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martedì 12 agosto 2025

Lo Smoot-Hawley ha causato la Grande Depressione?

Nell'economia mondiale c'è ancora una quantità importante di malinvestment. Per quanto tempo le varie economie del mondo hanno implementato la ZIRP e la NIRP? Di quanto è aumentata la spesa pubblica durante la “pandemia”? Bisogna fare i conti con l'inflazione di quei giorni, ed essa è qui e non andrà via tanto presto; non torneremo mai ai prezzi del 2019, quei risparmi ormai sono stati rubati. Quello che adesso si può fare è minimizzare i danni da qui in poi. Più la FED riuscirà a rimanere a un tasso dei Fed Fund alto, più sarà salutare per la correzione degli errori economici passati. E finora i mercati americani non hanno dato manifestazione di segnali di stress. Segnali di deterioramento? Sì. Segnali di riorganizzazione? Sì. Ma tutti gli altri? Beh sono in una condizione peggiore perché necessitano di dollari per i loro debiti esterni. Ecco perché “stimolano” le loro economie tramite tagli dei tassi per “paura della deflazione”. Lo scopo, in questa fase, della cricca di Davos è quello di diffondere quanta più incertezza possibile sull'economia statunitense in modo che i mercati dei capitali si irrigidiscano e non sappiano cosa fare. Da qui la campagna mediatica contro i dazi e la Big Beautiful Bill. Trump sta cambiando il modo in cui i capitali entrano ed escono dagli Stati Uniti tramite i dazi: i produttori non sono sovrani, i consumatori lo sono, e questo a sua volta significa che sono i consumatori a determinare i prezzi mentre i produttori sperano di aver anticipato correttamente la domanda potenziale. Essendo gli USA il più grande mercato dei consumi al mondo essi stanno chiedendo quello che chiederebbe qualsiasi consumatore a livello individuale: prezzi migliori. Questa narrativa viene contrastata dalla cricca di Davos facendo passare Trump come un “folle”, come chi non sa cosa sta facendo, alimentando di conseguenza l'incertezza sulla politica commerciale e monetaria. Infatti durante una crisi della valuta, essa dapprima sale rispetto a tutte le altre come sta facendo l'euro nei confronti del dollaro. È una questione di percezioni e la cricca di Davos sa come giocare con esse, perché sa altresì che Trump ha potere di contrattazione: il mercato del dollaro offshore è determinato internamente, non più esternamente come fino al 2022, e questo vuol dire a sua volta un accesso non più automatico al biglietto verde. Le esportazioni verso gli USA sono l'unico modo per accedere ai dollari, l'asset più liquido al mondo e il primo che viene venduto in caso di emergenza per mantenere in piedi una parvenza di solvibilità... o almeno finché non finiscono le riserve. Infatti il surplus commerciale dell'Europa nei confronti degli USA si sta assottigliando e la capacità dell'UE di riciclare suddetto surplus nei titoli del Tesoro americani terminerà, impedendo alla cricca di Davos di continuare a manipolare la curva dei rendimenti americana tramite la vendita del front-end per dare l'idea che gli USA finiranno in recessione nel breve-medio periodo. Ecco perché, nel contempo, gli USA stanno costruendo tutta un'altra infrastruttura per monetizzare e tokenizzare i titoli di stato americani tramite le stablecoin ad esempio. È una stretta lenta e inesorabile, ma infine mortale per l'UE.

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di Christopher Whalen

(Versione audio della traduzione disponibile qui: https://open.substack.com/pub/fsimoncelli/p/lo-smoot-hawley-ha-causato-la-grande)

Agli americani viene insegnato a scuola che lo Smoot-Hawley Tariff Act del 1930 aggravò notevolmente la Grande Depressione e spinse il mondo in un decennio di deflazione da debito e contrazione economica. Tutto questo ha senso finché non ricordiamo che la storia degli Stati Uniti nell'ultimo secolo è stata scritta in gran parte dai progressisti. Infatti la Grande Depressione iniziò nel 1920 con un decennio di calo dei prezzi dei prodotti agricoli, un'ondata deflazionistica che alla fine travolse il settore immobiliare e l'intera economia statunitense.

Ciò che sfugge a molte discussioni sullo Smoot-Hawley durante e dopo quel periodo è il fatto che il crollo economico degli anni '30 era già scontato, con o senza la nuova legge sui dazi. L'impulso alla base della decisione politica di aumentarli fu una reazione sbagliata al crollo dei prezzi agricoli, ma la forza di suddetta ondata deflazionistica fu principalmente costituita da fattori “positivi” come le nuove tecnologie e l'innovazione. La deflazione iniziata dopo la Prima Guerra Mondiale decimò le comunità agricole e alla fine portò al crollo dei prezzi immobiliari, in particolare quelli della Florida.

Il sostegno al protezionismo fu il ritornello costante delle lobby aziendali e agricole a Washington nel XIX e all'inizio del XX secolo, e fu sostenuto da esponenti di entrambi i partiti politici. Ma la vera causa della potente spinta politica ad aumentare ulteriormente i dazi doganali esistenti alla fine del 1929 la possiamo ricercare nei sostanziali cambiamenti che stavano avvenendo nell'economia americana.

Molti storici ed economisti attribuiscono al livello dei dazi doganali imposti dopo la Prima Guerra Mondiale, e in particolare durante la Grande Depressione, la responsabilità di aver aggravato la contrazione economica e la disoccupazione seguite al crollo del mercato azionario del 1929. L'approvazione del Fordney-McCumber Tariff Act nel 1922 simboleggiava la particolare inclinazione repubblicana al protezionismo commerciale – e all'inflazione della valuta – che risaliva a decenni prima, fino alla fondazione del partito negli anni '50 dell'Ottocento.

Nel suo libro del 2005, Making Sense of Smoot Hawley, Bernard Beaudreau sostiene che l'imposizione di dazi doganali per l'industria statunitense nel 1930 non fosse altro che la continuazione delle linee di politica attuate dal Partito Repubblicano dopo il suo ritorno al potere nel 1920. Beaudreau cita la crescente produttività delle fabbriche statunitensi, la diffusione dell'elettrificazione in tutta l'America e il continuo afflusso di prodotti alimentari e manufatti esteri a basso costo come cause principali della deflazione durante quel periodo. La produzione del pane, ad esempio, divenne automatizzata negli anni '20, contribuendo al relativo calo dei prezzi.

Le importazioni erano ancora percepite come una minaccia dai produttori americani dell'epoca, nonostante i dazi doganali già elevati. La sottoccupazione fu il risultato della mancanza di domanda e del conseguente calo dei prezzi dei prodotti che si verificò negli anni '30. L'industria americana divenne troppo efficiente troppo rapidamente, con conseguente surplus globale di beni e una altrettanto pericolosa mancanza di domanda. L'aria condizionata e il miglioramento dei trasporti contribuirono a trasformare il valore futuro delle paludi della Florida in una gigantesca bolla speculativa che scoppiò due anni prima del Grande Crash del 1929.

Un secolo prima dell'invenzione di cose come l'“intelligenza artificiale”, i lavoratori americani temevano che la tecnologia potesse privarli dei loro mezzi di sussistenza. Il senatore Reed Smoot (1862-1941), repubblicano dello Utah, disse dello Smoot-Hawley: “Ritenere la linea di politica dei dazi americana, o qualsiasi altra linea di politica del nostro governo, responsabile di questa gigantesca ondata deflazionistica significa solo dimostrare la propria ignoranza riguardo il suo carattere universale. Il mondo sta pagando per la sua spietata distruzione di vite e proprietà durante la Seconda Guerra Mondiale e per la sua incapacità di adattare il potere d'acquisto alla capacità produttiva durante la rivoluzione industriale del decennio successivo alla guerra”.

L'inizio della Grande Depressione, a partire dall'estate del 1929, portò il tasso di disoccupazione dal 4,6% nel 1929 all'8,9% nel 1930. Il Congresso cercò di correggere questo squilibrio limitando le importazioni attraverso lo Smoot-Hawley. Sebbene vi siano pochi dubbi sul fatto che l'aumento dei dazi abbia aggravato la Grande Depressione, l'aumento delle imposte sulle importazioni potrebbe non essere stato il fattore principale. Infatti l'introduzione dell'elettricità e di altre innovazioni determinò una forte crescita in molti settori dell'economia, ma non in quello agricolo.

Questa visione alternativa del ruolo dello Smoot-Hawley nel trasformare il crollo del mercato del 1929 nella Grande Depressione degli anni '30 è importante per comprendere la narrazione degli anni '20. Dopo la Grande Depressione e la Seconda Guerra Mondiale, la posizione degli Stati Uniti in merito ai dazi cambiò radicalmente, in parte perché gran parte della capacità industriale di Europa e Asia fu distrutta dal conflitto.

Con l'obiettivo di ricostruire il mondo del dopoguerra, l'America adottò una linea di politica fatta di mercati aperti e libero scambio. Essa creò enorme ricchezza e prosperità nei primi decenni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. In seguito sacrificò posti di lavoro e capacità industriale americani a favore di altre nazioni. Con l'elezione del presidente Donald Trump nel 2024, gli Stati Uniti hanno intrapreso una politica esplicita di riequilibrio delle relazioni commerciali con il mondo, utilizzando la minaccia dei dazi per forzare i negoziati.

Lungi dall'essere un danno per gli americani, la minaccia di dazi esercitata dal Presidente Trump è un meccanismo per garantire che altre nazioni adottino la reciprocità – il “fair dealing” in termini americani – per garantire che il comportamento predatorio dei moderni Superstati mercantilisti, come la Cina, non danneggi i lavoratori e le industrie americane. In questo senso il Presidente Trump sta ereditando il tradizionale atteggiamento politico pro-lavoro del Partito Democratico dopo la Seconda Guerra Mondiale.

La storiografia tradizionale di quel periodo fa sembrare che i dazi dello Smoot-Hawley fossero il fattore primario del peggioramento dell'economia, ma la svalutazione della moneta da parte di Roosevelt e il suo rifiuto di abbassare i dazi, già in vigore dopo decenni di governo repubblicano, furono più significativi. I ricercatori progressisti sostengono che la svalutazione del dollaro e dei titoli garantiti dall'oro abbiano in qualche modo portato a un aumento del reddito e della domanda, ma queste affermazioni ignorano la massiccia liquidazione di debito e azioni avvenuta negli anni '30. È più corretto affermare che i dazi non aiutarono, ma il sequestro dell'oro e la svalutazione del dollaro furono eventi sistemici orchestrati da Roosevelt e dai suoi sostenitori del New Deal, e che rappresentarono il principale fattore negativo per l'economia.

Nelle sue memorie il presidente Herbert Hoover osservò che la svalutazione del dollaro da parte di Roosevelt rappresentò di fatto un aumento dei dazi dal punto di vista del costo per gli acquirenti americani: “I Democratici hanno fatto un gran parlare dei disastri che avevano previsto sarebbero derivati dai modesti aumenti dei dazi Smoot-Hawley (principalmente prodotti agricoli). Il fatto era che il 65% dei beni importati soggetti a dazio era esente da essi, e che la legislazione li aveva aumentati di circa il 10%. Ma il più grande aumento dei dazi in tutta la nostra storia venne dalla svalutazione di Roosevelt”. Hoover proseguì illustrando che sia le importazioni che le esportazioni pro capite diminuirono negli Stati Uniti tra il 1935 e il 1938 a causa delle linee di politica regressive e anti-business del New Deal.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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venerdì 8 agosto 2025

Come gli inglesi hanno scatenato la guerra civile americana

Ricordo a tutti i lettori che su Amazon potete acquistare il mio nuovo libro, “Il Grande Default”: https://www.amazon.it/dp/B0DJK1J4K9 

Il manoscritto fornisce un grimaldello al lettore, una chiave di lettura semplificata, del mondo finanziario e non che sembra essere andato fuori controllo negli ultimi quattro anni in particolare. Questa una storia di cartelli, a livello sovrastatale e sovranazionale, la cui pianificazione centrale ha raggiunto un punto in cui deve essere riformata radicalmente e questa riforma radicale non può avvenire senza una dose di dolore economico che potrebbe mettere a repentaglio la loro autorità. Da qui la risposta al Grande Default attraverso il Grande Reset. Questa la storia di un coyote, che quando non riesce a sfamarsi all'esterno ricorre all'autofagocitazione. Lo stesso accaduto ai membri del G7, dove i sei membri restanti hanno iniziato a fagocitare il settimo: gli Stati Uniti.

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di Richard Poe

(Versione audio della traduzione disponibile qui: https://open.substack.com/pub/fsimoncelli/p/come-gli-inglesi-hanno-scatenato)

“Sono l'ultimo presidente degli Stati Uniti”, disse James Buchanan il 20 dicembre 1860.

La Carolina del Sud si era appena separata dall'Unione; altri dieci stati l'avrebbero seguita.

Se Buchanan fosse rimasto in carica, non c'è dubbio che avrebbe lasciato andare il Sud. Gli Stati Uniti avrebbero cessato di esistere 160 anni fa.

“E allora?” potrebbero ribattere alcuni lettori. “Buchanan aveva ragione. Non c'è nulla di sacro nell'Unione. Se gli stati vogliono separarsi, che lo facciano”.

Un recente sondaggio del Center for Politics dell'Università della Virginia afferma che il 41% dei sostenitori di Biden e il 52% dei sostenitori di Trump sono a favore della secessione.

Sebbene questi numeri possano essere esagerati, la tendenza è chiara.

Con l'aumento delle tensioni tra stati “rossi” e “blu”, molti americani sono giunti alla conclusione che convivere con i nostri litigiosi connazionali non valga più la pena. Molti sperano che una separazione pacifica – il “divorzio nazionale”, come lo chiamano – possa permettere agli americani di separarsi amichevolmente, senza spargimento di sangue.

Ma sarà così? La storia suggerisce il contrario.


Storia dimenticata

Nel 1861 la secessione non portò la pace, portò direttamente alla guerra civile.

La guerra scoppiò per lo stesso motivo di sempre, perché gli uomini potenti la volevano e ne traevano vantaggio.

Un vecchio detto recita: “Quando due cani litigano, un terzo cane si prende l'osso”.

Nel 1861 il terzo cane era la Gran Bretagna.

La Gran Bretagna aveva un forte interesse a disgregare l'Unione, che considerava un concorrente per il predominio globale. Il piano della Gran Bretagna era quello di spartire gli Stati Uniti in sfere di influenza coloniali, da distribuire tra le grandi potenze europee.

Se gli inglesi avessero avuto successo, sia il Nord che il Sud avrebbero perso la loro indipendenza.

