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martedì 26 novembre 2024

Il futuro dell'oro dipenderà dalla Cina

Ricordo a tutti i lettori che su Amazon potete acquistare il mio nuovo libro, “Il Grande Default”: https://www.amazon.it/dp/B0DJK1J4K9 

Il manoscritto fornisce un grimaldello al lettore, una chiave di lettura semplificata, del mondo finanziario e non che sembra essere andato "fuori controllo" negli ultimi quattro anni in particolare. Questa è una storia di cartelli, a livello sovrastatale e sovranazionale, la cui pianificazione centrale ha raggiunto un punto in cui deve essere riformata radicalmente e questa riforma radicale non può avvenire senza una dose di dolore economico che potrebbe mettere a repentaglio la loro autorità. Da qui la risposta al Grande Default attraverso il Grande Reset. Questa è la storia di un coyote, che quando non riesce a sfamarsi all'esterno ricorre all'autofagocitazione. Lo stesso è accaduto ai membri del G7, dove i sei membri restanti hanno iniziato a fagocitare il settimo: gli Stati Uniti.

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di Brendan Brown

È difficile esagerare l'importanza della Cina nel futuro dell'oro, anche se la relazione non è monocausale. L'attuale corso di Pechino sia in politica economica che geopolitica da quando la sua gigantesca economia in bolla si è trasformata in bust, a partire dal 2020 circa, ha avuto un impatto enorme sulla performance super-forte dell'oro. Al contrario, se il bust dovesse in qualche modo innescare un trionfo della libertà economica e politica in Cina, un continuo aumento dell'oro dipenderebbe, molto probabilmente, da un ulteriore crollo della fiducia generale nella moneta fiat.

Le radici della dipendenza dell'oro dalla Cina non figurano affatto nell'analisi convenzionale dell'FMI, soprattutto alla luce degli “investimenti sbagliati” in tal Paese. Secondo suddetta analisi l'enorme perdita di ricchezza privata, corrispondente all'improvvisa obsolescenza economica di 80 milioni di appartamenti vuoti, ha causato un forte aumento del surplus di risparmio nel settore privato della Cina, ponendo una doppia minaccia di deflazione: interna e squilibrio commerciale con il resto del mondo.


I mercati sono la soluzione

Come ridurre questa minaccia (secondo l'FMI)? I policymaker di Pechino devono scatenare un gigantesco stimolo fiscale e monetario. E non devono intraprendere azioni che alimenterebbero un surplus commerciale cinese sempre più grande sulla scia dello scoppio della bolla.

La premessa di queste prescrizioni è sbagliata, dato che non lascia spazio alla proverbiale mano invisibile. Sì, la rivelazione di investimenti sbagliati va di pari passo con una perdita diffusa di benessere percepito in Cina e ciò significa in primo luogo un'intorpidimento della spesa al consumo. La mano invisibile, in un'economia di mercato ben funzionante con moneta sana/onesta, incentiva nuova spesa in conto capitale nel bel mezzo della distruzione dello stesso.

Un calo dei saggi salariali in settori importanti dell'economia, accompagnato da un ampliamento delle opportunità di profitto percepite, porta a una ripresa degli investimenti aziendali, molti dei quali in nuove aree di attività. Il bust, e la conseguente cancellazione dello stock di capitale, significa che la Cina tornerebbe nella lista delle economie di mercato emergenti, dove il capitale è più scarso come fattore di produzione. In questa situazione attirerebbe maggiori afflussi di capitale con una controparte in surplus commerciali più piccoli o persino deficit commerciali.

Più in generale, in un'economia cinese post-bolla e con moneta sana/onesta, molti prezzi di beni e servizi scenderebbero ben al di sotto del loro percorso di lungo periodo, incentivando individui e aziende ad anticipare la spesa. I keynesiani che denigrano la “deflazione” non riescono a unire questi puntini e invece accolgono con favore gli aumenti dei prezzi, sintomatici invece di nuove restrizioni all'offerta.

Ci sono pochi indizi che la proverbiale mano invisibile del mercato operi in Cina nei modi descritti. Gli investitori stranieri, soprattutto negli Stati Uniti, sono altamente avversi al rischio per quanto riguarda l'investimento di capitale nell'economia cinese post-crisi, sia a causa dell'atteggiamento ostile di Pechino, sia per paura delle azioni delle autorità statunitensi.


Il regime cinese vede una maggiore inflazione come soluzione

In considerazione delle effettive restrizioni estere alla crescita delle esportazioni cinesi e dei gravi ostacoli a una ripresa spontanea degli investimenti aziendali, i policymaker di Pechino vedono solo una possibile via d'uscita dalla crisi economica: un aumento della spesa statale pagata tramite una tassazione camuffata (inflazione e repressione finanziaria).

La prospettiva di una probabile inflazione diventa ancora più forte se prendiamo in considerazione la stretta sui redditi reali in Cina dovuta all'intensificarsi della guerra economica contro gli Stati Uniti. Redditi ridotti senza una solida speranza di miglioramento in vista contribuiscono al malcontento socio-politico. La gerarchia a Pechino lo contrasterà con il cosiddetto stimolo monetario o con misure di economia pianificata.

Non c'è da stupirsi se i risparmiatori cinesi vedano l'oro come un rifugio sicuro, molto più del dollaro. I risparmiatori cinesi, come altri risparmiatori stranieri, sono anche consapevoli che gli Stati Uniti agiranno, ove possibile, contro gli istituti di deposito locali sospettati di finanziare attività proibite (ad esempio, aiutare l'economia russa). Sì, c'è la possibilità di cercare rifugio nello spazio digitale delle criptovalute, sebbene questo sia stato oggetto di divieti in Cina per molti anni.


Una rete di “bullion bank” con sede in Cina?

Le autorità cinesi non hanno problemi con la “fuga verso l'oro”, dove i settori privato e governativo detengono il metallo giallo in misura maggiore rispetto a qualsiasi altra nazione, compresi gli Stati Uniti; le partecipazioni totali private e statali arrivano fino al 15% dello stock aurifero estratto in tutto il mondo. Forse puntano sul fattore psicologico: detenere oro è sinonimo di benessere per il cittadino comune e questo potrebbe smorzare il malcontento socio-politico.

