una merce a prezzi più convenienti, meglio comprarla da loro con una parte dei prodotti della nostra industria in cui siamo migliori."




Interesse personale razionale e la “mano invisibile”

Questa divisione del lavoro crea una rete ineludibile d' interdipendenza umana in cui ognuno si specializza nella produzione di una piccola manciata di merci, e le utilizza come suo mezzo di pagamento per acquistare la produzione di altri.

Se questa rete di divisione del lavoro esiste e opera in un "sistema di libertà naturale", ogni uomo scoprirà presto che è nel proprio interesse usare le proprie attività in modi che miglioreranno le condizioni degli altri esseri umani, come mezzo più sicuro per raggiungere i propri obiettivi.

Proprio perché il "sistema della libertà naturale" esclude la violenza, il furto o la frode, l'unico modo in cui ogni individuo può acquisire da altri ciò che desidera è usare le proprie conoscenze, abilità e risorse affinché gli permettano di produrre e offrire agli altri ciò che desiderano ed entrare infine in possesso, attraverso lo scambio, di quello che voleva in primo luogo.

Così, anche se non è sua intenzione migliorare le condizioni di vita degli altri, è nell'interesse di ogni individuo dedicare i suoi sforzi per servire i bisogni di questi altri, come un mezzo per raggiungere i propri fini. E, in tal modo, l'effetto cumulativo per la società, sosteneva Adam Smith, era che i prodotti più apprezzati venivano creati e offerti sul mercato.

Questi risultati erano di gran lunga superiori a qualsiasi tentativo da parte del potere politico di orientare la produzione in varie direzioni. L'autorità politica non possiede né la conoscenza, né la sapienza, né la capacità di farlo meglio di ogni singolo individuo, il quale ha più familiarità con le condizioni e le opportunità che lo circondano.

Così, come se mosso da una "mano invisibile", ogni individuo è condotto dal proprio guadagno personale al miglioramento delle condizioni degli altri nella società. O come disse notoriamente Adam Smith:

"Ogni individuo si sforza al massimo per impiegare il capitale a sostegno dell'industria nazionale, e così la dirige verso una produzione di più grande valore; ogni individuo si sforza per rendere il fatturato annuo della società il più alto possibile."

"Generalmente non si propone di promuovere l'interesse pubblico, né sa quanto lo stia promuovendo. Dirigendo l'industria in modo tale, i suoi prodotti acquisiranno un maggiore valore, ma egli penserà principalmente al suo guadagno, ed è qui, come in molti altri casi, che viene guidato da una mano invisibile affinché promuova un fine che non è parte della sua intenzione."



Allo stato manca la conoscenza per pianificare la società

Non solo questo miglioramento non intenzionale della condizione umana porta ogni individuo a seguire il suo interesse nell'arena del mercato, ma Adam Smith lo riteneva di gran lunga superiore a qualsiasi tentativo da parte del potere politico di pianificare e imporre un ordine sulle azioni dei membri della società.

Facendo eco ai suoi avvertimenti precedenti sull'ingegnere sociale, il cosiddetto "uomo di sistema", Smith disse:

"Perseguendo il proprio interesse [l'individuo] spesso promuove quello della società in modo più efficace di quando intenda davvero promuoverlo. Non ho mai visto una cosa simile fatta da coloro che si interessano al commercio per il bene pubblico. . ."

"Qualunque sia l'industria nazionale, qualunque sia il suo capitale, il suo prodotto è probabile che guadagnerà valore sul mercato poiché ogni singolo può, in quanto tale, valutare molto meglio la situazione di qualsiasi uomo di stato o legislatore."

"L'uomo di stato, che vorrebbe manovrare le persone e i loro capitali, non solo si caricherebbe di un'attenzione inutile, ma vorrebbe far credere di essere un'autorità degna di fiducia; probabilmente non esiste niente di più pericoloso di un uomo, di un senato o di un concilio, le cui menti cedono alla follia e alla presunzione di poter esercitare un'autorità simile."