Questo fatto – un tempo ampiamente noto agli americani – è stato cancellato dai nostri libri di storia.

Prima di precipitare a capofitto nella Guerra Civile 2.0, potrebbe essere saggio riscoprire la storia dimenticata della lotta di Lincoln contro l'intervento straniero.

Sarebbe sciocco cadere nella stessa trappola due volte.


L'appello di Seward per la guerra

Il 1° aprile 1861 la Guerra Civile non era ancora iniziata. Quel giorno il Segretario di Stato, William Seward, redasse un memorandum a Lincoln chiedendogli di agire contro “l'intervento europeo”.

“Chiederei immediatamente spiegazioni categoriche a Francia e Spagna”, scrisse Seward. “Chiederei spiegazioni a Gran Bretagna e Russia [...] e se non si ricevessero spiegazioni soddisfacenti da Spagna e Francia, convocherei il Congresso e dichiarerei loro guerra”.

Le preoccupazioni di Seward erano legittime.

Constatando la debolezza dell'America, le potenze straniere avevano iniziato a mettere in discussione la Dottrina Monroe, che proibiva l'intervento europeo nelle Americhe.

La Spagna aveva annesso la sua ex-colonia di Santo Domingo il 18 marzo, aumentando deliberatamente la guarnigione cubana a 25.000 uomini. La Francia stava agitando le armi per Haiti e altre colonie perdute.

Nel frattempo i diplomatici britannici si stavano impegnando a fondo per riunire Spagna, Francia e Russia in una coalizione abbastanza forte da costringere Lincoln a riconoscere la Confederazione.

Questi intrighi violavano palesemente la Dottrina Monroe, ma a nessuno importava più cosa pensasse l'America. Gli Stati Uniti stavano andando in pezzi.

“I nostri dissensi interni stanno producendo i loro frutti”, scrisse il New York Times il 30 marzo 1861. “Il terrore del nome americano è svanito e le potenze del Vecchio Mondo stanno accorrendo al banchetto da cui il grido della nostra aquila le aveva finora spaventate. Stiamo iniziando a subire le conseguenze di essere una potenza debole e disprezzata”.

Quando Seward scrisse il suo promemoria a Lincoln, l'attacco a Fort Sumter sarebbe arrivato entro undici giorni. Il primo colpo della nostra Guerra Civile non era ancora stato sparato.

Ciononosante le potenze d'Europa erano già pronte a combattere.


La Gran Bretagna era la capofila

La Gran Bretagna era la forza trainante di questi complotti. Gli inglesi pianificavano la caduta dell'America da anni.

L'Inghilterra non fece mistero delle sue ambizioni in Nord America.

Il 3 gennaio 1860 il londinese Morning Post chiese senza mezzi termini il ripristino del dominio britannico in America.

Il Post era noto per essere il portavoce di Lord Palmerston, Primo Ministro britannico. Infatti si vociferava che lo stesso Palmerston scrivesse di tanto in tanto editoriali non firmati per il giornale.

Se Nord e Sud si fossero separati, affermava il Morning Post il 3 gennaio 1860, le colonie del Nord America britannico (in seguito unite nel Dominion del Canada) avrebbero “detenuto l'equilibrio di potere sul continente”. Il Canada si sarebbe trovato in una posizione di forza per annettere le contese frazioni degli ex-Stati Uniti.

Il primo obiettivo avrebbe dovuto essere Portland, nel Maine, suggeriva il Post. Strategicamente situato al capolinea della Grand Trunk Railway canadese, il porto di Portland forniva al Canada l'accesso all'Atlantico durante i mesi invernali, quando tutti i porti sul fiume San Lorenzo erano ghiacciati.

Perché lasciare una risorsa così vitale in mani americane?

“Per motivi militari, oltre che commerciali, è ovviamente necessario”, sosteneva il Morning Post, “che il Nord America britannico disponga sull'Atlantico di un porto aperto tutto l'anno [...]”.

Il quotidiano raccomandava che lo stato del Maine si unisse volontariamente all'Impero britannico, una volta crollata l'Unione. “Il popolo di quello Stato, in vista del profitto commerciale, dovrebbe offrirsi di essere annesso al Canada”, suggeriva.

Il Post prevedeva che il crescente potere del Canada in un mondo post-americano avrebbe presto portato a ulteriori annessioni, culminando in quello che il giornale definiva “il ripristino di quell'influenza che più di ottant'anni fa l'Inghilterra non avrebbe dovuto perdere”.

Con queste parole il Morning Post chiarì di essere favorevole al ritorno del dominio britannico in America, esattamente del tipo di cui l'Inghilterra aveva goduto “più di ottant'anni fa” (prima del 1780, ovviamente).


Il piano britannico per una guerra per procura

La minaccia di riconquista sul Morning Post non era vana.

Infatti quel piano ebbe quasi successo.

Sappiamo da altre fonti, tra cui la corrispondenza diplomatica, che l'Inghilterra progettava di utilizzare la Confederazione per combattere una guerra per procura contro gli Stati Uniti.

Una volta esaurite le forze americane, la Gran Bretagna e i suoi alleati europei intendevano chiedere una mediazione internazionale per porre fine alla guerra.

Se Lincoln avesse rifiutato, la Marina britannica avrebbe rotto il blocco dell'Unione e liberato il Sud, costringendo così Lincoln al tavolo delle trattative, che gli piacesse o no.

Gli arbitri avrebbero diviso gli Stati Uniti in due Paesi separati, il Nord e il Sud.

In seguito progettarono di frammentare ulteriormente gli Stati Uniti in quattro o più mini-stati, troppo deboli per resistere alla ricolonizzazione.


Supporto militare britannico alla Confederazione

Il primo passo del piano britannico fu quello di esaurire le forze americane attraverso la guerra civile. Per raggiungere questo obiettivo, la Gran Bretagna divenne il principale fornitore di armi e rifornimenti per i ribelli del Sud.

Il 13 maggio 1861 la regina Vittoria emanò un proclama che concedeva lo status di belligerante alla Confederazione: ciò significava che le navi da guerra ribelli potevano ora operare legalmente dai porti britannici.

I costruttori navali britannici fornirono ai Confederati una marina moderna. Molte delle migliori navi da guerra ribelli furono assemblate nei cantieri navali britannici, finanziate da obbligazionisti britannici e, in alcuni casi, con equipaggi britannici.

I predoni confederati paralizzarono la navigazione unionista, affondandone quasi un migliaio. Un predone, la CSS Alabama, costruita in Gran Bretagna, distrusse 65 navi mercantili e da guerra unioniste in due anni, fino al suo definitivo affondamento nel giugno del 1864. L'equipaggio dell'Alabama era composto per lo più da britannici.

Il supporto tecnico britannico si rivelò fondamentale anche nella costruzione di una fabbrica di polvere da sparo ad Augusta, in Georgia, nel 1861. Era l'unica struttura del genere nel Sud; senza di essa i Confederati non avrebbero avuto polvere da sparo.


Schieramento delle truppe in Canada

L'Inghilterra fornì più di un semplice supporto logistico al Sud: minacciò anche il Nord con schieramenti di truppe e minacce di guerra.

Ad esempio, nel dicembre del 1861, la Gran Bretagna dispiegò 11.000 soldati in Canada, richiamò la milizia canadese e pianificò un blocco navale del nord-est degli Stati Uniti, come descritto nel libro One War at a Time: The International Dimensions of the American Civil War (1999) di Dean B. Mahin.

La ragione ufficiale di questi preparativi era quella di difendere il Canada da un possibile attacco statunitense, nel caso in cui la Gran Bretagna avesse dichiarato guerra per l'Affare Trent, un incidente in cui una nave della Marina statunitense aveva abbordato un pacco postale britannico nei Caraibi, arrestando due inviati confederati.

Tuttavia l'Affare Trent fornì solo una scusa per attuare i piani britannici esistenti.

Mahin scrisse che una delle mosse difensive proposte dagli strateghi britannici nel dicembre del 1861 fu la conquista di Portland, nel Maine, per impedire alle forze dell'Unione di tagliare l'accesso britannico al porto.

Tuttavia, come accennato in precedenza, la conquista di Portland era un obiettivo bellico britannico già esistente, annunciato sul London Morning Post quasi due anni prima.


Schieramento delle truppe in Messico

Mentre la Gran Bretagna rinforzava il Canada, si unì a essa anche Francia e Spagna in un'invasione congiunta del Messico. Tutti e tre i Paesi sbarcarono truppe a Veracruz l'8 dicembre 1861, innescando una guerra civile messicana che infuriò fino al 1866.

Il pretesto per l'invasione era quello di imporre il pagamento del debito pubblico messicano; il suo vero scopo era quello di garantire al Messico un'area di appoggio per l'intervento nella guerra civile americana, un fatto che presto sarebbe diventato evidente.

L'imperatore francese Luigi Napoleone Bonaparte III era il più stretto alleato della Gran Bretagna, legato all'Inghilterra per il suo trono.

Nipote di Napoleone I, Luigi Napoleone prese il potere con un colpo di stato il 2 dicembre 1851, rovesciando la Seconda Repubblica francese, con l'appoggio e l'approvazione di Lord Palmerston.

Napoleone III si unì poi ai suoi protettori britannici in una serie di avventure militari, tra cui la Guerra di Crimea (1853-1856) e l'invasione del Messico del 1861.


“Una guerra alla volta”

L'enormità delle provocazioni francesi e britanniche giustificava chiaramente una risposta militare da parte del Nord. Eppure la mano ferma di Lincoln al timone impedì che la Guerra Civile si trasformasse in una conflagrazione globale.

Nel suo libro, One War at a Time, Mahin suggerì che Lincoln avesse deliberatamente giocato a fare il poliziotto buono e il poliziotto cattivo, permettendo al suo Segretario di Stato, William Seward, di lanciare minacce sconsiderate contro le potenze straniere, mentre Lincoln forniva la voce rassicurante della ragione.

Il 4 aprile 1861, ad esempio, Seward dichiarò al Times di Londra di essere “pronto, se necessario, a minacciare di guerra la Gran Bretagna” se avesse osato riconoscere il governo ribelle.

Probabilmente in risposta alla minaccia di Seward, il Proclama della Regina del 13 maggio non concesse il riconoscimento diplomatico al Sud. Ciononostante la Regina Vittoria concesse diritti di belligeranza alle navi da guerra confederate, il che fece infuriare Seward.

Elaborò prontamente istruzioni per Charles Francis Adams Sr., ambasciatore degli Stati Uniti a Londra, ordinandogli di avvertire la Gran Bretagna che il riconoscimento della Confederazione sarebbe stato un atto di guerra.

“Una guerra alla volta”, consigliò Lincoln a Seward, dopo aver rivisto una bozza della sua lettera il 21 maggio 1861. Lincoln modificò il documento di suo pugno per addolcirne il tono.

Durante la guerra, questo tipo di interazioni private tra Lincoln e Seward tendevano a trapelare. In una certa misura sembra probabile che i due stessero recitando, mettendo in scena uno spettacolo per diplomatici stranieri e giornalisti.

Se la routine del poliziotto buono e del poliziotto cattivo di Lincoln fosse davvero una strategia deliberata, allora ebbe successo. Mantenne gli inglesi nervosi, sbilanciati e indecisi per i primi tre anni di guerra.

Se la Gran Bretagna e i suoi alleati avessero agito tempestivamente e con coraggio – rompendo il blocco unionista del Sud, sigillando le coste unioniste e conquistando i porti del New England, come avevano inizialmente pianificato – un'America divisa sarebbe stata troppo debole per resistere.

Lincoln avrebbe perso il sostegno pubblico e, con esso, la guerra.


Motivare i Confederati

Le continue minacce di Seward intimidivano gli inglesi, rendendoli timorosi di un'azione diretta, ma non esitarono mai a spendere sangue confederato nella loro guerra per procura contro il Nord.

Per motivare i loro clienti del Sud, gli inglesi fecero un uso accorto di carota e bastone.

Offrirono continuamente la carota del riconoscimento britannico.

I Confederati sapevano che, una volta che la Gran Bretagna avesse riconosciuto la Confederazione, altre potenze europee avrebbero seguito il loro esempio. Lincoln si sarebbe trovato isolato nel mondo occidentale, sarebbe stato costretto a sedersi al tavolo delle trattative.

Ma c'era anche un bastone.

Gli inglesi chiarirono che non avrebbero rischiato una guerra con l'Unione finché la Confederazione non avesse dimostrato di poter far valere il suo peso sul campo di battaglia.

Il 14 agosto 1861 il Ministro degli Esteri britannico, John Russell, incontrò tre inviati confederati a Londra, informandoli che l'Inghilterra avrebbe preso in considerazione il riconoscimento del loro governo solo quando “la fortuna delle armi [...] avrebbe determinato chiaramente la posizione dei due belligeranti”.

Lord Palmerston riecheggiò questa opinione in una lettera del 20 ottobre 1861, in cui simpatizzava per l'indipendenza del Sud, ma avvertiva che “le operazioni belliche sono state finora troppo indecise per giustificare un riconoscimento dell'Unione del Sud”.


Il motore della guerra

La promessa di un intervento britannico, fatta privatamente e ripetutamente ai leader confederati, fu il motore trainante della ribellione. Senza queste promesse, vi sono seri dubbi sul fatto che i leader confederati avrebbero osato entrare in guerra.

Già nella primavera del 1860, quando Lincoln era ancora in campagna elettorale per la presidenza, i consoli britannici negli stati del sud informarono Londra che erano in corso piani di secessione e che i ribelli contavano sul sostegno britannico.

Due anni dopo l'allora Segretario di Stato per la Confederazione, Judah Benjamin, sperava ancora che il riconoscimento britannico potesse avere successo laddove l'esercito confederato aveva fino a quel momento fallito.

In una lettera del 12 aprile 1862 Benjamin scrisse: “Poche parole provenienti da Sua Maestà Britannica porrebbero di fatto fine a una lotta che così desola il nostro Paese”.

Ma gli inglesi non si lasciarono impressionare dalle lamentele confederate, solo un'azione sanguinosa sul campo di battaglia li avrebbe soddisfatti.

E così i Confederati continuarono a combattere, sempre fiduciosi che la loro vittoria successiva avrebbe potuto convincere i loro protettori britannici ad agire.


Il tentativo dell'Inghilterra di forzare la mediazione

La seconda battaglia di Manassas si rivelò un punto di svolta. Dopo la vittoria confederata del 30 agosto 1862, i leader britannici decisero che i tempi erano maturi.

Lord Palmerston scrisse a Russell il 14 settembre 1862, facendo notare che le forze dell'Unione avevano “subito una disfatta” a Manassas.