È possibile che le autorità cinesi possano portare la loro sponsorizzazione dell'oro come porto sicuro a un livello superiore: tollerare o addirittura incoraggiare la crescita di una rete di pagamenti basata sull'oro. Infatti ciò consisterebbe in istituti di custodia che emettono certificati di deposito con un'elevata copertura obbligatoria in oro fisico (anche il 100% per i certificati più sicuri). Questa rete di pagamenti potrebbe estendersi a Paesi amici della Cina (che rifiutano di schierarsi con gli Stati Uniti nella politica commerciale), molti dei quali facenti parte dei mercati emergenti. Shanghai sarebbe il probabile punto di consegna in questa rete per l'oro fisico.


Le opzioni limitate del Giappone

Per ovvie ragioni, in quanto alleato degli Stati Uniti, il Giappone non potrebbe far parte di tale rete. In generale, la domanda di oro come rifugio ha una componente asiatica crescente e importante, incluso il Giappone. Quest'ultimo si trova esposto al pericolo in una guerra economica tra Stati Uniti e Cina. Ad esempio, le azioni degli Stati Uniti contro le importazioni dalla Cina potrebbero avere una ricaduta sulle imprese cinesi che vendono in Paesi terzi, e il Giappone è in cima alla lista. Gli investitori giapponesi hanno tutte le ragioni per temere che uno yen a buon mercato e un'inflazione monetaria diventerebbero la risposta principale del loro governo, soprattutto dati i suoi enormi debiti.

A differenza della Cina, i titoli denominati in dollari detenuti in Giappone non sono soggetti a rischi politici e hanno funzionato bene come rifugio negli ultimi anni. Ciononostante potrebbero sorgere dubbi tra i giapponesi sul fatto che un percorso a senso unico possa continuare indefinitamente e ci sono scenari in cui le relazioni tra Tokyo e Washington potrebbero diventare molto più tese. Nonostante gran parte del dibattito pubblico sulla vicinanza tra Stati Uniti e Giappone, una terza via per Tokyo non è preclusa. Uno scenario plausibile sarebbe quello in cui le frizioni tra Stati Uniti e Giappone, tra cui la continua e crescente dipendenza di quest'ultimo dal petrolio e dal gas di Sakhalin, potrebbero mettere in discussione la partecipazione del Paese nipponico a una risposta militare contro la potenziale aggressione cinese a scapito di Taiwan.

In conclusione: l'enorme importanza della Cina per il futuro dell'oro non dipende solo dal suo impoverimento a causa della guerra economica contro gli Stati Uniti e dalla devastazione degli investimenti sbagliati, dipende anche dalla domanda come rifugio sicuro tra i risparmiatori in Asia orientale, consapevoli dei rischi derivanti dalla guerra economica tra Cina e Stati Uniti.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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mercoledì 4 settembre 2024

I mercati tremano mentre il capitale monopolista persegue un colpo di stato attraverso il settore tecnologico

 

 

di Brendan Brown

Si nota una grave omissione nell’elenco dei sospetti responsabili del terremoto di inizio agosto nei mercati globali: il cosiddetto “capitale monopolistico” capace di stimolare un cambiamento tecnologico significativo ed eludere il potenziale controllo benevolo da parte della proverbiale mano invisibile del libero mercato.

Nel valutare l’accusa contro il capitale monopolistico, è importante il concetto di rivoluzione e la sua differenziazione da un colpo di stato. La rivoluzione inizia dal basso in mezzo a un’ondata di nuove idee e azioni individuali; il suo continuo progresso significa, ad un certo punto, un ribaltamento dello status quo. Un colpo di stato, al contrario, descrive un cambiamento di sistema determinato da un complotto da parte di un gruppo all’interno delle attuali élite.

La distinzione è forse più evidente nel caso della politica. Ryan McMaken ha sottolineato come la “Rivoluzione d’Ottobre del 1917 in Russia”, in cui i bolscevichi presero il potere, fu un colpo di stato e non una rivoluzione. Possiamo estendere il concetto anche al cambiamento tecnologico.

Le grandi rivoluzioni tecnologiche dei tempi moderni, forse già dalla stampa fino alla digitalizzazione, sono tutte iniziate dal basso. Nella fase iniziale hanno incluso una grande partecipazione di innovatori che erano in concorrenza in tutte le fasi, dalla progettazione di base alle applicazioni finali. Anche la concorrenza con la tecnologia pre-rivoluzionaria rimaneva feroce: una serie di concorrenti che utilizzavano le tecnologie precedenti dei beni strumentali esercitavano un freno all’adozione precipitosa e dispendiosa di nuove tecnologie ancora non sperimentate e sottosviluppate, operando audaci tagli dei prezzi in modo da salvare parte dei rendimenti nonostante l’obsolescenza.

Prendiamo in considerazione l’alternativa a tale rivoluzione dal basso: il cambiamento tecnologico guidato dall’alto, sebbene con innovazioni ancora spontanee in alcune aree di applicazione. I monopolisti, gli oligopolisti, o i governi sono quindi responsabili del processo di introduzione di nuove tecnologie, il che significa un colpo di stato piuttosto che una rivoluzione. Il processo presenta rischi particolari, come vedremo nel caso presente dell’Intelligenza Artificiale (IA).

Le grandi aziende tecnologiche esistenti che controllano già le piattaforme gateway per Internet stanno giocando un ruolo chiave sia nelle innovazioni tecniche (sviluppando i modelli linguistici), sia nell’impiego di ingenti capitali per implementarle. La spesa di sole 5 grandi aziende tecnologiche – Alphabet, Apple, Amazon, Meta e Microsoft – per l’intelligenza artificiale è stata pari a $60 miliardi nel secondo trimestre del 2024, in aumento del 65% rispetto all’anno precedente.