Adam Smith non riteneva che la gente sapesse sempre abbastanza da non commettere errori, o che i loro giudizi speculativi riguardo un futuro incerto sarebbero sempre stati corretti in modo da evitare delusioni o perdite.

Disse che ogni uomo, nel suo angolo di società, ha una migliore comprensione delle circostanze e delle opportunità nel contesto dei propri bisogni, desideri e obiettivi. E che ogni individuo ha lo stimolo per cercare di prendere le proprie decisioni con saggezza, dal momento che solo lui sarebbe il responsabile di un fallimento. Chi sostiene i costi e raccoglie i potenziali benefici, ha l'incentivo a ridurre al minimo i primi e a massimizzare i secondi.

Lo stesso non vale, sosteneva Smith, quando a prendere le decisioni è chi detiene il potere politico. "L'uomo di Stato" in una capitale lontana, non può mai sapere e capire le cose nel modo in cui ogni individuo può valutarle e giudicarle nel proprio ambiente. Nessun legislatore paga per i costi delle decisioni sbagliate che impone agli altri; dopo tutto, continua a vivere di tasse raccolte da coloro ai quali ha imposto il danno.



Libertà di commercio in patria e all'estero

Adam Smith credeva che il commercio internazionale dovesse essere lasciato al libero mercato tanto quanto l'attività economica interna.

Per gli stessi motivi sopracitati, Adam Smith sosteneva che fosse superfluo e controproducente se lo stato avesse tentato di gestire e dirigere l'importazione o l'esportazione di beni e servizi per conservare una bilancia dei pagamenti "favorevole", o per impedire un temuto "deficit" della bilancia dei pagamenti.

Ogni individuo cerca di minimizzare i costi per raggiungere i propri obiettivi, producendo in patria ciò che è meno costoso da fare piuttosto che comprarlo da altri; e compra quelle merci provenienti da altri solo quando questi ultimi le possono fornire ad un costo inferiore (in termini di risorse, lavoro e tempo) di quello che avrebbe sostenuto chi li avesse voluti produrre in patria.

Così, i beni vengono acquistati da produttori esteri solo quando questi ultimi li possono offrire ad un costo inferiore. E, a sua volta, si acquistano quei beni prodotti all'estero fornendo al venditore straniero un qualche bene o servizio ad un costo inferiore rispetto a quello presente nel suo paese.

Quando gli stati, attraverso regole e controlli, forzano la produzione di una merce in patria la quale sarebbe potuta costare di meno se acquistata all'estero, si deviano le risorse scarse e la manodopera in usi dispendiosi ed inefficienti.

Il risultato dev' essere una riduzione della ricchezza di quella nazione – e del benessere materiale dei suoi cittadini – poiché la quantità di risorse e lavoro che devono essere destinate per creare quelle merci desiderate aumentano esponenzialmente, cosa ben diversa se fossero state comprate attraverso un sistema libero di divisione internazionale del lavoro e scambio reciprocamente vantaggioso.

Quindi è meglio lasciare la produzione e il commercio alle azioni della cittadinanza, se si vuole la prosperità per la propria nazione.



Il commercio promuove una società civile

Infine, Adam Smith sosteneva che i benefici del commercio libero e competitivo non si fermavano solo ai miglioramenti sostanziali della condizione umana. Servivano anche come mezzo per civilizzare gli uomini, se con civilizzazione si intende, almeno in parte, il rispetto per gli altri e una fedeltà all'onestà e al mantenimento delle promesse.

Quando gli uomini interagiscono su una base quotidiana e regolare, imparano presto che il loro benessere è il riflesso di quello di coloro con cui commerciano. Perdere la fiducia dei propri partner commerciali, può provocare lesioni sociali ed economiche a sé stessi.