“Non sarebbe giunto il momento per noi di valutare se, in una tale situazione, Inghilterra e Francia non potrebbero rivolgersi alle parti in conflitto e raccomandare un accordo basato sulla separazione?”, suggerì Palmerston.

Stipulando che la mediazione proposta dovesse essere “basata sulla separazione”, Palmerston ammise che i colloqui di pace sarebbero stati una farsa. L'esito era già stato deciso: Nord e Sud dovevano separarsi.

Russell rispose il 17 settembre: “Sono d'accordo con lei sul fatto che sia giunto il momento di offrire una mediazione al governo degli Stati Uniti, in vista del riconoscimento dell'indipendenza dei Confederati. Concordo inoltre sul fatto che, in caso di fallimento, dovremmo riconoscere noi stessi gli Stati del Sud come Stato indipendente. [...] Dovremmo, quindi, se concordiamo su un tale passo, proporlo prima alla Francia e poi, da parte di Inghilterra e Francia, alla Russia e ad altre potenze, come misura da noi decisa”.


L'obiettivo nascosto dell'Inghilterra

Se l'obiettivo della Gran Bretagna nella nostra Guerra Civile fosse stato semplicemente quello di cercare una separazione pacifica tra Nord e Sud, le sue azioni avrebbero potuto essere giustificate come ingenue ma ben intenzionate.

Tuttavia gli obiettivi nascosti della Gran Bretagna divergevano nettamente da quelli ufficiali.

La corrispondenza diplomatica pubblicata nel Parliamentary Blue Book britannico tende a fornire una versione edulcorata delle intenzioni britanniche, in quanto tali dispacci furono scritti con la piena consapevolezza che sarebbero stati pubblicati.

Una versione meno edulcorata delle intenzioni britanniche può essere ricavata da fonti non ufficiali, come articoli di giornale, osservazioni di diplomatici stranieri e dalle azioni dello stesso governo britannico.

Un attento studio di tali fonti rivela che la Gran Bretagna non mirava tanto a una separazione pacifica tra Nord e Sud quanto alla completa distruzione degli Stati Uniti, che sperava di ottenere frammentando il Paese in più parti.


Dividi et impera

Come discuteremo anche più avanti, Napoleone III nutriva un “Grande Disegno” per lo smembramento degli Stati Uniti, il quale avrebbe lasciato il Texas, la Louisiana, la Florida e altri territori statunitensi sotto il controllo francese.

Gli inglesi avevano piani simili, che senza dubbio coordinarono con i loro alleati francesi.

Il 25 settembre 1861, dopo una lunga serie di sconfitte dell'Unione, Sir Edward Bulwer-Lytton, un importante statista britannico e membro del Parlamento, predisse con gioia lo smembramento dell'America in quattro o più parti, “con felici risultati per la sicurezza dell'Europa”.

“La separazione tra Nord e Sud degli Stati Uniti, che ora è causata dalla guerra civile, l'ho da tempo prevista e predetta come inevitabile”, affermò Bulwer-Lytton in un discorso.

Prevedette che gli Stati Uniti si sarebbero divisi non in “due, ma almeno quattro, e probabilmente più di quattro Commonwealth separati e sovrani”.

Questa era una buona notizia per l'Europa, dichiarò Bulwer-Lytton: finché gli Stati Uniti fossero rimasti uniti, “incombevano sull'Europa come una nube temporalesca. Ma nella misura in cui l'America si sarebbe suddivisa in diversi Stati [...] la sua ambizione sarebbe stata meno temibile per il resto del mondo”.


“Vi spezzerete in frammenti”

Bulwer-Lytton non stava semplicemente esprimendo la sua opinione personale. Altre fonti confermano che alti statisti britannici erano favorevoli alla spartizione dell'America in più parti, non solo in due.

Il ministro degli Esteri russo, il principe Alexander Gorchakov, avvertì Lincoln di questo piano.

“Una separazione sarà seguita da un'altra; verrete spezzati in frammenti”, disse Gorchakov, in un incontro del 27 ottobre 1862 con Bayard Taylor, l'incaricato d'affari americano a San Pietroburgo.

L'ambasciatore statunitense in Gran Bretagna, Charles Francis Adams Sr., trasse una conclusione simile.

“La passione predominante qui [in Inghilterra] è il desiderio di una suddivisione definitiva dell'America in molti stati separati che si neutralizzeranno a vicenda”, scrisse Adams a Seward l'8 agosto 1862.


L'Inghilterra si avvia verso la guerra

Tutte le prove suggeriscono che i pianificatori britannici sapessero fin dall'inizio che i loro obiettivi in America non sarebbero mai stati raggiunti senza spargimento di sangue.

Anche il primo passo per separare il Nord dal Sud avrebbe richiesto un intervento militare.

Come accennato in precedenza, Seward aveva chiarito il 4 aprile 1861 che l'Unione avrebbe dichiarato guerra alla Gran Bretagna se avesse riconosciuto il Sud. In tal caso gli inglesi pianificarono di utilizzare la Royal Navy per rompere il blocco dell'Unione, pienamente consapevoli che il Nord avrebbe risposto invadendo il Canada.

Per questo motivo, quando Lord Palmerston approvò il piano di mediazione, sottolineò, in una lettera a Russell del 17 settembre 1862, che “dovremmo metterci al sicuro in Canada, non inviandovi più truppe [oltre alle 11.000 già schierate l'anno precedente], ma concentrando quelle che abbiamo in pochi avamposti difendibili prima dell'arrivo dell'inverno”.

Il Primo Ministro ammise quindi che la sua proposta di “mediazione” avrebbe probabilmente portato a una guerra di terra tra Gran Bretagna e Stati Uniti.

Palmerston scelse comunque di procedere.

Una riunione del gabinetto della regina Vittoria era prevista per il 23 ottobre 1862: in essa si sarebbero discussi i piani per un intervento congiunto di Francia, Russia e Gran Bretagna.


“Hanno creato una nazione”

Due settimane prima della riunione del gabinetto della Regina, il Cancelliere dello Scacchiere William Gladstone preparò il terreno per il riconoscimento del Sud in un discorso tenuto a Newcastle il 7 ottobre 1862. Gladstone disse: “Jefferson Davis e gli altri leader hanno creato un esercito; stanno creando, a quanto pare, una marina; e hanno creato qualcosa di più di entrambe le cose: hanno creato una nazione. [...] [Possiamo] prevedere con certezza il successo degli Stati del Sud per quanto riguarda la loro separazione dal Nord”.

Nel suo discorso Gladstone arrivò pericolosamente vicino a riconoscere il Sud come nazione sovrana.

Nonostante la spavalderia di Gladstone, i leader britannici erano nervosi, esitanti a procedere senza il sostegno delle altre potenze europee.

Il 17 novembre 1862 l'Incaricato d'Affari russo a Washington, Edouard de Stoeckl, riferì al suo governo che un attacco franco-britannico all'Unione era imminente. Poiché né i francesi né gli inglesi nutrivano “alcuna illusione che la loro offerta di mediazione venisse accettata [...] il passo successivo sarà il riconoscimento del Sud [...] [e] l'apertura forzata dei porti meridionali [...]”.

Prima di compiere questo passo gli inglesi cercarono di ottenere il sostegno di tutte le grandi potenze europee.

De Stoeckl riferì che Lord Lyons, ambasciatore britannico a Washington, voleva che “il tentativo [di mediazione] [...] venisse non solo da Francia e Inghilterra, ma da tutto il mondo civilizzato”.


La questione russa

Per tutte queste ragioni, gli inglesi desideravano ottenere il sostegno russo per la loro mossa contro Lincoln.

Sapevano che la Russia era il più forte sostenitore di Lincoln in Europa, ma speravano di poter rompere l'amicizia se avessero esercitato la giusta pressione.

In realtà lo zar Alessandro II stava facendo il doppio gioco con gli inglesi. Pur fingendo di ascoltare i loro piani di mediazione, i diplomatici russi riferirono prontamente tutto. Torniamo agli americani.

Gli inglesi cercarono di convincere la Russia a collaborare con loro, offrendo concessioni in altre parti del mondo.

Ad esempio, una rivolta polacca contro la Russia era in fermento dal 1861, fornendo a Francia e Gran Bretagna una scusa per minacciare la Russia di intervenire. Inoltre Inghilterra, Francia e Russia stavano negoziando per decidere chi sarebbe diventato il prossimo re di Grecia.

Voci di corridoio raggiungero Seward secondo cui i russi avrebbero potuto sostenere l'intervento nella guerra civile americana, in cambio di concessioni in Grecia da parte di Inghilterra e Francia. Seward era sufficientemente preoccupato da convocare de Stoeckl al Dipartimento di Stato all'inizio del 1863 per chiedere spiegazioni.


L'appello di Lincoln allo Zar

Con l'imminente intervento francese e britannico e la posizione della Russia ancora incerta, Lincoln rivolse un appello segreto direttamente allo Zar.

Una mossa astuta.

La Russia era l'unica potenza europea con eserciti terrestri in Asia sufficienti a sfidare il dominio britannico sull'India e sul Medio Oriente. Per questo motivo Inghilterra e Russia erano acerrime e perenni nemiche.

A peggiorare queste tensioni Inghilterra, Francia e i loro alleati ottomani avevano di recente sconfitto la Russia nella guerra di Crimea del 1853-1856. I russi bramavano vendetta.

Lincoln sapeva che la politica russa di mettere l'America contro l'Inghilterra era una strategia consolidata fin dalla Guerra d'Indipendenza, quando l'imperatrice russa Caterina la Grande aveva sostenuto il diritto dei coloni americani a chiedere l'indipendenza.

Nel 1839 lo zar Nicola I aveva detto a George Mifflin Dallas, all'epoca ministro degli Stati Uniti a San Pietroburgo: “Non solo i nostri interessi sono simili, ma anche i nostri nemici sono gli stessi”.

L'“imminente dissoluzione dell'Unione Americana” avrebbe rappresentato una minaccia per gli interessi russi, avvertì de Stoeckl al principe Gorchakov in una lettera del 4 gennaio 1860, poiché la rivalità della Gran Bretagna con l'America era stata in precedenza “la migliore garanzia contro i progetti ambiziosi e l'egoismo politico della razza anglosassone”.

Meglio mantenere gli anglosassoni divisi!

Lo zar concordò sul fatto che preservare l'Unione Americana fosse “essenziale per l'equilibrio politico universale”.

Esisteva quindi una base per la cooperazione russo-americana.


La promessa dello zar a Lincoln

All'inizio del 1862 Lincoln ordinò al nuovo ambasciatore statunitense a San Pietroburgo, il generale Simon Cameron, di interrogare segretamente lo zar su cosa avrebbe fatto se Francia e Gran Bretagna fossero intervenute nella nostra guerra civile.

Lo zar promise a Lincoln che, in caso di intervento straniero, “o al manifestarsi di un reale pericolo, l'amicizia della Russia per gli Stati Uniti sarebbe stata riconosciuta in modo decisivo, tale che nessun'altra nazione avrebbe potuto fraintendere”.

Dopo aver ricevuto questa rassicurazione, Seward si impegnò a diffondere la voce che esistesse un'intesa segreta tra Stati Uniti e Russia.

“Sarebbe bene che in Europa si sapesse che non siamo più allarmati dalle dimostrazioni di interferenza europea”, scrisse Seward al console americano a Parigi, John Bigelow, il 25 giugno 1862.

D'ora in poi, scrisse Seward, qualsiasi stato europeo “che si impegni a intervenire in qualsiasi parte del Nord America, prima o poi finirà tra le braccia di un nativo di un Paese orientale non particolarmente distinto per gentilezza di modi o carattere [...]”.

Quando parlava di un “Paese orientale” non “distinto per gentilezza”, Seward si riferiva chiaramente alla Russia.


Debolezza dell'Unione

La primavera del 1863 vide le speranze dell'Unione al loro punto più basso. Nel suo libro, Czars and Presidents, Alexandre Tarsaïdzé descrisse la situazione in questo modo: “Gli eserciti del Nord non avevano nulla da mostrare dopo due anni di spargimenti di sangue [...]. Quando Lee minacciò di invadere gli Stati del Nord, Baltimora era esultante, Filadelfia paralizzata e New York pronta alla secessione. [...] Nel luglio del 1863 scoppiarono rivolte a New York City per le leggi sulla coscrizione e nel giro di due giorni un migliaio di soldati e civili [...] giacevano morti per le strade. Il Segretario Seward fu informato che le truppe francesi in Messico stavano avanzando verso nord. Più o meno nello stesso periodo giunse la notizia che un reggimento britannico, sulle note vivaci di Dixie, era sbarcato in Canada”.

Nel frattempo Harper's Weekly riportava che due nuove corazzate ribelli sarebbero state varate dai porti britannici a settembre, la cui missione era quella di contribuire a rompere il blocco navale dell'Unione.

La notte del 26 giugno 1863 un gruppo di incursori confederati entrò nel porto di Portland, nel Maine, con l'intenzione di sabotarlo. Le navi della Marina statunitense attaccarono e catturarono i Confederati, ma la Battaglia di Portland, come venne chiamata, sollevò inquietanti interrogativi sul consolidamento delle truppe britanniche in Canada.

Conquistare Portland era un noto obiettivo bellico britannico. Il raid su quel porto prefigurava forse un'imminente azione britannica?


I francesi fanno la loro mossa

Le truppe francesi presero Città del Messico il 10 giugno 1863, deponendo il presidente Benito Juárez, il quale fuggì sulle montagne per organizzare una guerriglia di resistenza.

Un mese dopo il nuovo governo messicano controllato dai francesi invitò l'arciduca austriaco Massimiliano a formare un regime fantoccio e accettare il titolo di Imperatore del Messico.

Nell'ottobre del 1863 circa 40.000 soldati francesi combattevano in Messico.

Con l'intensificarsi del coinvolgimento francese in Messico, i funzionari confederati si affrettarono a ingraziarsi Luigi Napoleone. Circolarono voci di un'alleanza segreta tra la Confederazione e il nuovo regime francese in Messico.

“Gli Stati Confederati saranno nostri alleati e ci difenderanno contro gli attacchi del Nord”, dichiarava un opuscolo di propaganda francese del 1863.

Lord Palmerston aveva già espresso approvazione per il cambio di governo sponsorizzato dalla Francia, dichiarando al ministro degli Esteri John Russell, il 19 gennaio 1862, che i piani francesi di istituire una monarchia in Messico avrebbero scoraggiato un'ulteriore espansione verso sud da parte degli Stati Uniti.


I piani di Napoleone III sul territorio del Sud

Tuttavia i francesi si rivelarono alleati problematici per il Sud, poiché Luigi Napoleone progettava di annettere ampi tratti del territorio meridionale.