I commentatori sottolineano l’importanza della FOMO (paura di perdere qualcosa): gli attuali monopolisti temono l’erosione dei profitti da parte dei nuovi entranti nel settore tecnologico se non agiscono per primi, salvaguardando le “kill zone” attorno ai loro prodotti e servizi esistenti. Sì, ci sono molti unicorni tra le start-up che cercano di applicare l’intelligenza artificiale, ma questo è molto più a valle nel processo di cambiamento tecnologico e non rappresenta una minaccia per il profitto dei monopolisti tecnologici. Infatti è vero il contrario, data la probabile struttura delle tariffe di monopolio per l’accesso agli input chiave.

I commentatori e anche i grandi economisti si sono esposti all’accusa di ossequiosa acquiescenza di fronte al cambiamento tecnologico, qualunque sia la sua forma. Alcuni hanno lodato il ruolo del potere monopolistico nell’accelerare il processo. Possiamo risalire alla conversione di Schumpeter, a differenza dei suoi primi scritti, quando disse che il potere monopolistico temporaneo è benefico nell'intensificare il processo di distruzione creativa e il cambiamento tecnologico.

L’ossequiosità evidente negli atteggiamenti sociali nei confronti di coloro che guidano il cambiamento tecnologico, anche se brutto sotto tutti gli aspetti chiave, può essere spiegato dalla percezione che la rivoluzione tecnologica sia intrinseca al modo in cui il capitalismo costruisce la prosperità nel tempo. Conosciamo tutti quei grafici che mostrano l'esplosione della crescita economica negli ultimi duecento anni e che accompagnano il nuovo fenomeno delle ondate di cambiamento tecnologico.

Tuttavia tutto ciò non vuol dire che le rivoluzioni più grandi e rapide siano sempre una cosa buona. La mano invisibile del mercato influenza il ritmo e la portata del cambiamento tecnologico in modo da massimizzare il possibile tenore di vita nel tempo, ma questo non significa né addentrarsi troppo velocemente nella foresta dell’ignoto piuttosto che trarre vantaggio dal passare del tempo per conoscere gli aspetti negativi, né abbandonare le tecnologie precedenti che significano l’immediata obsolescenza del capitale sociale preesistente. Non vi è alcuna garanzia che in ogni occasione la mano invisibile riuscirà in questaa missione – ma per quanto riguarda la democrazia possiamo dire che rappresenta una proposta migliore rispetto alle alternative.

L’evidenza empirica a favore di condizioni non competitive che stimolano il cambiamento tecnologico è, nella migliore delle ipotesi, ambigua. Inoltre dovremmo diffidare degli economisti che affermano come una tautologia che un progresso tecnologico più rapido è sempre meglio di un progresso tecnologico più lento. La mano invisibile dovrebbe frenare oltre che incentivare, le forze di mercato determinano il ritmo del cambiamento tecnologico, inclusa l’applicazione in modo altamente decentralizzato (non tra una cabala di oligopolisti) di una vasta gamma di attività economiche a livello aziendale.

Anche in presenza di una moneta sana/onesta e mercati altamente competitivi è possibile che la mano invisibile prenda il sopravvento su gravi errori nel percorso del cambiamento tecnologico. Ovviamente all’inizio tutti potrebbero non riuscire a prevedere gli intoppi e i grandi costi che ne conseguirebbero. E i guardrail del capitalismo del libero mercato potrebbero cedere nel contesto della nuova tecnologia, consentendo la formazione di potenti monopoli e il verificarsi di molti illeciti, soprattutto per quanto riguarda il calpestio dei diritti di proprietà preesistenti (inclusa la proprietà di informazioni private).

Illustriamo queste preoccupazioni parlando della rivoluzione informatica, iniziata negli anni '90 e in condizioni inizialmente altamente competitive, ma quasi continuamente in condizioni di inflazione monetaria. Non è plausibile che la portata della vulnerabilità del nuovo software ai virus  fosse evidente nei primi anni – o l’entità delle risorse che dovevano essere impiegate nella difesa e le possibili inadeguatezze. Tuttavia una volta che la reale entità dei costi diventa evidente, non si può tornare indietro.

L’inflazione monetaria ha paralizzato, o distorto seriamente, la mano invisibile. Una caratteristica dell’inflazione dei prezzi degli asset è la ricerca di rendite. Soprattutto in un contesto di tassi d'interesse molto bassi, gli investitori rimangono estasiati dalla possibilità che emerga un flusso di rendite monopolistiche a lungo termine; le aziende che promettono questo come parte della loro narrativa speculativa godono di un premio. La portata del monopolio nella rivoluzione informatica è nota: effetti di rete e creazione di piattaforme gateway. E la persistente inflazione dei prezzi degli asset ha favorito la crescita del capitale monopolistico. Gli investitori affamati di rendimenti hanno messo in palio grandi premi sul capitale delle imprese per raggiungere un flusso di rendite monopolistiche a lungo termine.

Negli ultimi anni, con l’avvento dell’intelligenza artificiale, i capitalisti monopolisti hanno acquisito nuove possibilità per pianificare un colpo di stato tecnologico. Una rivelazione sulla portata della malevolenza è ora evidente nella disputa legale tra Elon Musk, come co-fondatore e finanziatore chiave originale di Open AI, e il suo amministratore delegato Sam Altman. Musk accusa Altman di aver sostenuto ingannevolmente che Open AI fosse un istituto di ricerca senza scopo di lucro e non un'impresa che successivamente sarebbe stata ceduta a Microsoft.

Non è plausibile che i colpi di stato guidati dai monopoli portino a un ritmo ottimale di progresso tecnologico che invece potrebbe emergere con una moneta sana/onesta e un capitalismo competitivo. Sul mercato ha regnato un ottimismo estremo riguardo ai potenziali profitti di monopolio (in questo esempio tramite Chat GPT) derivanti da tali “complotti tra oligopolisti” – da qui tutto il brusio sui magnifici sette e sulla produttività che ci aspetta.