L'interesse proprio che spinge un uomo a dimostrare cortesia e sollecitudine nei confronti dei suoi clienti, sotto la paura di perdere la propria attività a favore di un rivale con maniere più educate rispetto alle sue, tende ad essere interiorizzato come "comportamento corretto" in generale e nella maggior parte dei casi.

E attraverso questo processo sociale, l'altruismo mostrato nello scambio volontario promuove l'istituzionalizzazione di un comportamento interpersonale che di solito viene considerato essenziale per una società ben educata, civile e colta.

Diamo un'occhiata a cosa disse Adam Smith in "Lezioni sulla Giurisprudenza":

"Ogni volta che il commercio viene introdotto in tutti i paesi, la rettitudine e la puntualità lo accompagnano sempre. . ."

"È decisamente riconducibile al proprio interesse, quel principio generale che regola le azioni di ogni uomo e che porta gli uomini ad agire in un certo modo quando vedono un vantaggio, ed è profondamente impiantato in un inglese come in un olandese."

"Un commerciante modera il suo carattere ed è scrupoloso nell'osservare ogni impegno. Quando una persona stipula 20 contratti in un giorno, non riuscirà a guadagnare così tanto se si impone ai suoi vicini, come potrebbe fargli credere l'apparenza dell'imbroglio."

"Quando la gente interagisce, scopriamo che è in qualche modo disposta ad imbrogliare, perché si può guadagnare di più da un trucco intelligente rispetto a quello che si può perdere infangando la propria reputazione. . ."

"Dovunque ci sono scambi frequenti, un uomo non si aspetta di guadagnare tanto se mette da parte correttezza e rettitudine; e un commerciante prudente, che è sensibile all'interesse proprio, preferirebbe scegliere di perdere ciò a cui ha diritto piuttosto che dare adito al sospetto. . ."

"Quando la maggior parte delle persone è commerciante, allora diffonde sempre rettitudine e puntualità e queste sono le virtù principali di una nazione commerciale."



Difficoltà a stabilire un sistema di libertà naturale

Adam Smith era ben consapevole del fatto che deregolamentare e liberalizzare il commercio interno ed estero non era una cosa facile. Nella "Ricchezza delle Nazioni" fece riferimento a due ostacoli.

In primo luogo, ciò che egli chiamava "pregiudizi del pubblico": si riferiva al compito spesso difficile di far comprendere ai cittadini comuni il funzionamento e i benefici di un mercato libero e competitivo.

E, in secondo luogo, quello che definiva il "potere degli interessi", cioè, quei gruppi d'interesse che facevano pressioni sullo stato affinché garantisse loro normative anti-concorrenziali, restrizioni e protezioni contro i rivali esteri, e sussidi fiscali. Il tutto a danno di consumatori, contribuenti e potenziali concorrenti bloccati fuori dal mercato.

Quando Adam Smith morì nel 1790, all'età di 67 anni, sembrava altamente improbabile che la sua idea di libertà individuale e libertà economica potessero mai trionfare. Credeva che fosse utopico aspettarsi il raggiungimento di un sistema di libera impresa e commercio.



Il potere delle idee

Eppure verso la metà del XIX secolo la libertà d'impresa prevalse non solo negli Stati Uniti, ma anche in Gran Bretagna, e ben presto si diffuse a vari gradi in altre parti dell'Europa e poi in altre aree del mondo.

Le minacce alla libertà economica di oggi non sono tanto diverse da quelle viste da Adam Smith circa 250 anni fa. E vi si frappongono gli stessi "pregiudizi del pubblico" e il "potere degli interessi".

Nonostante il pessimismo di Adam Smith, i suoi argomenti e il loro trionfo per buona parte del XIX e all'inizio del XX secolo dimostrano la forza delle idee.

Se prendiamo a cuore e trasliamo ai giorni nostri la logica delle spiegazioni di Adam Smith sul funzionamento di un sistema di libero mercato, anche noi potremmo trionfare e stabilire un "sistema di libertà naturale" per noi stessi e per il mondo che lasceremo ai nostri figli e nipoti.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/