Anni prima Luigi Napoleone aveva ammesso con noncuranza di voler “stabilire una Gibilterra francese a Key West, impadronirsi della Florida, della Louisiana e della costa del Golfo e portare l'Impero messicano sotto il dominio francese”, secondo Alexandre Tarsaïdzé in Czars and Presidents (1958).

Sembrava in quel momento che Luigi Napoleone potesse ottenere ciò che desiderava.

Nel gennaio del 1863 i consoli francesi a Galveston e Richmond furono colti in flagrante mentre cercavano di organizzare una ribellione in Texas contro Jefferson Davis.

Contemporaneamente un importante quotidiano viennese riportò la voce secondo cui i funzionari confederati avevano accettato di cedere volontariamente il Texas al regime francese in Messico. Se l'Unione avesse osato bloccare questo trasferimento, avvertiva il giornale, Luigi Napoleone avrebbe probabilmente “interferito con la forza armata a favore del Sud”.

L'interesse di Luigi Napoleone per il Texas faceva parte di un piano più ampio che lui chiamava il suo “Grande Disegno”. Come documentato nel libro, Blue and Gray Diplomacy (2010) di Howard Jones, il “Grande Disegno” mirava a frammentare gli Stati Uniti in tre nazioni diverse, Nord, Sud e Ovest, annettendo al contempo il Texas, la Louisiana e altri territori del Sud all'Impero messicano.

Lincoln fu sufficientemente allarmato dalle notizie sul “Grande Disegno” di Luigi Napoleone da distogliere le truppe dalle operazioni del generale Grant in Mississippi per invadere il Texas quattro volte tra il 1863 e il 1864, nel tentativo di stabilire un “punto d'appoggio” statunitense in Texas per scoraggiare l'occupazione francese.


Intervento russo

Con il generale Lee all'offensiva in Pennsylvania e 40.000 soldati francesi a minacciare il Texas, i timori di un intervento anglo-francese si intensificarono.

Tre miracoli salvarono l'Unione.

Il primo fu la vittoria a Gettysburg il 3 luglio 1863.

Il secondo fu la caduta di Vicksburg il giorno successivo, il 4 luglio 1863.

Il terzo miracolo fu l'arrivo di due flotte russe a New York e San Francisco, rispettivamente a settembre e ottobre 1863.

La flotta russa del Baltico arrivò improvvisamente a New York tra l'11 e il 24 settembre 1863, al comando del contrammiraglio Stepan Lisovsky.

Il 12 ottobre la flotta russa dell'Estremo Oriente gettò l'ancora nella baia di San Francisco, al comando del contrammiraglio Andrei Popov.

La Marina russa rimase in acque statunitensi per sette mesi. Quando se ne andarono, la guerra si era decisamente orientata a favore di Lincoln. Il pericolo di un intervento straniero era ormai passato.


Mistero e segretezza

Ancora oggi mistero, controversie e segretezza circondano lo schieramento navale russo del 1863.

Gli storici accademici sostengono da tempo che lo spiegamento russo non avesse nulla a che fare con la Guerra Civile Americana. I documenti che suggeriscono il contrario vengono minimizzati o screditati.

La versione ufficiale è che lo Zar avesse bisogno di mettere la sua flotta al sicuro. Se francesi e inglesi fossero entrati in guerra per la questione polacca, i russi temevano che le loro navi potessero rimanere intrappolate nei loro porti.

Ma c'erano posti più sicuri in cui lo Zar avrebbe potuto inviarle; l'America era una zona di guerra all'epoca.

Chiaramente lo Zar non stava cercando di fuggire da francesi e inglesi, ma piuttosto cercava il posto migliore per combatterli. Decise di schierarsi in America.

Sembra ragionevole concludere che, qualunque fossero le altre motivazioni che lo Zar potesse avere per schierare la sua flotta in America, almeno una era quella di mostrare solidarietà agli americani, scoraggiando Inghilterra e Francia dall'attaccare entrambi i Paesi.


Prove delle intenzioni russe

Alcune dichiarazioni attribuite al Principe Gorchakov, Ministro degli Esteri russo, possono aiutare a far luce sulle ragioni del dispiegamento russo.

Nel febbraio 1862 il Principe Gorchakov chiese al diplomatico statunitense, Charles A. De Arnaud, se l'Unione avesse navi sufficienti per mantenere il blocco navale. De Arnaud ammise di non esserne sicuro, al che il Principe Gorchakov rispose (secondo le memorie di De Arnaud): “Verificherò se hanno navi sufficienti per mantenere il blocco navale, e se non le hanno loro, le abbiamo noi! L'Imperatore, mio Augusto Signore, non permetterà a nessuno di interferire con questo blocco navale, anche a costo di rischiare un'altra guerra alleata!”.

Otto mesi dopo, nell'ottobre del 1862, lo stesso principe Gorchakov rispose a una lettera del presidente Lincoln offrendo queste assicurazioni a Bayard Taylor, incaricato d'affari americano a San Pietroburgo: “Solo la Russia vi ha sostenuto fin dall'inizio e continuerà a sostenervi. [...] Desideriamo la sopravvivenza dell'Unione americana come nazione indivisibile. [...] Verranno avanzate proposte alla Russia per aderire a un piano di interferenza; essa rifiuterà qualsiasi invito del genere. [...] Potete contare su questo”.

Così, dieci mesi prima dello schieramento della flotta russa, il principe Gorchakov aveva avvertito Lincoln di aspettarsi un ultimo tentativo di intervento da parte di Francia e Inghilterra, un tentativo che tutti sapevano avrebbe comportato un'azione navale per rompere il blocco dell'Unione.

Alla luce di questi fatti non sembra azzardato concludere che lo zar avesse inviato la sua flotta, almeno in parte, per scoraggiare Francia e Gran Bretagna dal loro piano.

Lo zar mantenne la promessa fatta a Lincoln: “L'amicizia della Russia per gli Stati Uniti sarà riconosciuta in modo decisivo, tale che nessun'altra nazione potrà mai sbagliarsi”.

Potremmo essere in debito con la Russia per aver difeso l'Unione in un momento cruciale.


Come la Gran Bretagna causò la Guerra Civile

Il resoconto precedente ha convinto, si spera, i lettori a chiedersi se la Gran Bretagna fosse davvero “neutrale” nella nostra Guerra Civile, come sostengono molti storici.

L'ingerenza della Gran Bretagna stiracchia la definizione di “neutralità” oltre ogni limite.

E c'è di più.

Alcune prove suggeriscono che l'Inghilterra potrebbe aver effettivamente causato la Guerra Civile.

Il principale consigliere economico di Lincoln, Henry Charles Carey (1793-1879), ne era convinto. Accusò la Gran Bretagna di aver istigato la guerra per il proprio tornaconto.

Nel suo opuscolo del 1867, Reconstruction: Industrial, Financial and Political, Carey accusò la Gran Bretagna di alimentare passioni secessioniste attraverso una rete di “agenti britannici” che operavano “in stretta alleanza con l'aristocrazia schiavista del Sud [...]”.

L'economia del Sud dipendeva dalla Gran Bretagna, la quale ne acquistava ogni anno il 70% delle esportazioni di cotone. Secondo Carey, la Gran Bretagna usava la sua influenza per spingere i leader del Sud verso la secessione.

Gli inglesi sapevano che un Sud indipendente sarebbe stato libero di ridurre i dazi e di utilizzare manodopera schiavizzata, mantenendo bassi i prezzi del cotone.

Se non si fosse affrontato il problema di fondo dell'influenza britannica, Carey predisse che gli sforzi dell'Unione per “ricostruire” il Sud sarebbero falliti.

“Il libero scambio britannico, il monopolio industriale e la schiavitù umana vanno di pari passo”, concluse Carey, “e chi intraprende l'opera di ricostruzione senza essersi prima accertato che tale sia la realtà, scoprirà di aver costruito su basi instabili e non riuscirà a costruire un edificio che sia permanente”.


“Sistema britannico” & “Sistema americano”

Carey credeva che due sistemi economici rivali si stessero contendendo il predominio nel XIX secolo: il “Sistema britannico” e il “Sistema americano”.

Sosteneva che la nostra Guerra Civile fosse stata combattuta, in gran parte, per determinare quale di questi due sistemi avrebbe prevalso.

Il Sistema britannico mirava a fare dell'Inghilterra l'“officina del mondo”, con un monopolio globale sulla produzione industriale. Altri Paesi avrebbero dovuto fornire cibo e materie prime in cambio dei prodotti manifatturieri britannici.

Al contrario, il Sistema americano incoraggiava l'autosufficienza nazionale. Gli americani erano spinti a produrre tutto ciò di cui avevano bisogno nel proprio Paese, inclusi cibo, materie prime e prodotti manifatturieri.

I due sistemi erano incompatibili e destinati a scontrarsi.

L'America era l'arena naturale per questa contesa, poiché il Nord industrializzato seguiva il Sistema americano, mentre il Sud agricolo seguiva il Sistema britannico.


Perché l'Inghilterra sostenne la Confederazione

Gli inglesi avevano molto da perdere se il Nord avesse prevalso.

Il Nord stava costruendo le proprie fabbriche tessili e cercando di sostituire l'Inghilterra come principale partner commerciale del Sud. Se ciò fosse accaduto, il sistema britannico avrebbe potuto potenzialmente crollare.

La Gran Bretagna avrebbe perso la sua fornitura di cotone a basso costo, avrebbe perso il suo monopolio tessile globale e avrebbe perso il Sud degli Stati Uniti come mercato per i prodotti manifatturieri inglesi. Da quel momento in poi i sudisti avrebbero acquistato manufatti dal Nord.

Il 7 marzo 1862 Lord Robert Cecil si rivolse al Parlamento britannico con queste parole: “Gli Stati del Nord d'America non potranno mai essere nostri amici sicuri [...] perché siamo rivali, politicamente, commercialmente. Aspiriamo alla stessa posizione. Entrambi aspiriamo al governo dei mari. Siamo entrambi un popolo manifatturiero, e in ogni porto, così come in ogni corte, siamo rivali l'uno dell'altro. [...] Per quanto riguarda gli Stati del Sud, la tesi è completamente invertita. La popolazione si basa sull'agricoltura. Fornisce la materia prima della nostra industria e consuma i prodotti che ne ricaviamo. Con loro, quindi, ogni interesse deve portarci a coltivare relazioni amichevoli, e abbiamo visto che, allo scoppio della guerra, si sono subito rivolti all'Inghilterra come loro alleato naturale”.

Con queste parole Lord Cecil chiarì che il rapporto che la Gran Bretagna desiderava con l'America era un rapporto coloniale, in cui le “colonie” avrebbero esportato cibo e materie prime alla madrepatria, mentre quest'ultima forniva in cambio i manufatti.

La Gran Bretagna favoriva il Sud proprio perché i sudisti non avevano mai rotto il legame coloniale; il Sud rimaneva economicamente dipendente dalla madrepatria.

Il Nord, dall'altra parte, aveva cercato di migliorare la propria situazione industrializzandosi e costruendo una propria flotta mercantile, entrando così in competizione con la Gran Bretagna. Così facendo il Nord divenne il rivale dell'Inghilterra e, in definitiva, il suo nemico mortale.


“Libero scambio” & “Protezionismo”

Molti storici sostengono che il sistema britannico incoraggiasse il “libero scambio”, mentre il sistema americano promuovesse il “protezionismo”. Questo è fuorviante.

In realtà entrambi i sistemi erano protezionistici.

La confusione nasce dai propagandisti britannici che impararono presto a camuffare le loro politiche protezionistiche sotto la retorica del “libero scambio”.

Nel suo libro del 1776, La ricchezza delle nazioni, l'economista britannico Adam Smith sosteneva che tutti i Paesi avrebbero dovuto commerciare liberamente tra loro, senza dazi o altre restrizioni. La “mano invisibile” dei mercati avrebbe garantito a ciascun Paese la ricezione dei beni di cui aveva bisogno al miglior prezzo.

L'idea di Smith poteva essere stata praticabile o meno, ma non fu mai sperimentata nell'effetivo.

Al contrario la Gran Bretagna applicò il libero scambio in modo selettivo, solo nei mercati in cui deteneva un monopolio sicuro o qualche altro vantaggio.

L'accordo commerciale del 1810 tra la Gran Bretagna e il Brasile illustra questo punto.


La silenziosa conquista del Brasile

Nel 1807 la Marina britannica salvò i Braganza, la famiglia reale portoghese, trasportandoli nella colonia portoghese del Brasile, fuori dalla portata delle truppe d'invasione di Napoleone.

In cambio di questo favore, i Braganza accettarono di aprire i porti brasiliani al “libero scambio”.

Era un inganno. Il dominio britannico sui mari garantiva che i porti brasiliani appena aperti avrebbero avvantaggiato principalmente la Gran Bretagna. Gli inglesi si appropriarono della maggior parte del commercio estero brasiliano.

Alcuni consiglieri reali misero in guardia i Braganza da ulteriori concessioni, ma una fazione “liberale” all'interno della burocrazia si oppose. Rodrigo de Souza Coutinho e José da Silva Lisboa avevano studiato La ricchezza delle nazioni di Adam Smith e avevano esortato i Braganza a fidarsi della “mano invisibile” del libero mercato.

Nel 1810 gli inglesi erano sufficientemente trincerati a Rio de Janeiro da costringere il Brasile a firmare un nuovo trattato che garantiva privilegi speciali alla Gran Bretagna, tra cui un dazio preferenziale che tassava le merci britanniche solo al 15%, rispetto al 24% delle altre nazioni. Persino la madrepatria, il Portogallo, era tassata al 16%.

Così, con il pretesto del “libero scambio”, la Gran Bretagna di fatto sostituì il Portogallo come madrepatria del Brasile, riducendolo a uno stato cliente.


La guerra commerciale del 1783

Come i liberali portoghesi, i Padri Fondatori americani erano ideologicamente inclini al libero scambio.

Alcuni, come Thomas Jefferson, temevano che i dazi protezionistici avrebbero trasformato l'America da una nazione rurale a una urbana, in cui banchieri e industriali avrebbero detenuto tutto il potere.

Altri ricordavano che la Dichiarazione d'Indipendenza aveva condannato Re Giorgio per “aver interrotto il nostro commercio con tutte le parti del mondo”, un riferimento alle restrizioni imposte dal Trade and Navigation Act britannico.

Nonostante questi scrupoli, la dura realtà della guerra commerciale britannica costrinse presto i Padri Fondatori a riesaminare i loro presupposti sul libero scambio.