Il pessimismo però può scoppiare all’improvviso, come abbiamo visto all’inizio di agosto. Il bambino disinformato può gridare che l'imperatore è nudo. Quale sarà il ritorno di quelle decine di miliardi di investimenti effettuati dai monopolisti sull’intelligenza artificiale? Tali dubbi si moltiplicherebbero se l’inflazione monetaria stesse effettivamente perdendo forza, forse perché il ritmo dei prezzi degli asset non è più al ribasso dato che le condizioni di offerta si sono generalmente normalizzate a due o tre anni dalla pandemia. Le autorità monetarie dovranno lavorare di più (in termini di esercizio della restrizione monetaria) per raggiungere il loro obiettivo di inflazione al 2% rispetto a quanto avvenuto nel periodo 2023-2024.

In conclusione: il cambiamento tecnologico legato all’intelligenza artificiale si sta verificando sotto il controllo dei monopolisti che governano le grandi piattaforme gateway e ha le caratteristiche di un colpo di stato piuttosto che di una rivoluzione. Il colpo di stato è stato caratterizzato da un’ondata di enormi spese da parte delle Big Tech. Di recente è emersa la preoccupazione che ciò sia andato ben oltre ciò che può produrre buoni rendimenti in futuro, quindi si prospetta una notevole instabilità finanziaria e un brusco risveglio economico.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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lunedì 29 aprile 2024

Il mito del tasso d'interesse di equilibrio

 

 

di Brendan Brown

Ragionare a “mente calda” è una scorciatoia che corrompe i processi mentali e che il defunto Daniel Kahneman identificò attraverso esperimenti nel processo decisionale finanziario. La rapidità di pensiero affligge la risposta alla nuova minaccia dell’inflazione dei prezzi. Tale minaccia era emersa ancor prima che l’inflazione dei prezzi post-crisi sanitaria, scoppiata alla fine del 2022, si raffreddasse rispetto ai livelli di picco. L’impennata più recente dei prezzi si è materializzata anche se i suoi sintomi nei mercati dei beni sono stati attenuati dall’inversione delle precedenti dislocazioni sul lato dell’offerta.

Un tema spesso citato, e che illustra l’attuale angoscia inflazionistica, suggerisce che la FED inizierà a tagliare il suo tasso di riferimento entro l’estate di quest'anno. Secondo alcuni di coloro che temono l’inflazione dei prezzi, questa politica dei tassi striderebbe con un’economia americana che è straordinariamente forte – almeno secondo l’esercito di osservatori di dati le cui dimensioni sono aumentate in risposta al mantra ufficiale secondo cui le decisioni monetarie della FED sono diventate strettamente “dipendenti dai dati”.

L’ex-segretario al Tesoro (sotto Clinton) e consigliere economico capo di Obama, il professor Larry Summers – ora uno dei principali collaboratori di Bloomberg TVdichiara categoricamente che il tasso d'interesse di equilibrio è salito ben al di sopra del livello degli anni 2000 e 2010, pertanto i piani della FED per “normalizzare i tassi ufficiali” aggraveranno il fenomeno inflazione.

In che modo questo è un esempio di ragionamento a “mente calda” difettoso? Nel rispondere dovremmo ricordare le osservazioni di Kahneman secondo cui la mente, nel prendere scorciatoie per facilitare una risposta rapida (in questo caso al pericolo percepito dell'inflazione dei prezzi), ignora i limiti della razionalità. Esempi di tali difetti includono l’eccessivo affidamento su campioni di piccole dimensioni e su ipotesi controverse, sebbene attualmente plausibili.

La piccola dimensione del campione è evidente in qualsiasi controversia sui tassi d'interesse di equilibrio. Esistono pochi periodi lunghi non sovrapposti e rilevanti ai fini della stima e il concetto di tasso di equilibrio è esso stesso un costrutto teorico a dir poco discutibile.


Il controverso “tasso d'interesse di equilibrio”

Il tasso d'interesse di equilibrio, per quanto ne sappiamo, avrebbe potuto essere anormalmente elevato per gran parte del quarto di secolo precedente la pandemia; le banche centrali hanno pilotato i tassi ufficiali molto al di sotto di tal livello.

Un’influenza chiave dietro l’elevato livello dei tassi d'interesse di equilibrio nel 1995-2020, come qui ipotizzato, è stata il boom (alcuni direbbero una bolla) nella costituzione delle catene di approvvigionamento industriali a livello mondiale. La rivoluzione della digitalizzazione aveva consentito il controllo micromanageriale su vaste aree geografiche e organizzative. Tutto ciò avvenne nel contesto dell'ingresso della Cina nell'OMC (come raccomandato al Congresso dal presidente Clinton nel 2000) e dell'accelerazione dell'integrazione economica regionale (compresa l'espansione del NAFTA e dell'UE dopo la caduta del muro di Berlino).


In un libero mercato i prezzi sarebbero scesi per 20 anni

In un sistema monetario sano/onesto, i prezzi al consumo sarebbero crollati nel corso di questi due decenni di costituzione delle catene di approvvigionamento internazionali, ma nulla di tutto ciò si è verificato con l’attuale standard dell'inflazione al 2%.

Le banche centrali hanno pilotato i tassi ufficiali per “contrastare la minaccia della deflazione”. La virulenta inflazione dei prezzi degli asset è diventata un ulteriore elemento motore della spesa aziendale, inclusa in questo caso non solo la costituzione delle catene di approvvigionamento internazionali ma anche più in generale la digitalizzazione per inseguire potenziali rendite di monopolio rese possibili dalla nuova tecnologia.

Uno degli esempi più estremi di tale distorsione monetaria si è verificato durante il periodo Bernanke/Yellen del 2013-2017. La bolla mondiale dei prezzi delle materie prime era scoppiata ed era stata originariamente alimentata dalle politiche monetarie e fiscali estreme della Cina nel 2009-2012, possibili solo nel contesto dell'inflazione monetaria alimentata dalla FED. Il crollo dei prezzi delle materie prime avrebbe dovuto significare un periodo di calo dei prezzi al consumo su un ampio arco temporale.


Invece abbiamo avuto un’inflazione dei prezzi degli asset

Invece Yellen/Bernanke hanno alimentato un’enorme inflazione dei prezzi degli asset, vantandosi di un tasso d'inflazione appena superiore allo zero. A sua volta il nuovo slancio dell’inflazione monetaria statunitense ha alimentato il boom della spesa per investimenti. Ora la rotta è stata invertita, pertanto non è chiaro il motivo per cui Summers dovrebbe avere ragione riguardo la sua ipotesi secondo cui il “tasso d'interesse di equilibrio” dovrebbe spostarsi a un livello più alto.

Infatti potremmo trovarci in un lungo periodo di tempo in cui questo tasso di equilibrio potrebbe scendere rispetto al periodo 1995-2020 e i debiti/deficit fiscali degli Stati Uniti non contraddicono questa conclusione. L’elevato debito pubblico statunitense, finanziato da diverse forme di tassazione schiacciante – tra cui la riscossione periodica della tassa sull’inflazione e altre forme di tassazione monetaria – difficilmente è una ricetta per il dinamismo economico. Al contrario, queste sono le caratteristiche di imperi un tempo prosperi e adesso in declino.


Le normative statali soffocano la crescita economica

Uno scenario decisamente non dinamico si profila all'orizzonte per gli Stati Uniti e per gran parte dell’economia mondiale sulla scia della Grande Inflazione Monetaria 1995-2024. Gli investimenti sbagliati in tutte le loro dimensioni vengono al pettine. Sì, l’intelligenza artificiale potrebbe essere uno stimolo alla crescita se davvero le forze dell’innovazione finissero nelle mani di coloro che trovano e sviluppano nuovi percorsi verso la fortuna economica. Tutto ciò, però, è tutt’altro che certo.

L’ormai lunga esperienza sulla rivoluzione tecnologica digitale con le sue caratteristiche speciali – chi vince prende tutto, soppressione del libero ingresso, corrosione dei diritti di proprietà (compresi i dati) – impone cautela. Non s'è rivelata un grande elemento motore per il tenore di vita nelle economie avanzate, in contrasto con gli indubbi vantaggi per le economie in via di sviluppo derivanti soprattutto dalla rivoluzione nelle catene di approvvigionamento mondiali.

E poi abbiamo le squallide prospettive per la seconda economia mondiale: la Cina. Sotto uno statalismo e una pesante repressione finanziaria, dove i timori di una futura povertà – soprattutto in età avanzata – spingono i risparmi a livelli record, il surplus netto di questa economia nel commercio di beni e servizi con il resto del mondo diventa gigantesco. Il corollario sono i massicci flussi di esportazioni di capitali dalla Cina, che influiscono negativamente sul livello di equilibrio mondiale dei tassi d'interesse.


Un paesaggio pericoloso davanti a sé

È ora di chiamare le cose col loro nome: quando ragioniamo a mente fredda piuttosto che a mente calda alla minaccia dell’inflazione, ci rendiamo conto che il concetto di “tasso d'interesse di equilibrio” è di scarso aiuto, se non nullo, alla nostra comprensione economica – a prescindere dalla persistente popolarità che ha goduto nei sistemi monetari fiat. È vero, nell'odierno sistema monetario le banche centrali formulano giudizi chiave sulla relazione tra il tasso ufficiale e il cosiddetto tasso neutrale, ma molto, se non tutto, questo è falso – sintomatico dell'attuale epoca oscura.

Tuttavia non vi è alcuna prospettiva che i sistemi monetari si allontanino dall’attuale diktat dei tassi di riferimento. Una tendenza al ribasso del tasso ufficiale, nonostante le proteste del professor Summers su Bloomberg TV, ci direbbe che l’attuale celebrazione del dinamismo economico statunitense sta ignorando le profonde controforze all’opera.

Ciò significherebbe un futuro meno inflazionistico di quanto molti temono oggi? No, ma è probabile che l’elevata inflazione futura arrivi a scatti: i prezzi generalmente virano verso l’alto e in gran parte in risposta a shock dell’offerta che non incontrano resistenza da parte del sistema monetario. E quando gli shock sull’offerta subiscono un’inversione, le banche centrali approfittano della situazione per potenziare l’inflazione monetaria piuttosto che consentire ai prezzi di ricadere verso il livello precedente allo shock.

Esempi di tali potenziali shock di offerta includono sconvolgimenti geopolitici, pandemie, carestie e altre disgrazie provocate da Madre Natura, caos sociale e politico interno ed espansione fiscale. Infatti dovremmo aspettarci che lo stato, incluso il sistema bancario centrale, sfrutti appieno questi episodi per avere l’opportunità di imporre periodi di dolorose tasse derivanti dall’inflazione e quindi frenare, almeno temporaneamente, una crescita inesorabile dell’ammontare reale del suo debito.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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martedì 12 marzo 2024

La morte del denaro facile è stata sopravvalutata

 

 

di Brendan Brown

I resoconti sulla fine dell’attuale ciclo di allentamento monetario, parafrasando Mark Twain, sono stati estremamente sopravvalutati. Le analisi di mercato contemporanee sono piene di commenti di come la FED e la BCE stiano ridimensionando la precedente volontà di un taglio dei tassi in primavera e lodano le banche centrali, in particolare la FED, per aver dimostrato indipendenza politica in vista delle elezioni.

Il quadro più ampio suggerisce il contrario: all’indomani della crisi sanitaria la politica monetaria è stata ancora una volta palesemente influenzata dalla politica.

Sì, sia negli Stati Uniti che in Europa, le banche centrali hanno avuto la faccia tosta di rivendicare il merito di aver rallentato l’aumento dei prezzi al consumo. La verità è che hanno approfittato dell’aumento dal lato dell’offerta derivante dall’attenuarsi delle dislocazioni durante la crisi sanitaria per perseguire un’inflazione monetaria continua, ma ora parzialmente camuffata. Con una moneta sana/onesta i prezzi al consumo sarebbero tornati ai livelli pre-pandemia; infatti alcuni vecchi sintomi – e anche alcuni nuovi – dell’inflazione degli asset nell’ultimo anno circa svelano l'arcano.