Il campanello d'allarme arrivò nel 1783. Subito dopo la firma del trattato di pace che pose fine alla Guerra d'Indipendenza, la Gran Bretagna iniziò a immettere enormi quantità di prodotti manifatturieri a basso costo sul mercato statunitense, vendendoli a prezzi molto inferiori a quelli inglesi e, in molti casi, sottocosto.

I produttori americani alle prime armi non riuscirono a sostenere tali prezzi e fallirono. L'economia crollò; i debitori persero le loro case.

Dal 1786 al 1787 scoppiò una rivolta armata nel Massachusetts, nota come Ribellione di Shay, per chiedere sollievo dai debiti, dagli sfratti e dal dumping britannico.

Molti stati chiesero a gran voce la secessione; la Repubblica era sull'orlo della dissoluzione.


Indipendenza politica & indipendenza economica

Attraverso questa esperienza la generazione rivoluzionaria imparò che l'indipendenza politica è inutile senza indipendenza economica.

Finché gli inglesi controllavano i cordoni della borsa americana, controllavano l'America.

La guerra commerciale del 1783 rese chiaro che la Gran Bretagna non avrebbe rinunciato al suo monopolio sui prodotti manifatturieri in America.

All'atto pratico l'America rimaneva una colonia britannica.

L'essenza di un rapporto coloniale è che la colonia produce cibo e materie prime, mentre la madrepatria produce manufatti. Poiché le materie prime sono economiche e i prodotti manifatturieri costosi, i profitti affluiscono costantemente alla madrepatria.

Prima della Rivoluzione la Gran Bretagna mantenne uno stretto controllo sul commercio americano attraverso i Trade and Navigation Act del 1660, 1663 e 1672.

Ai coloni era proibito dedicarsi all'industria manifatturiera. Inoltre tutte le navi che trasportavano merci da e per le colonie erano tenute a fare scalo nei porti inglesi per pagare dazi e altre spese di trasporto, indipendentemente dalla loro destinazione finale o dal punto di origine. Persino una nave che andava da Boston al Rhode Island e ritorno doveva attraversare l'oceano due volte, fermandosi due volte nei porti inglesi, per pagare dazi e altre spese di trasporto.

Come risultato di queste leggi, nel 1677 la Gran Bretagna godeva di uno squilibrio commerciale di dieci a uno con le sue colonie americane, un rapporto che rimase costante fino alla Rivoluzione.

Nel suo libro, The Unity of Law (1872), Henry Carey calcolò che le normative commerciali coloniali consentivano alla Gran Bretagna di tassare “tre quarti del prodotto del lavoro americano” ogni anno.


Indipendenza: “Un pezzo di pergamena”

Durante la Guerra d'Indipendenza gli americani dovettero cavarsela da soli. Impararono a produrre i propri vestiti, corde, carta, ferro e altri beni essenziali. Molti speravano che queste nuove industrie locali avrebbero dato vita a un'economia prospera e indipendente.

Ma il dumping britannico pose fine a quel sogno nel 1783.

Edward Everett, fervente sostenitore del sistema americano, ricordò nel 1831: “Si presentò così lo straordinario e disastroso spettacolo di una rivoluzione vittoriosa, che fallì completamente nel suo obiettivo finale. Il popolo americano era andato in guerra non per i nomi, ma per le cose. Non si trattava semplicemente di cambiare un governo amministrato da re, principi e ministri, con un governo amministrato da presidenti, segretari e membri del Congresso. Si trattava di riparare i propri torti, di migliorare la propria condizione, di liberarsi del peso che il sistema coloniale imponeva alla propria industria. Per raggiungere questi obiettivi, sopportarono difficoltà incredibili; sopportarono e soffrirono in modo quasi inimmaginabile. E quando ottennero la loro indipendenza, scoprirono che era ormai un pezzo di pergamena”.

Gli americani impararono che una guerra commerciale può devastare una nazione con la stessa crudeltà del ferro e del fuoco. Impararono anche che l'unico modo per combattere una guerra commerciale è vendicarsi con la stessa moneta.

Gli Articoli della Confederazione, allora in vigore, non offrivano alcun mezzo di ritorsione. I singoli stati potevano imporre dazi, ma non il governo nazionale.

In risposta alla crisi alcuni stati istituirono le proprie dogane e imposero dazi, ma questo portò solo a guerre commerciali tra stati, dividendo ulteriormente il Paese.

Nei quattro anni successivi alla battaglia di Yorktown, dal 1781 al 1785, la bilancia commerciale tra Gran Bretagna e Stati Uniti rimase più di tre a uno a favore della Gran Bretagna.


Combattere il fuoco con il fuoco

Quando la Costituzione fu firmata nel 1787, praticamente tutti i Padri Fondatori erano giunti a concordare sulla necessità di dazi protettivi per contrastare la guerra commerciale britannica.

In un discorso del 9 aprile 1789, James Madison disse al Congresso che “il commercio dovrebbe essere libero”. Osservò, tuttavia, che questo principio funzionava solo quando tutti seguivano le stesse regole: “Se l'America lasciasse i suoi porti perfettamente liberi e non facesse alcuna discriminazione tra le navi di proprietà dei suoi cittadini e quelle di proprietà straniera, mentre altre nazioni facessero questa discriminazione, è ovvio che tale linea di politica finirebbe per escludere del tutto la navigazione americana dai porti stranieri, e l'America ne subirebbe le conseguenze materiali in uno dei suoi interessi più importanti”.

Quindi l'unica difesa contro il protezionismo britannico era il protezionismo americano. Gli americani avrebbero dovuto combattere il fuoco con il fuoco.

“Washington e i suoi segretari, Hamilton e Jefferson, approvarono questa linea d'azione”, scrisse Carey, “e, così facendo, furono seguiti da tutti i successori di Washington, fino al generale Jackson”.


La Costituzione

Molti americani hanno dimenticato che la nostra Costituzione è nata dall'urgente necessità di difendere l'industria statunitense dalla guerra commerciale britannica.

Fisher Ames, che prese parte alla Convenzione, affermò che “l'attuale Costituzione è stata dettata da necessità commerciali più che da qualsiasi altra causa. La mancanza di un governo efficiente per tutelare gli interessi manifatturieri e promuovere il nostro commercio è stata a lungo avvertita da uomini di giudizio e sottolineata da patrioti desiderosi di promuovere il nostro benessere generale”.

Firmata il 17 settembre 1787, la nuova Costituzione conferiva al Congresso il potere di imporre dazi doganali.

“Il potere di regolamentare sia il commercio estero che quello tra gli stati era attribuito chiaramente al governo nazionale adesso, per sempre sottratto agli stati stessi”, scrisse Robert Ellis Thompson in Political Economy with Special Reference to the Industrial History of Nations (1882).

Per il suo insediamento George Washington indossò un abito di stoffa tessuta in casa, per dimostrare la sua solidarietà agli industriali americani in difficoltà.


Guerra economica

Se posso permettermi una digressione personale, alcuni lettori potrebbero essere interessati a sapere che difendere il protezionismo non mi viene né facile né naturale. Ero uno studente universitario diciannovenne quando lessi per la prima volta Per una nuova libertà di Murray Rothbard, e da allora mi definisco un libertario.

Tuttavia, dopo aver studiato il sistema coloniale britannico e le sue numerose guerre commerciali contro gli Stati Uniti, non riesco a trovare altra difesa contro questi mali se non quella che i nostri Padri Fondatori alla fine decisero: i dazi protettivi.

La Gran Bretagna aveva chiaramente sia la volontà che il potere di schiacciare l'industria manifatturiera statunitense, e lo fece ripetutamente nei primi anni della nostra Repubblica.

Nel 1816, mentre la Gran Bretagna attaccava nuovamente le industrie statunitensi con una campagna di dumping, il signor (e in seguito Lord) Brougham dichiarò alla Camera dei Comuni che “vale la pena subire una perdita [...] per soffocare nella culla quelle giovani industrie manifatturiere degli Stati Uniti che la guerra ha costretto alla nascita”.

David Syme, un tempo liberoscambista inglese, emigrò in Australia e vide con i propri occhi gli effetti distruttivi del dumping britannico.

Nel suo libro, Outlines of an Industrial Science (1876), Syme descrisse come la Gran Bretagna mantenesse i suoi monopoli attraverso la guerra economica: “Il modo in cui il capitale inglese viene utilizzato per conservare la supremazia manifatturiera dell'Inghilterra è ben noto all'estero. In qualsiasi parte del mondo si presenti un concorrente che potrebbe interferire con il suo monopolio, il capitale dei suoi produttori si concentra immediatamente in quella particolare parte e le merci vengono esportate in grandi quantità e vendute a prezzi tali da schiacciare di fatto la concorrenza esterna. È noto che per anni i produttori inglesi hanno esportato merci in mercati lontani e le hanno vendute a prezzo di costo, con l'obiettivo di riprendere il controllo di quei mercati”.


Il sistema britannico di libero scambio

Nei suoi scritti Henry Carey racchiudeva abitualmente il termine “libero scambio” tra virgolette per ricordare ai lettori che era semplicemente un rebranding della tradizionale linea di politica coloniale britannica.

Mentre autoproclamati discepoli di Adam Smith evangelizzavano il mondo attraverso gruppi come la British Free-Trade League, la Gran Bretagna stessa continuava a governare i suoi mercati con la forza bruta.

A titolo di esempio, Carey citò le Guerre dell'Oppio del 1839-42 e del 1856-60 in cui la Gran Bretagna usò la forza militare per costringere la Cina ad acquistare oppio da produttori autorizzati dagli stessi inglesi nell'India britannica.

Carey osservò che azioni militari, crisi finanziarie orchestrate, dazi proibitivi e campagne di dumping erano solo alcuni degli interventi diretti e sovvenzionati dallo stato che i “principi mercanti” britannici usavano abitualmente per proteggere i loro monopoli, spingendo nel contempo il “libero scambio” verso le loro vittime designate.

Un membro del Parlamento, mister Robertson, confermò l'opinione di Carey quando dichiarò alla Camera dei Comuni, il 22 ottobre 1831: “Era inutile da parte nostra cercare di persuadere altre nazioni ad unirsi a noi nell'adottare i principi di quello che veniva chiamato 'libero scambio'. Altre nazioni sapevano, così come il nobile Lord di fronte a noi e coloro che agivano con lui, che ciò che intendevamo per 'libero scambio' non era altro che, grazie ai grandi vantaggi di cui godevamo, ottenere il monopolio di tutti i loro mercati per i nostri produttori e impedire loro, tutti quanti, di diventare nazioni manifatturiere”.


Monopolio britannico nel Sud degli Stati Uniti

Nel 1860 la Gran Bretagna era diventata il principale produttore mondiale di tessuti e fili di cotone, importando l'80% del suo cotone grezzo dall'America.

Il cotone divenne così la principale esportazione del Sud e la Gran Bretagna il suo principale cliente. In sintesi, il Sud dipendeva dalla Gran Bretagna per il suo sostentamento.

Quando, nel 1824, i protezionisti cercarono di incoraggiare la produzione tessile statunitense imponendo dazi sulle importazioni straniere, i membri del Congresso del Sud li contrastarono. Il Nord non avrebbe mai potuto sperare di sostituire l'Inghilterra come partner commerciale del Sud, sostenevano, perché non sarebbe mai stato in grado di acquistare tanto cotone quanto l'Inghilterra.

Quest'ultima forniva prodotti di cotone al mondo, sostenevano, mentre le fabbriche del Nord rifornivano solo l'America, e solo una piccola parte di essa.

Cotton is King (1856) di David Christy – una polemica anti-protezionista che contribuì a ispirare la ribellione del Sud – sosteneva che le fabbriche statunitensi nel Nord non avevano la capacità di lavorare più di un quarto della resa totale. Inoltre la popolazione statunitense dell'epoca non poteva consumare più di un terzo della produzione del Sud, anche se le fabbriche statunitensi fossero riuscite a sfornare abbastanza indumenti di cotone per tutti. L'Inghilterra era quindi l'unico cliente valido, concluse Christy.

La lealtà del Sud degli Stati Uniti verso i suoi partner commerciali britannici era impressionante, ma non era ricambiata. La Gran Bretagna non cessò mai di cercare fonti alternative di cotone per sostituirlo, cercandole in Egitto, Brasile, India e altrove.


Come il sistema britannico incoraggiò la schiavitù

L'instancabile ricerca da parte dell'Inghilterra di cotone a prezzi più bassi spinse gli agricoltori del Sud degli Stati Uniti a offrire i prezzi più bassi possibili, cosa che riuscirono a fare solo utilizzando manodopera schiava.

Una delle principali critiche di Carey al sistema britannico era che incoraggiasse la schiavitù abbassando il prezzo del lavoro – cioè i salari – in tutto il mondo.

Sotto il sistema britannico, ogni Paese era costretto a fare affidamento sul commercio estero; a nessuno era permesso di diventare autosufficiente.

Così, ogni acquirente, in ogni Paese, setacciava costantemente il pianeta alla ricerca dei beni più economici. Allo stesso modo ogni venditore in tutto il mondo era in competizione per attrarre quegli acquirenti globali fornendo i beni più economici.

Il modo più semplice per produrre beni a basso costo era pagare meno i lavoratori.

Pertanto il sistema britannico premiava costantemente coloro che pagavano meno i lavoratori. I prodotti più economici, realizzati dai lavoratori meno pagati, ottenevano inevitabilmente la distribuzione più ampia.

Il lavoro da schiavi era il più economico di tutti e per questo motivo i beni prodotti dagli schiavi godevano di un vantaggio naturale nel sistema britannico.

“Qualsiasi sistema basato sull'idea di abbassare il prezzo delle materie prime manifatturiere [e] dei prodotti grezzi del lavoro agricolo e minerario, tende necessariamente alla schiavitù [...]”, concluse Carey nel suo opuscolo del 1867, Reconstruction: Industrial, Financial and Political.


“L'imperialismo del libero scambio”

Il sistema britannico esercitò un'ulteriore pressione sul Sud degli Stati Uniti.

Poiché quest'ultimo non aveva industrie interne, era costretto ad acquistare tutto ciò di cui aveva bisogno altrove, principalmente dall'Inghilterra.

Se il Sud avesse aumentato troppo i prezzi del cotone, gli inglesi l'avrebbero acquistato altrove; il reddito del Sud si sarebbe prosciugato.

I consumatori del Sud si sarebbero quindi trovati nell'impossibilità di permettersi i beni importati da cui dipendevano. In una crisi del genere, il sistema delle piantagioni stesso avrebbe potuto facilmente crollare.

I sudisti vivevano nel timore di un simile crollo e avrebbero fatto qualsiasi cosa per impedirlo.