Quando il sistema bancario centrale promuove il denaro facile durante un anno elettorale

Una sequenza di tagli dei tassi prima delle elezioni non è essenziale per dimostrare una polarizzazione motivata politicamente, anche se alcuni episodi saltano palesemente all'occhio nel piccolo laboratorio della storia. Il più noto fu la linea di politica della FED durante la presidenza Arthur Burns nel periodo precedente la rielezione di Nixon nel novembre 1972, seguita un anno dopo dall'inizio di un crollo del mercato azionario e da una recessione. Meno evidenziato nei libri di storia, ma altrettanto significativo, è stato il ciclo di allentamento in vista delle elezioni americane nel 2004. 

Iniziò con la nomina da parte del presidente Geroge W. Bush del famoso neo-keynesiano Ben Bernanke a governatore della FED nell’ottobre 2002 e successivamente con la negoziazione di una proroga di metà mandato per Alan Greenspan come presidente. Il risultato: la politica monetaria intraprese un “percorso fortemente stimolatorio”, evidenziato dai tagli dei tassi fino a livelli allora anormalmente bassi. La continua crescita della produttività, guidata dalla rivoluzione informatica, e l’esplosione della globalizzazione incentrata sulla Cina, contribuirono a mantenere bassa l’inflazione dei prezzi al consumo almeno fino al giorno delle elezioni. All’epoca la conclusione della Grande Crisi Finanziaria era ancora lontana più di due anni.

L’attuale ciclo della politica monetaria non è radicato nei tagli dei tassi a livelli anormalmente bassi, piuttosto la grande decisione nella politica monetaria è stata quella di bloccare l’enorme perdita di potere d’acquisto del denaro durante la crisi sanitaria, pur continuando con un orientamento inflazionistico. Di conseguenza alla fine del 2023 il dollaro e l’euro hanno perso rispettivamente il 17 e il 15% del loro potere d’acquisto sin dalla fine del 2019.

Cosa si nascondeva dietro questa decisione? Ovviamente non esiste alcuna traccia scritta nella propaganda della FED (e della BCE) o nelle deliberazioni del Congresso (e del Parlamento). Gli indizi più importanti provengono dal silenzio di tutte le parti sulle considerazioni principali: l’agevolazione della spesa pubblica e l’imposizione di ingenti tasse tramite l’inflazione dei prezzi, la contropartita di un forte taglio del valore reale del debito pubblico al di sotto di una linea di tendenza in forte aumento. Sia chi nomina i governatori delle banche centrali che i ratificatori parlamentari/congressuali si sono uniti a tal processo decisionale.

Il proseguimento di una politica monetaria lassista può essere visto in vari sintomi dell'inflazione dei prezzi degli asset: temperature elevate in alcuni settori del mercato azionario, una crescita dilagante del credito privato e, sì, spread creditizi ai minimi storici nei mercati del credito pubblico ad alto rendimento (tranne per i titoli di qualità molto scadente). È vero, alcuni dati hanno indicato una certa resilienza superficiale, ma essi confondono solo le acque data la disfunzione del sistema monetario e la disintermediazione incentivata dalla burocrazia incalzante.


La strategia della FED

I banchieri centrali sono fermamente convinti che stanno portando avanti una linea di politica disinflazionistica, puntando il dito a tassi nominali elevati e rendimenti reali normalizzati nel mercato TIPS (Treasury Inflation-Protected Securities).

E a quanto pare non importa se i tassi d'interesse nominali siano una guida lacunosa per le condizioni monetarie, o se i rendimenti reali nel mercato TIPS potrebbero essere ben più bassi dopo un aggiustamento ai premi di liquidità; senza contare poi le distorsioni nel calcolo dell’IPC e il possibile ripudio delle clausole d'indicizzazione. I bassi spread creditizi ricordano un altro periodo di elevata inflazione monetaria accompagnata da alti tassi d'interesse nominali: la seconda grande inflazione del 1976-77 (che si sovrappose alla fallita campagna di rielezione del presidente Ford).

Quando e dove ha avuto luogo questa decisione politica di proseguire lungo la strada dell’inflazione monetaria? Nel caso delle nomine della FED, la rinomina di Powell all’inizio del 2022 rappresenta una componente importante della risposta. La Casa Bianca e i ratificatori del Senato hanno senza dubbio capito che questi individui non si sarebbero allontanati dal percorso più conveniente dal punto di vista politico, soprattutto quando era in corso un mega aumento della spesa fiscale.

Su questa strada non vi è alcuna ragione convincente per tagliare i tassi adesso. Un taglio potrebbe arrivare a metà anno per simboleggiare il trionfo sull’inflazione tornata in linea con gli obiettivi della banca centrale e un atterraggio morbido. Implicitamente il calcolo politico si è basato sul presupposto che gli elettori non avrebbero messo in dubbio il trionfo sull’inflazione dei prezzi e che avrebbero ignorato la perdita cumulativa di potere d’acquisto del denaro, sebbebe alcuni sondaggi suggeriscano il contrario.


La situazione in Europa

Nel caso dell’Europa il ciclo monetario influenzato dalla politica ha origine in Germania. Il potere di nomina, soprattutto da parte dell’egemone tedesco, ha svolto un ruolo chiave nell’esercitare un’influenza della politica sull'impostazione della politica monetaria.

Nel crepuscolo della sua amministrazione la cancelliera Merkel espresse il proprio sostegno a Christine Lagarde come nuovo presidente della BCE piuttosto che sostenere la linea più dura del presidente della Bundesbank, Jens Weidmann. Ciò coincideva con la strategia, alla fine fallita, del suo partito CDU di fare campagna elettorale per i voti del centrosinistra filoeuropeo piuttosto che dell'estrema destra. Poi, alla fine del 2021, il nuovo cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz ha nominato Joachim Nagel – il vice capo della sezione regolamentazione bancaria presso la BRI – presidente della Bundesbank invece di selezionare un accademico di tradizionale convinzione monetarista.

Le elezioni tedesche sono previste per il 2025, ma potrebbero svolgersi prima a causa dell’attuale crisi nei colloqui sul finanziamento del bilancio tra i partner della coalizione di governo. Le elezioni imminenti sono già una forza da non sottovalutare per spiegare la politica monetaria europea. Le grandi sfide per gli attuali partner della coalizione (SPD, Verdi, FDP) includono l’ascesa dell’estrema destra (ADP) e un nuovo partito populista nell’estrema sinistra.

Di conseguenza Berlino non prende sul serio la disinflazione, ma nei suoi messaggi presenta comunque una patina di rispetto per la moneta forte, in modo da non turbare gli elettori nostalgici dell’era del marco tedesco. Quindi non ha senso alcuna fretta di tagliare i tassi. Ogni capo della BCE, inclusa l’attuale ex-politica Christine Lagarde, esercita un’abile diplomazia su Berlino, dato che la Germania è fondamentale per la continuazione dell’Unione monetaria europea.

Con l’evolversi dell’apparente resistenza su entrambe le sponde dell’Atlantico nei confronti di tagli anticipati dei tassi, ci sono due importanti scenari alternativi da prendere in considerazione. Il primo è un accumulo endogeno di pressione che poi sfocerà in crisi finanziaria; il secondo prevede che l’inflazione dei prezzi degli asset acquisisca slancio nel corso dell’anno.

Le dinamiche politiche innescherebbero un taglio dei tassi in risposta a qualsiasi rischio percepito di deflazione dei prezzi degli asset. Le lezioni apprese dalla ritardata risposta monetaria ai terremoti creditizi iniziati nella primavera del 2007 sono ben note agli strateghi politici di oggi. Finora, però, non si registrano terremoti, ma difficoltà per le piccole banche non sistemiche negli Stati Uniti, in Germania, Svizzera e Giappone. Il problema è stato sempre il coinvolgimento in crediti inesigibili su immobili commerciali e gran parte del problema negli Stati Uniti è costituito da immobili adibiti ad uffici.

Il secondo scenario, caratterizzato da un’intensificata inflazione dei prezzi degli asset, non produrrebbe alcuna azione. Una virulenta inflazione dei prezzi degli asset si manifesterebbe sotto forma di nuove spinte speculative in importanti settori dei mercati insieme a un ulteriore calore nei mercati del credito. Questo accumulo di inflazione dei prezzi degli asset potrebbe andare di pari passo con un continuo calo dei dati pubblicati sull’indice dei prezzi al consumo, un precursore con un notevole ritardo rispetto all’altro sintomo dell’inflazione monetaria: l’aumento dell’inflazione effettiva dei prezzi al consumo. La logica nella politica sarebbe contraria a qualsiasi risposta preventiva.

In sintesi, l’attuale politica monetaria motivata politicamente potrebbe produrre una ricaduta in un’inflazione intensificata seguita da una crisi, forse ben oltre le imminenti elezioni. Oppure la deflazione dei prezzi degli asset potrebbe emergere prima delle elezioni e portare a una risposta monetaria immediata e forte.

L’entità dell’inflazione monetaria presente e futura e i tempi, o l’entità, dell’inflazione o della deflazione dei prezzi degli asset sono – come sempre – una questione di congetture per i contemporanei. Infatti questa volta le cose potrebbero essere ancora più difficili da prevedere a causa dei problemi legati ai dati e al grado di disfunzionalità del sistema monetario. Come dicono i francesi, plus ça change plus ç'est la même choose – più le cose cambiano, più restano uguali.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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lunedì 8 agosto 2022

Il lungo viaggio della BCE verso un crollo monetario è appena diventato molto più breve

 

 

di Brendan Brown

L'annuncio della BCE, giovedì 21 luglio, di un “nuovo strumento” per affrontare il “rischio di frammentazione” è a dir poco inquietante per il futuro dell'euro. L'idea è di prevenire l'emergere di un grave rischio di rottura per la zona Euro, poiché il tasso d'interesse ufficiale continuerà a salire nei prossimi trimestri verso la "neutralità".

Il capo Lagarde e i suoi colleghi sono determinati a prevenire questo processo che innescherà stress finanziario sotto forma di crisi per i governi deboli e il sistema bancario. Salvare l'euro dall'elevata inflazione deve andare di pari passo con il salvataggio dell'unione monetaria dalla disgregazione (rischio di frammentazione).

L'inaugurazione del nuovo strumento e il suo probabile utilizzo significa che "salvare l'euro" andrà a drenare, e non rafforzare, la fiducia nella moneta unica. Gli storici non trascureranno l'ironia di questo nuovo passo da gigante nel lungo viaggio dell'euro verso il crollo inflazionistico avvenuto proprio lo stesso giorno in cui Mario Draghi, predecessore della Lagarde, famoso per la sua affermazione spavalda sul "fare tutto il necessario per salvare l'euro", è stato costretto a dimettersi dalla carica di Primo Ministro italiano.

Il nuovo strumento, nato con il nome di “transmission protection instrument” (TPI), sarà il catalizzatore della piena trasformazione della BCE in una “bad bank” europea. Questa entità gode di un privilegio gigantesco: le sue passività sono in gran parte il denaro creato ex novo (sia sotto forma di banconote che come riserve bancarie) e che gode di enormi protezioni in quanto tale (corso legale) in tutti i Paesi membri dell'Unione Monetaria Europea.

Infatti dalla crisi dell'UME nel 2010-12, la BCE è stata l'agente che ha “socializzato” gran parte del debito statale e bancario dell'Italia (oltre a quello di Spagna, Portogallo e Grecia). Lo ha fatto emettendo passività monetarie in euro a fronte di acquisti di titoli di stato e prestiti a lungo termine (chiamati LTRO) nei corrispondenti sistemi bancari deboli (principalmente l'Italia).

Questa socializzazione ha creato tre grossi problemi per il futuro dell'euro.