Per questo motivo gli storici John Gallagher e Ronald Robinson definirono il Sud anteguerra un'“economia coloniale” della Gran Bretagna, nel loro articolo del 1953 intitolato The Imperialism of Free Trade.

La dipendenza dal commercio britannico non lasciò altra scelta ai sudisti se non quella di accontentare e cooperare con la Gran Bretagna in ogni questione: la definizione stessa di dipendenza coloniale.


L'impero Dixie britannico

“Le imprese commerciali britanniche trasformarono il cotone sudista in un'economia coloniale e gli investitori britannici speravano di fare lo stesso con il Midwest”, scrissero Gallagher e Robinson, “ma la forza politica del Paese [gli Stati Uniti] si oppose loro”.

Con queste parole Gallagher e Robinson svelarono le origini del conflitto che portò alla Guerra Civile Americana.

Dopo essere riusciti a stabilire un'“economia coloniale” nel Sud, gli inglesi si opposero a qualsiasi tentativo del Nord di interferire con il loro monopolio. In particolare si opposero a qualsiasi suo tentativo di sostituire la Gran Bretagna come principale partner commerciale del Sud, cosa che il Nord cercò continuamente di fare imponendo dazi doganali proibitivi sui prodotti britannici.

Nel loro articolo, The Imperialism of Free Trade, Gallagher e Robinson ammettevano che la Gran Bretagna considerava le industrie nascenti del Nord una minaccia al loro controllo coloniale sul Sud.

“Era impossibile fermare l'industrializzazione americana”, scrissero, “e le sezioni industrializzate [del Nord] fecero campagna propagandistica per ottenere dazi doganali nonostante l'opposizione di quelle sezioni [il Sud] che dipendevano dai rapporti commerciali britannici”.

Qui risiedeva la causa della Guerra Civile Americana.


Perché i Confederati inserirono una clausola di “libero scambio” nella loro Costituzione

Uno dei modi in cui i sudisti cercarono di compiacere e collaborare con la Gran Bretagna fu l'inserimento di una clausola di “libero scambio” nella Costituzione confederata adottata l'11 marzo 1861.

L'Articolo I, Sezione 8(1), stabiliva che “nessun dazio o tassa sulle importazioni da nazioni straniere [sarà] imposto per promuovere o favorire alcun ramo dell'industria [...]”.

Con queste parole i Confederati assicurarono ai loro protettori britannici di non avere alcuna ambizione di costruire industrie nazionali. Erano contenti di rimanere produttori a basso costo di alimenti e materie prime.

I diplomatici confederati usarono questa clausola di “libero scambio” nei loro negoziati con la Gran Bretagna.

Ad esempio, quando gli inviati confederati incontrarono John Russell, il Ministro degli Esteri britannico, il 4 maggio 1861, lo allettarono con la visione di un nuovo Sud indipendente, che non avrebbe mai più permesso a Washington di limitare il commercio britannico.

Russell reagì favorevolmente.

In seguito a questa conversazione gli inviati riferirono all'allora Segretario di Stato confederato, Robert Toombs, la lieta notizia che “l'Inghilterra non è in realtà contraria alla disintegrazione degli Stati Uniti e [Inghilterra e Francia] agiranno favorevolmente nei nostri confronti al primo successo [militare] decisivo che otterremo”.


La dipendenza economica porta alla dipendenza politica

Imponendo il “libero scambio” al Brasile, la Gran Bretagna aveva di fatto stabilito quello che Gallagher e Robinson chiamavano un dominio “informale” sul Paese.

Allo stesso modo la Costituzione del “libero scambio” della Confederazione ratificava il dominio “informale” della Gran Bretagna sul Sud degli Stati Uniti.

Nel loro articolo del 1953 Gallagher e Robinson sostenevano che esistessero in realtà due imperi britannici: uno “formale” e uno “informale”.

L'impero “formale” comprendeva quei Paesi su cui la Gran Bretagna esercitava un controllo diretto, solitamente indicati in rosso o rosa sulle vecchie mappe. L'impero “informale” comprendeva quei Paesi che la Gran Bretagna controllava attraverso accordi economici.

La differenza tra governo “formale” e “informale” era in realtà irrilevante, sostenevano gli autori, poiché la Gran Bretagna manteneva il controllo politico in entrambi i casi. “L'impero formale e quello informale sono essenzialmente interconnessi e in una certa misura intercambiabili”, concludevano.


I limiti sfumati del potere britannico

Cercare di determinare i limiti del potere britannico in base all'estensione del territorio “colorato in rosso sulle mappe” era “come giudicare le dimensioni e le caratteristiche degli iceberg basandosi esclusivamente sulle parti che emergono dalla linea di galleggiamento”, sostenevano Gallagher e Robinson.

Quei Paesi che in vari periodi sono stati sottoposti al dominio britannico “informale” erano parte integrante dell'Impero britannico, insistevano Gallagher e Robinson, nonostante non siano mai stati “colorati in rosso sulle mappe”.

I nomi di alcune di queste dipendenze “informali” sorprenderanno alcuni lettori.

L'India, che aveva apparentemente ottenuto la sua “indipendenza” nel 1947, era ancora sotto il dominio britannico “informale” all'epoca in cui gli autori scrivevano (1953), o almeno così sostenevano.

“L'India è passata da un'associazione informale a una formale con il Regno Unito e, dalla Seconda Guerra Mondiale, è tornata a una connessione informale”, scrissero.

Altri esempi di passate dipendenze britanniche – secondo Gallagher e Robinson – includevano Cina, Brasile, Argentina e il Sud degli Stati Uniti anteguerra.


L'élite coloniale del Sud

Gallagher e Robinson osservarono che, una volta che la Gran Bretagna avesse instaurato un sistema di “libero scambio” in un Paese, le élite locali avrebbero cercato di perpetuare quel sistema: “Una volta che le loro economie erano diventate sufficientemente dipendenti dal commercio estero, le classi la cui prosperità derivava da esso, si impegnavano nella politica locale per preservarne le condizioni necessarie”.

In altre parole i locali che traevano profitto dal commercio con la Gran Bretagna fungevano da rappresentanti locali per gli inglesi, facendo valere gli interessi britannici sul territorio.

Questo è ciò che intendeva Carey quando scrisse che “gli agenti britannici sono sempre stati in stretta alleanza con l'aristocrazia schiavista del Sud”.

L'“aristocrazia schiavista” pronunciata da Carey formò un'élite coloniale nel Sud, dello stesso tipo descritto da Gallagher e Robinson, “la cui prosperità derivava” dal “commercio estero” e su cui si poteva quindi contare per “impegnarsi nella politica locale” e preservare il potere britannico e il relativo progresso del programma di “libero scambio” britannico.

Era questa classe di persone, scrisse Carey, che cercava costantemente di annacquare i dazi doganali americani al punto che erano troppo bassi per influenzare i monopoli britannici.

Uno di questi dazi annacquato, la Walker Tariff del 1846, portò direttamente alle crisi finanziarie che intensificarono la nostra Guerra Civile, secondo Carey.

Nel 1867 scrisse: “Dalla data del ripristino del sistema monopolistico britannico nel 1846 [attraverso la Walker Tariff] siamo andati costantemente avanti distruggendo il commercio interno, aumentando la nostra dipendenza da Liverpool come luogo di scambi con tutto il mondo e aumentando il nostro debito estero, fino a raggiungere all'improvviso l'inevitabile risultato: lo scioglimento dell'Unione”.


Conclusione

A più di 156 anni dalla resa di Lee ad Appomattox, gli americani rimangono profondamente divisi sulla Guerra Civile.

Nessun evento nella nostra storia suscita risentimenti più profondi, né altro tema genera controversie più sconcertanti e difficili da risolvere.

Né questo articolo, né altri ancora da scrivere, riusciranno probabilmente a portare gli americani a un accordo sul perché abbiamo combattuto la Guerra Civile.

Spero che, raccogliendo questi fatti dimenticati, ciò abbia acceso la curiosità dei lettori, i quali potrebbero rendersi conto che la nostra storia è incompleta, che eventi vitali sono stati cancellati dalla nostra memoria e che dobbiamo impegnarci per recuperare ciò che è andato perduto.

Come possiamo affrontare il futuro senza la guida del passato?

Come dice il vecchio proverbio, tra i due litiganti il terzo gode.

La Gran Bretagna era il proverbiale terzo nel 1861.

Ma chi è il terzo oggi?

E cosa vuole?

Rispondere a queste domande non risolverà tutti i nostri problemi, ma potrebbe almeno consentirci di iniziare a discutere il tema del “divorzio nazionale” in modo costruttivo.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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venerdì 18 luglio 2025

La Matrix originale: cosa non vi insegnano riguardo il denaro

Ricordo a tutti i lettori che su Amazon potete acquistare il mio nuovo libro, “Il Grande Default”: https://www.amazon.it/dp/B0DJK1J4K9 

Il manoscritto fornisce un grimaldello al lettore, una chiave di lettura semplificata, del mondo finanziario e non che sembra essere andato “fuori controllo” negli ultimi quattro anni in particolare. Questa è una storia di cartelli, a livello sovrastatale e sovranazionale, la cui pianificazione centrale ha raggiunto un punto in cui deve essere riformata radicalmente e questa riforma radicale non può avvenire senza una dose di dolore economico che potrebbe mettere a repentaglio la loro autorità. Da qui la risposta al Grande Default attraverso il Grande Reset. Questa è la storia di un coyote, che quando non riesce a sfamarsi all'esterno ricorre all'autofagocitazione. Lo stesso è accaduto ai membri del G7, dove i sei membri restanti hanno iniziato a fagocitare il settimo: gli Stati Uniti.

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di Brent Johnson

(Versione audio della traduzione disponibile qui: https://open.substack.com/pub/fsimoncelli/p/la-matrix-originale-cosa-non-vi-insegnano)

«Prendi la pillola blu e la storia finisce, ti svegli nel tuo letto e credi a quello che vuoi credere. Prendi la pillola rossa e resti nel Paese delle Meraviglie e ti mostrerò quanto è profonda la tana del Bianconiglio.»

~ Morpheus, Matrix


Cos'è il denaro?

Alcune cose nella vita sono così profondamente radicate nella nostra esistenza quotidiana che raramente ci fermiamo a metterle in discussione.

Sono semplicemente lì, operanti in background, così fondamentali per la nostra esistenza da sembrare naturali come l'aria che respiriamo.

Le usiamo, ci affidiamo a loro e ci muoviamo nel mondo dando per scontato che siano esattamente come dovrebbero essere.

Ad esempio, tutti conoscono la frase “Il denaro fa girare il mondo”.

Raramente viene messa in discussione ed è piuttosto accettata come ovvietà.

Ogni giorno vi svegliate, pagate le bollette, andate al lavoro e controllate il vostro conto in banca, credendo di comprendere il sistema in cui operate.

Ma vi siete mai chiesti: cos'è veramente il denaro?

Non la definizione sui libri di testo.

Non la teoria economica che avete imparato a scuola.

Ma la verità.

Il denaro è ovunque. Determina chi mangia e chi muore di fame, chi si eleva e chi crolla. Costruisce imperi e distrugge civiltà.

Ha alimentato rivoluzioni, finanziato guerre e controllato il destino di intere nazioni.

È probabilmente la forza più potente sulla Terra, eppure la maggior parte delle persone non si ferma mai a interrogarsi sulle sue origini, sul suo scopo, o sulla sua vera natura.

Usiamo il denaro ogni singolo giorno. Lo guadagniamo, lo spendiamo, lo risparmiamo. Ci scambiamo tempo ed energie. Determina dove viviamo, cosa possediamo e le opportunità che abbiamo a disposizione.

È così profondamente radicato nella nostra vita che metterlo in discussione sembra assurdo, come mettere in discussione la gravità, o l'aria che respiriamo.

Ma vi siete mai chiesti chi decide cos'è il denaro? Chi, o cosa, gli dà valore? O chi lo controlla?

E, cosa ancora più importante, cosa succederebbe se giocassimo a un gioco le cui regole erano state truccate prima ancora che nascessimo?

Per chi è disposto a guardare oltre la superficie, le risposte potrebbero essere sorprendenti.

Ma attenzione: una volta che si iniziano a porre le domande giuste, non si torna più indietro.


Definizioni tradizionali di denaro

Il denaro è uno degli aspetti della civiltà umana più universalmente riconosciuti, ma meno esaminati.

Influenza ogni aspetto della nostra vita, dettando le nostre opportunità economiche, plasmando il commercio globale e agendo come una forza centrale in modi che pochi considerano.

Eppure, nonostante la sua onnipresenza, il denaro rimane un concetto profondamente frainteso.

Sebbene tutti lo usiamo, pochi di noi si soffermano a valutare veramente cos'è, come funziona e se davvero funziona come immaginiamo.

L'obiettivo qui non è convincere nessuno di una prospettiva specifica, ma riflettere in modo critico sul denaro: cosa rappresenta realmente e se la realtà corrisponde a ciò che ci è stato insegnato.

Se fermassi qualcuno per strada e gli chiedessi se sa cos'è il denaro, quasi certamente risponderebbe con un sicuro sì.

Tuttavia, se lo incalzassi ulteriormente e gli chiedessi di darne una definizione appropriata, la risposta potrebbe non arrivare altrettanto rapidamente. La certezza iniziale probabilmente lascerebbe il posto all'esitazione nella ricerca di una risposta.

Se si insistesse un po' di più, o si rivolgesse la domanda a qualcuno esperto di finanza o teoria economica, le risposte diventerebbero probabilmente più strutturate.

A questo livello le persone potrebbero iniziare a descrivere le caratteristiche associate a una forma forte di moneta – qualità che la rendono efficace come mezzo di scambio, riserva di valore e unità di conto.

Se poi la conversazione dovesse andare ancora oltre, chi riflette in modo critico sulla questione potrebbe andare oltre le caratteristiche della moneta e concentrarsi invece su cosa fa effettivamente.

Potrebbero iniziare a discutere del suo ruolo nel facilitare il commercio, della sua funzione nel saldare i debiti, o della sua importanza nelle transazioni economiche.

Tuttavia anche se tutti questi punti fossero accettati come veri, il nocciolo della questione rimane: cos'è?

Al suo livello più fondamentale, un mezzo di scambio deve essere una “cosa”. E di cosa sono fatte le cose tangibili?

Merci.

Secondo questo ragionamento, la moneta – ridotta alla sua forma più elementare – è una merce.

E le merci sono composte da elementi presenti nella Tavola Periodica. Tuttavia non qualsiasi merce (o qualsiasi elemento) può fungere da moneta.

Se una particolare merce è ampiamente richiesta e possiede alcune (o tutte) le caratteristiche che definiscono una moneta forte, allora cessa di essere solo una merce e invece trascende, diventando essa stessa denaro.

A questo punto diventa spesso chiaro che il denaro è la merce più commerciabile, un bene che funge da estintore definitivo del debito e che è stato selezionato dalle forze del libero mercato nel corso del tempo.

Questa definizione trova riscontro in molti di coloro che hanno studiato la storia della moneta e come le sue diverse forme si siano evolute nel tempo.

Spingendo questo concetto un passo avanti, e riconoscendo che il denaro è una merce e che le merci sono composte da elementi della Tavola Periodica, si potrebbero persino valutare i vari elementi per vedere quale di essi abbia il maggior numero di caratteristiche che gli consentirebbero di “ascendere” a diventare denaro.

Facendo così ci si renderebbe conto che esiste una merce che è stata a lungo considerata una delle forme più forti di moneta. Grazie al suo insieme unico di attributi che la rendono altamente efficace come mezzo di scambio e riserva di valore.

Una delle sue qualità più distintive è la durevolezza: a differenza della cartamoneta, o di altri beni deperibili, non si corrode, non si ossida né si degrada nel tempo, garantendo il mantenimento del suo valore nel corso delle generazioni.

Questa durevolezza gli consente di fungere da forma di conservazione della ricchezza affidabile, poiché non soccombe all'azione del tempo o alle condizioni ambientali.

Un'altra caratteristica fondamentale di questa merce è la sua divisibilità.

A differenza di altre merci può essere fusa e divisa in unità più piccole senza perdere il suo valore intrinseco, consentendo transazioni di varie dimensioni.

Questo la rende più pratica come mezzo di scambio rispetto a beni che non possono essere facilmente scomposti.

Inoltre è fungibile, il che significa che ogni unità è identica a un'altra unità dello stesso peso e purezza. Questa intercambiabilità garantisce che possa essere scambiata senza discrepanze di valore, rendendola un mezzo di scambio altamente efficiente.

È apprezzata anche per la sua portabilità.

Pur essendo un bene fisico, possiede un elevato rapporto valore/peso, consentendo a privati ​​e istituzioni di trasportare ingenti quantità di ricchezza in un formato compatto e pratico.

Questa portabilità, unita alla sua riconoscibilità, ne rafforza lo status di forma di denaro ampiamente accettata e affidabile.

In tutte le culture e nel corso della storia è stata universalmente riconosciuta come riserva di valore e il suo aspetto distintivo, e le sue proprietà uniche, la rendono difficile da contraffare.

Oltre a queste qualità, possiede anche la scarsità, una caratteristica fondamentale che ne ha preservato il valore nel tempo.

La sua offerta è naturalmente limitata dai vincoli fisici di estrazione e produzione.

Questa intrinseca scarsità impedisce l'inflazione artificiale e garantisce il mantenimento del suo potere d'acquisto per lunghi periodi.

Infine la sua malleabilità ne aumenta l'utilità, poiché può essere modellata in monete, lingotti, o gioielli senza perdere le sue proprietà essenziali.

Questa adattabilità la rende estremamente versatile, consolidando ulteriormente il suo ruolo di una delle forme di denaro più efficaci e durature.

Stiamo ovviamente parlando dell'oro.

E in effetti, nel corso della storia, l'oro ha incarnato tutte le qualità della moneta forte: è scarso, durevole, divisibile, trasferibile e ampiamente riconosciuto.

Il suo ruolo di lunga data nei sistemi economici ha portato molti ad affermare che rimanga la forma di denaro per eccellenza.

A questo punto, un'alzata di mano potrebbe rivelare un ampio consenso su questa prospettiva.

Ma prima di giungere a una conclusione definitiva, vale la pena fermarsi e chiedersi: la storia ha sempre funzionato tramite un sistema di libero mercato?

Ancora più importante, la moneta è sempre stata determinata dal libero mercato o è intervenuta un'altra forza?


Il denaro come costrutto controllato dallo stato

Un presupposto comune che deve essere accettato quando si utilizza la definizione di denaro sopra riportata è che i mercati operino liberamente, guidati dallo scambio volontario e dalla concorrenza.

Ma questo corrisponde alla realtà storica?

La storia è sempre stata caratterizzata da un libero mercato? O, cosa ancora più importante, il mondo è mai stato veramente governato dai principi del libero mercato?

Queste domande sono essenziali, ma ci impongono di guardare il mondo così com'è, non come vorremmo che fosse. Il che porta a una discussione più ampia sulla natura stessa del denaro.

Se ipotizziamo che il denaro sia semplicemente una merce scelta dalle forze del libero mercato, allora dobbiamo conciliare questo presupposto con le prove storiche.

E il fatto è che esiste un'altra prospettiva, che sfida la definizione tradizionale di denaro e ci costringe a riconsiderare se il denaro sia mai stato un fenomeno puramente guidato dal mercato.

Se la storia ci insegna qualcosa, è che lo stato ha svolto un ruolo significativo nel plasmare la storia nel suo complesso. Lo stato ha anche svolto un ruolo significativo nello sviluppo dei sistemi monetari.

Quindi, se ci occupiamo del mondo così com'è, piuttosto che come vorremmo che fosse, questo semplice fatto non può essere ignorato.

Nel corso della storia gli stati hanno emesso varie forme di moneta fiat, non in risposta alla domanda del libero mercato, ma come meccanismo per facilitare il commercio, affermare il controllo e sostenere i sistemi economici.

Gli antichi imperi spesso coniavano monete fatte di metalli vili, imprimendole con le immagini dei sovrani o dei simboli dello stato, garantendo che il loro valore fosse determinato da un decreto piuttosto che da un valore intrinseco.

Questi primi sistemi monetari stabilirono un precedente in cui lo stato, piuttosto che le forze del mercato, dettava cosa funzionasse come denaro.

Durante il Rinascimento e oltre, le banconote cartacee emersero come uno strumento monetario diffuso. Inizialmente queste banconote erano coperte da metalli preziosi, rafforzandone la legittimità e la fiducia.

Tuttavia, nel tempo, si sono gradualmente evolute in pura moneta fiat, completamente svincolata da qualsiasi bene fisico.

Questa trasformazione ha permesso agli stati e alle banche centrali di esercitare un grande potere decisionale sui sistemi monetari, non essendo più vincolati da riserve finite di oro o argento.

Anche i governi coloniali hanno svolto un ruolo significativo nella storia monetaria, emettendo cambiali come mezzo per gestire il commercio e l'attività economica.

Queste cambiali hanno funzionato come prime forme di valuta coperta dallo stato, rappresentando un obbligo piuttosto che una riserva di valore tangibile.

Con il passare del tempo le valute fiat sono diventate la forma di denaro dominante, con gli stati moderni che hanno adottato valute nazionali come il dollaro, l'euro e lo yen.

Oggi la moneta fiat esiste sia in forma fisica che digitale, a testimonianza della continua evoluzione dei sistemi monetari statali.

Se accettiamo questa realtà storica, allora dobbiamo chiederci: il denaro è davvero un prodotto del libero mercato o è sempre stato plasmato e definito da chi detiene il potere?

O, in altre parole: il denaro è davvero la merce più commerciabile scelta dagli individui, liberi pensatori, o è uno strumento potente imposto dal Re?

Per rispondere a queste domande, è innanzitutto necessario sviluppare le competenze necessarie per comprendere al meglio il proprio ambiente.


Consapevolezza situazionale

La consapevolezza situazionale è un'abilità fondamentale che consente agli individui di percepire, comprendere e anticipare gli eventi che li circondano, consentendo loro di prendere decisioni consapevoli e agire efficacemente.

Si compone di tre componenti essenziali: in primo luogo, la capacità di percepire elementi critici nell'ambiente, come persone, oggetti ed eventi in corso; in secondo luogo, la capacità di comprenderne il significato e il potenziale impatto; e in terzo luogo, la capacità di prevedere gli sviluppi futuri sulla base delle informazioni disponibili.

Questa abilità è indispensabile in ambienti ad alto rischio come l'aviazione, le operazioni militari, la sanità e il mondo degli affari, dove la capacità di riconoscere segnali sottili e reagire di conseguenza può fare la differenza tra successo e fallimento.

Lo stesso principio si applica all'allocazione del portafoglio, dove i mercati finanziari sono in costante evoluzione e una mancanza di consapevolezza può portare a perdite devastanti.

Al di là degli ambiti professionali, la consapevolezza situazionale svolge un ruolo fondamentale nella vita quotidiana, migliorando la sicurezza personale, il processo decisionale e consentendo agli individui di orientarsi efficacemente in un mondo in continua evoluzione.

Senza questa competenza, le persone rischiano di essere colte di sorpresa, di fare scelte sbagliate e di subire conseguenze evitabili.

Che si applichi alla sicurezza personale, alle decisioni finanziarie, o al pensiero strategico, la consapevolezza situazionale è uno strumento vitale per ottimizzare i risultati in un mondo pieno di incertezza.

Un esempio di applicazione della consapevolezza situazionale al nostro attuale argomento è rappresentato dallo scenario seguente.


L'economia carceraria

Come accennato in precedenza, per ottimizzare le proprie circostanze, è necessario comprendere appieno l'ambiente in cui si opera.

Questo principio è chiaramente illustrato nell'ecosistema chiuso delle economie carcerarie, dove non esistono sistemi monetari tradizionali.

In tali ambienti i detenuti si affidano a forme di valuta alternative, scegliendo beni durevoli, ampiamente accettati e facilmente scambiabili.

Ad esempio, le sigarette hanno storicamente funzionato come una valuta efficace dietro le sbarre.

Sono molto richieste, facilmente divisibili per piccole transazioni e ampiamente riconosciute come unità di scambio.

Le sigarette possono essere scambiate con cibo, servizi o altri beni di prima necessità, creando un'economia di baratto che rispecchia i sistemi finanziari tradizionali.

Analogamente le scatolette di sardine si sono affermate come merce di valore in alcuni contesti carcerari.

La loro natura non deperibile, unita al loro valore nutrizionale, le rende una riserva di ricchezza affidabile che mantiene la sua utilità nel tempo.

In assenza di una moneta ufficialmente riconosciuta, questi beni assumono le caratteristiche di mezzo di scambio, riserva di valore e unità di conto: gli stessi principi che definiscono il denaro stesso.

Questa economia informale all'interno delle carceri funge da microcosmo per sistemi monetari più ampi, dimostrando che il denaro non è definito solo da un decreto statale, ma da ciò che le persone riconoscono collettivamente come avente valore.

Gli insegnamenti che si possono trarre da questi ambienti controllati sottolineano l'importanza dell'adattabilità, dell'intraprendenza e della comprensione delle forze economiche, indipendentemente da dove si operi.

È anche importante capire che, sebbene sia le sigarette che le sardine siano diventate forme di denaro popolari in ambienti controllati, non lo sono diventate solo grazie alla commerciabilità delle loro qualità intrinseche.

Si consideri uno scenario all'interno di un'economia carceraria dove le sardine sono ampiamente accettate come moneta. In questo sistema fungono da mezzo di scambio, riserva di valore e unità di conto, svolgendo tutte le funzioni necessarie del denaro.

Tuttavia, cosa succede quando un detenuto viene trasferito in una struttura diversa, dove le dinamiche di potere sono diverse?

In questa nuova prigione, la figura dominante – quella che detiene la maggiore influenza – odia le sardine ma ama le sigarette.

Ha dichiarato, per decreto, che le sigarette sono ora la forma di pagamento richiesta.

In un simile contesto, non importa più che le sardine un tempo avessero un valore monetario. Le regole sono cambiate e la nuova figura autoritaria ha imposto un nuovo sistema.

In questa situazione, avrebbe senso insistere sul fatto che le sardine siano ancora denaro?

Oppure il prigioniero sarebbe costretto ad adattarsi al nuovo standard, riconoscendo che il denaro non è determinato solo da qualità intrinseche, ma piuttosto dalle strutture di potere che ne impongono l'uso?

Vi prendereste la responsabilità di cercare di convincere la figura dominante che è sbagliato pretendere sigarette e che dovrebbe affidarsi ai principi del libero mercato piuttosto che ai propri bisogni e desideri?

Questo esempio solleva una domanda cruciale: se potessimo scegliere, preferiremmo una forma di denaro basata sul mercato, determinata organicamente dal libero scambio, o un sistema in cui il denaro è dettato da un'autorità centrale che detiene il potere sui partecipanti?

La maggior parte delle persone propenderebbe istintivamente per la prima opzione, credendo che il libero mercato debba determinare la migliore forma di denaro.

E poiché credono che il libero mercato sarebbe migliore, allora credono che sia così che i mercati si sono sviluppati nel corso della storia.

Tuttavia questa prospettiva presenta un problema, raramente riconosciuto.

Nonostante la sua ampia accettazione nei manuali di economia e nei modelli teorici, ci sono poche prove storiche che il baratto su larga scala e il libero scambio abbiano mai costituito il fondamento dei sistemi monetari.

L'ipotesi che i mercati producano denaro naturalmente senza alcuna forma di struttura imposta non è in linea con gran parte della documentazione storica.

Questo mette in discussione l'idea che il denaro si sia evoluto come prodotto del libero mercato e ci costringe a riconsiderare se le sue origini siano più strettamente legate al potere, all'autorità e alle regole imposte piuttosto che allo scambio volontario.

La maggior parte delle persone presume che il denaro sia sempre stato determinato dalle forze del libero mercato, ma la storia racconta una storia diversa, in cui potere, controllo e coercizione hanno plasmato i sistemi finanziari in modi che pochi si soffermano a considerare.

Quindi, se il denaro non è ciò che pensiamo che sia, cosa significa per tutto il resto?


Debito, potere ed evoluzione dei sistemi monetari

La narrazione convenzionale sulle origini del denaro suggerisce che si sia evoluto naturalmente dai sistemi di baratto, in cui gli individui si scambiavano direttamente beni e servizi.

Tuttavia David Graeber, nel suo libro Debt: The First 5.000 Years, contesta questa ipotesi, sostenendo che ci sono poche prove storiche a sostegno dell'idea che il baratto sia mai stato il fondamento primario dei sistemi economici.

I libri di testo di economia spesso descrivono le società primitive come impegnate nel baratto prima dell'introduzione del denaro, ma la ricerca di Graeber suggerisce il contrario.

Sostiene invece che il debito, non il baratto, fosse il fondamento dello scambio economico.

Nelle società antiche il commercio si basava spesso su sistemi di credito, in cui gli individui scambiavano beni e servizi sulla base di fiducia e obblighi reciproci piuttosto che su un pagamento fisico immediato.

Questi sistemi non richiedevano denaro in senso tradizionale, ma si basavano su contratti sociali e accordi informali.

Nel corso del tempo questi sistemi di credito si sono formalizzati in debito strutturato, portando infine all'emergere del denaro come mezzo istituzionalizzato per saldare i propri oneri.

Graeber ripercorre l'evoluzione del debito nel corso della storia, illustrando come si sia profondamente radicato nei sistemi economici e politici, spesso fungendo da mezzo di controllo piuttosto che da mera facilitazione degli scambi.

Critica i modi in cui il debito è stato utilizzato per imporre gerarchie sociali, plasmare dinamiche di potere e limitare l'autonomia individuale.

Riformulando la storia del denaro attorno al debito, Graeber fa luce sui meccanismi sociali sottostanti che governano i sistemi economici, meccanismi a lungo trascurati o fraintesi.

Ad esempio, è noto che nel corso della storia i governanti hanno esercitato un controllo diretto sull'attività economica, utilizzando coercizione, tassazione e debito strutturato per plasmare i sistemi monetari.

In alcuni casi il potere veniva imposto attraverso la coscrizione vera e propria, in cui il re arruolava i cittadini nel suo esercito, esigeva il loro lavoro per progetti infrastrutturali o li costringeva alla servitù per gli sforzi di costruzione dello stato.

C'era poco spazio per il rifiuto: chi si opponeva spesso rischiava la morte o la prigione.

In altri casi intere economie funzionavano secondo sistemi feudali, dove i contadini erano costretti a lavorare la terra, generando ricchezza che alla fine andava a beneficio della classe dominante.

In tali sistemi i contadini erano tenuti a pagare le tasse “in natura”, il che significa che cedevano una parte dei loro raccolti, del bestiame, o di altri beni direttamente alla monarchia.

Al netto della tassazione rimaneva loro solo ciò che serviva alla propria sopravvivenza.

Tuttavia mantenere il controllo con la forza diretta ha i suoi limiti. Richiede risorse, sforzi e una minaccia costante di violenza.

Un sistema più efficiente sarebbe stato quello in cui il controllo fosse mantenuto senza una costante imposizione, un sistema in cui gli individui si sottomettessero volontariamente, credendo di avere il controllo delle proprie decisioni economiche.

Considerando questo, cosa accadrebbe se il re ideasse un sistema in cui, invece di esigere beni materiali, o lavoro diretto, emettesse una valuta, una moneta usata per rifornire il suo regno?

E se, alla fine della stagione, o dell'anno, chiedesse ai suoi cittadini di restituire una parte di quella valuta sotto forma di tasse?

In questo modello gli individui continuerebbero a lavorare per sostenere il sistema, ma invece di subire una coercizione diretta sarebbero costretti a partecipare all'economia per guadagnare la valuta emessa.

La necessità di ottenere monete per pagare le tasse creerebbe domanda per la valuta stessa, attribuendole valore non per il suo valore intrinseco, ma perché è l'unico modo per soddisfare gli obblighi verso lo stato.

Infatti tutto questo sarebbe l'equivalente del lavoro forzato, o della tassazione diretta, ma in un modo più sottile, efficiente e facile da gestire. Il sistema di controllo esisterebbe ancora, ma ora apparirebbe volontario.

Prima di scartare questa idea come inverosimile, vale la pena riflettere sulle parole di Johann Wolfgang von Goethe che una volta disse: “Nessuno è più irrimediabilmente schiavo di coloro che credono falsamente di essere liberi”.


Debito, controllo e la natura del potere

Il concetto di debito come meccanismo di controllo è efficacemente illustrato nel film L'Internazionale, dove Umberto Calvini, un importante produttore di armi a livello mondiale, spiega agli investigatori del riciclaggio di denaro perché una grande banca europea stia intermediando armi leggere cinesi per i conflitti del Terzo Mondo.

Gli investigatori presumono che la banca stia semplicemente traendo profitto dalla guerra, ma Calvini chiarisce che il vero obiettivo non è controllare il conflitto in sé, ma controllare il debito che la guerra crea.

«La IBBC è una banca. Il suo obiettivo non è controllare il conflitto, ma controllare il debito che il conflitto produce.

Vede, il vero valore di un conflitto – il vero valore – sta nel debito che crea.

Controllando il debito, controlli tutto. Lo trova sconvolgente, vero? Ma questa è l'essenza stessa del settore bancario: renderci tutti, nazioni o individui, schiavi del debito.»

Le parole di Calvini sottolineano una realtà agghiacciante: la guerra (e il debito) non riguardano solo la terra, le risorse, o l'ideologia... sono uno strumento finanziario.

Assicurandosi che stati e individui rimangano indebitati, le istituzioni finanziarie e coloro che le controllano possono esercitare un'influenza a lungo termine su intere nazioni.

Questo sposta l'attenzione dal controllo diretto attraverso la forza fisica alla sottomissione economica attraverso cicli di debito perpetui.

L'idea che il controllo si estenda oltre la guerra e la finanza viene ulteriormente esplorata nel film Matrix, dove Morpheus rivela a Neo l'inquietante verità sul mondo in cui vive.

Neo, come tutti gli altri, crede di vivere in una realtà in cui fa le proprie scelte.

Ma Morpheus smaschera questa illusione creata appositamente per tenere le persone in schiavitù senza che se ne accorgano.

Quando Neo chiede cos'è Matrix, Morpheus spiega:

«Matrix è un mondo onirico generato al computer, costruito per tenere le persone sotto controllo al fine di trasformare un essere umano in... questo.»

In quel momento Morpheus solleva una batteria, rivelando l'orribile verità: l'umanità stessa è stata ridotta a una fonte di energia per un sistema invisibile.

Nel contesto dei sistemi finanziari, questa analogia è sorprendente.

Proprio come le macchine di Matrix estraggono energia dagli esseri umani, le strutture economiche moderne estraggono ricchezza, lavoro e produttività dagli individui, spesso senza che ne siano consapevoli.

La maggior parte delle persone non mette mai in discussione il sistema in cui è nata, proprio come Neo non ha mai messo in discussione il suo mondo finché non è stato costretto a confrontarsi con una scomoda verità.

Tracciando queste connessioni, diventa chiaro che debito, controllo economico e influenza sistemica funzionano in modi che vanno ben oltre ciò che la maggior parte delle persone percepisce.

La domanda allora diventa: se il mondo in cui viviamo opera secondo un sistema a cui non abbiamo mai acconsentito, e che la maggior parte delle persone non comprende nemmeno, quanta della nostra realtà è veramente nostra?


La Matrix monetaria

Dopo aver esplorato diverse prospettive, torniamo alla domanda fondamentale: cos'è il denaro?

Ma prima di tentare di rispondere, considerate questo: siete pronti a prendere la Pillola Rossa?

E se, riecheggiando le parole di Umberto Calvini ne L'Internazionale e di Morpheus in Matrix, il denaro non fosse semplicemente uno strumento di scambio, né semplicemente un prodotto dell'evoluzione del libero mercato?

E se il denaro non fosse mai stato neutrale, ma piuttosto fosse sempre stato un meccanismo di controllo?

Se così fosse, allora il denaro non è solo uno strumento economico, è la Matrix originale.

Esiste da quando esistono le strutture di potere, plasmando le civiltà, garantendo il rispetto delle regole e mantenendo le gerarchie migliaia di anni prima che i moderni sistemi finanziari fossero concepiti.

Non è emerso organicamente dai liberi mercati, ma è stato implementato e imposto da chi deteneva il potere.

Se quest'idea sembra radicale, considerate l'analogia: il denaro è un costrutto creato dallo stato, costruito per tenere le persone sotto controllo, proprio come Matrix ha schiavizzato l'umanità, trasformandola in batterie per un sistema invisibile.

Le parole di Morpheus sulla trasformazione degli umani in una batteria illustrano perfettamente questo concetto.

Ma quando Neo si confronta con questa realtà, la sua prima reazione è di orrore e rifiuto.

Rifugge l'idea, rifiutandola categoricamente:

«Non ci credo. Non è possibile.»

E forse, proprio ora state avendo la stessa reazione.

Forse questa idea sembra troppo inverosimile, troppo estrema per essere reale.

Ciononostante... potete essere completamente certi che sia sbagliata?

La sfida non è accettare o rifiutare questa idea a priori; la sfida è guardare il mondo così com'è, non come vorremmo che fosse.

Se ci riuscite, allora dovete essere come minimo disposti a chiedervi: e se tutto ciò che pensavate di sapere sul denaro fosse un'illusione?

Ma prima di giungere a una conclusione, diamo un'occhiata più da vicino ad alcune prove; prove che tutti noi abbiamo sperimentato direttamente.


Le prove

Fin dal momento in cui nasciamo, entriamo in un ambiente controllato, in cui la registrazione è obbligatoria e a ogni individuo viene assegnato un numero identificativo.

Questo sistema non viene definito prigione, ma piuttosto stato o Paese.

Eppure, nonostante la terminologia diversa, la struttura ha una somiglianza inquietante con un'istituzione progettata per gestire e contenere i suoi abitanti.

Ma a differenza delle prigioni tradizionali, questo sistema è molto più sofisticato. Qui non si viene semplicemente rinchiusi, ma viene fatto credere di essere liberi.

Non si vive in questo sistema gratuitamente. C'è un costo, un obbligo ricorrente che deve essere soddisfatto. Non chiamano questi pagamenti “spese di detenzione”, ma “tasse”.

Anche se si è tenuti a pagare, si ha poco o nessun controllo su come il denaro viene speso.

E a peggiorare le cose, per ottenere il denaro necessario a pagare queste tasse, bisogna prima lavorare all'interno del sistema stesso.

L'economia è strutturata in modo tale che si debba guadagnare la valuta statale, che può poi essere utilizzata per pagare le tasse.

Non c'è alternativa. Almeno non uno che non implichi la minaccia di prigionia o violenza.

Ma non finisce qui.

Il sistema non si limita a esigere il vostro lavoro, ma vi incoraggia anche a indebitarvi.

Vi presenta nuovi prodotti scintillanti, nuovi lussi, nuove promesse, invogliandovi a indebitarvi ulteriormente, assicurandosi che rimaniate legati al sistema, dipendenti dalla sua valuta e intrappolati in un ciclo da cui è quasi impossibile uscire.

A differenza di una prigione fisica, dove i confini sono visibili, i muri di questo sistema sono invisibili, ed è questo che li rende così efficaci.

Potreste credere di essere liberi di muovervi, ma provate ad andarvene senza la documentazione richiesta: un passaporto, un visto, o un'autorizzazione.

I vostri movimenti sono tracciati, monitorati e limitati.

In alcuni casi determinate “strutture” – che siano imposte dalla nazione, dalla normativa, o da vincoli economici – non vi permettono affatto di andarvene.

Ciononostante la forma di controllo più efficace non è la forza, ma la distrazione.

Lo stato fornisce notizie, intrattenimento e un coinvolgimento infinito, assicurandosi che la maggior parte delle persone non si accorga nemmeno dell'esistenza dei muri.

Infatti sono così abili in questo che la stragrande maggioranza degli individui non farà mai un passo indietro, non si fermerà mai abbastanza a lungo per riconoscere la struttura per quello che è veramente.


La dissonanza cognitiva in tutto ciò

Ora, alcuni di voi potrebbero pensare: questo non è davvero il denaro, è solo gergo della MMT. E altri potrebbero credere che se fosse vero, il sistema sarebbe già crollato.

Ma ricordate, inevitabile non significa imminente. I sistemi non crollano da un giorno all'altro. Resistono per decenni, secoli, persino millenni prima che i loro difetti intrinseci li conducano al loro inevitabile collasso.

Quindi, dopo aver esaminato le prove – dopo aver considerato la natura del sistema in cui viviamo – avete cambiato idea?

Riuscite a vedere lo schema, o detestate solamente ciò che implica?


Liberarsi

Comprendere il denaro come meccanismo di controllo non significa rifiutare categoricamente l'idea del libero mercato o di denaro basato sul mercato.

Richiede invece consapevolezza situazionale: la capacità di riconoscere e gestire le strutture che plasmano i sistemi finanziari, anziché accettarle ciecamente come verità immutabili.

Il libero mercato e la moneta basata sulle merci possono effettivamente essere ideali, ma la realtà racconta una storia diversa: una storia in cui i sistemi monetari sono in gran parte centralizzati, manipolati e progettati per mantenere le strutture di potere.

Riconoscere questa realtà non significa ammettere la sconfitta; significa comprendere il gioco a cui si sta giocando in modo da potervi partecipare alle proprie condizioni, anziché essere un partecipante passivo in un sistema che non è mai stato costruito per il proprio beneficio.

La natura del denaro è intrinsecamente dualistica.

A volte è una merce scelta dal mercato, che emerge organicamente dal libero scambio di beni e servizi; altre volte è un token imposto dallo stato, richiesto dai poteri sovrani come mezzo esclusivo per saldare obblighi come le tasse.

E, in molti casi, è entrambe le cose allo stesso tempo: un ibrido di controllo statale e valore guidato dal mercato che esiste all'interno di un quadro che pochi si soffermano a mettere in discussione.

Niente di tutto ciò intende screditare il libero mercato o il ruolo duraturo dell'oro.

Al contrario, la storia ha dimostrato ripetutamente che l'oro e i principi di una moneta solida forniscono una base più stabile e affidabile per il commercio e la conservazione della ricchezza.

Se fosse data la possibilità di scegliere, la maggior parte delle persone preferirebbe un sistema in cui i mercati, piuttosto che gli stati, determinano cosa funziona come moneta.

Ma questo non è il mondo in cui viviamo oggi.

Ignorare questo fatto significa rimanere ciechi di fronte alle forze che plasmano la finanza globale, rendendosi vulnerabili alle mutevoli maree della politica monetaria, dell'intervento economico e del controllo centralizzato.

Ora più che mai, le convinzioni dogmatiche su cosa dovrebbe essere il denaro non devono offuscare la nostra comprensione di cosa sia realmente il denaro.

Negli anni a venire la capacità di pensare in modo critico, di adattarsi e di rimanere consapevoli dell'evoluzione delle realtà finanziarie non sarà solo preziosa, ma sarà probabilmente essenziale per la sopravvivenza finanziaria.

Piuttosto che aggrapparci a un quadro ideologico che non è più in linea con la realtà, dobbiamo coltivare una mentalità che ci permetta di vedere il mondo così com'è, non come vorremmo che fosse.

E la consapevolezza situazionale è il superpotere definitivo nei mercati volatili: un potere che, se padroneggiato, può non solo aiutare a sopravvivere, ma anche a prosperare negli anni a venire.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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