Primo: la strada per tornare alla normalità monetaria implica sicuramente una contrazione della base monetaria (ora quasi il 50% del PIL della zona Euro rispetto al 27% negli Stati Uniti). Ma come ottenere questo risultato quando la BCE dovrebbe scaricare enormi quantità di prestiti sovrani e bancari sul mercato aperto per raggiungere tale scopo?

Secondo: con l'aumento dei tassi d'interesse, diventa sempre più problematico che i sopraccitati mutuatari deboli possano ripagare i loro prestiti alla BCE. I nuovi prestiti per pagare gli interessi sono un allarme rosso per quanto riguarda il pericolo d'insolvenza, sia sotto forma di default classico, sia di default per inflazione (riducendo così il valore reale del capitale). La popolazione europea a un certo punto dovrebbe allarmarsi per il pericolo di default dovuto all'inflazione, il quale si ripercuoterà nelle loro disponibilità di denaro emesso da questa bad bank.

Terzo: la tolleranza dell'opinione pubblica tedesca per questa trasformazione della BCE e del suo denaro potrebbe esaurirsi del tutto, cosa che potrebbe significare che la Repubblica Federale si ritirerà dall'unione. La Germania è stata fondamentale nel tenere insieme le sconsideratezze della BCE. In parte questo ruolo è dipeso dalla percezione pubblica (che la Germania fosse dietro la BCE e a tutte le sue potenziali perdite), anche se stiamo parlando di un pio desiderio piuttosto che di un fatto conclamato.

E poi c'è il sistema TARGET2 – un sistema di compensazione interbancario, ma in cui i saldi netti tra le banche centrali membri non vengono compensati. Il saldo creditizio della Bundesbank supera il 30% del PIL tedesco (corrispondente in gran parte ai debiti netti italiani e spagnoli; il saldo della Francia è approssimativamente a zero).

La Germania, tuttavia, può andarsene, un percorso non assurdo dato che le disponibilità della BCE in prestiti e titoli di stato emessi da banche e stati sovrani deboli ammontano a oltre il 100% del PIL tedesco. Nel quadro generale è da notare che nessun Paese membro, congiuntamente o disgiuntamente, garantisce i debiti monetari della BCE. Infatti l'unica garanzia significativa sarebbe una promessa di sostenere il potere d'acquisto del denaro.

Se la Germania esce dall'UME, le passività monetarie della BCE varranno molto meno in termini reali (attraverso il crollo della valuta e l'inflazione). In definitiva, queste passività monetarie potrebbero cessare di essere monetarie e ciò si verificherebbe se l'unione monetaria finisse. A quel punto le passività monetarie della BCE dovrebbero trovare un prezzo di mercato (in termini di potere d'acquisto reale), come la carta di una gigantesca bad bank ormai priva di funzione monetaria.

Qualsiasi scenario di rottura ha costi enormi, comprese cancellazioni di attivi per la popolazione tedesca. La domanda è: se non ora, quando? Questi costi saliranno di più man mano che tale decisione di scioglimento sarà rimandata nel tempo.

Nessuno si aspetta che l'attuale governo di coalizione a Berlino prenda una decisione del genere, ma le valutazioni di mercato, inclusa la moneta, riflettono la possibilità di una futura catastrofe. I pericoli qui evidenziati, di un definitivo collasso monetario, sono peggiorati a causa del nuovo strumento da parte della BCE.

Secondo il comunicato stampa ufficiale sul TPI, la BCE, a propria discrezione (con il voto del suo consiglio direttivo), può impegnarsi in acquisti illimitati di asset da qualsiasi Paese membro se considera l'andamento del suo differenziale di credito (diciamo relativo ai Bund tedeschi) come disallineati "dai fondamentali". Nel prendere tale decisione, la BCE verificherà con la Commissione europea l'evoluzione delle finanze pubbliche in un determinato Paese e verificherà anche la sostenibilità economica generale nelle sue diverse dimensioni.

Se, per qualsiasi motivo, lo spread italiano (rendimenti dei titoli di stato italiani rispetto a quelli tedeschi) si allargherà improvvisamente, forse perché i mercati diffidano della direzione politica o percepiscono che gli istituti di credito italiani si trovano in una nuova situazione desolante, allora la BCE potrà aprire i rubinetti. Sì, sterilizzerà il nuovo prestito, il che significa presumibilmente sbarazzarsi di asset tedeschi e olandesi nel proprio bilancio per fare spazio ad esempio a quelli italiani, diventando ancora di più una bad bank.

Ci sono momenti decisivi nella storia monetaria. Le conseguenze del 21 luglio saranno probabilmente uno di questi per quanto riguarda il futuro monetario europeo, i cui problemi sono quindi peggiorati.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


lunedì 18 ottobre 2021

L'Europa e la sua economia fragile nell'anno in cui termina l'era Merkel



di Brendan Brown

Mentre Angela Merkel prepara la sua uscita dalla cancelleria di Berlino, in Europa risuona un falso allarme su un imminente pericolo di "stagflazione". Questo fenomeno, come i draghi, appartiene alla mitologia piuttosto che a circostanze storiche o attuali reali.

Il rumore di fondo impedirà che si senta l'allarme sul vero pericolo del diluvio monetario post-Merkel in Europa: una crisi del debito francese e italiana che culminerà nel crollo dell'euro.

Il mito della stagflazione ha origine dall'esperienza degli anni '70 negli Stati Uniti. Le medie dei dati raccolte durante il periodo 1973-80, compresa una virulenta inflazione monetaria ed un boom economico (1976-78) racchiusi tra due recessioni con shock di approvvigionamento energetico, mostrano un'elevata inflazione dell'indice dei prezzi al consumo (IPC) seguita da una recessione economica.

Avanti veloce fino al presente: l'inflazione europea dell'IPC è aumentata nel corso dell'anno (3% su base annua a settembre), pur rimanendo al di sotto di quella statunitense, in parte a causa di un peso basso o nullo per le abitazioni e le auto di seconda mano. Tuttavia le reali prestazioni economiche in Europa sono state seriamente inferiori se correggiamo le illusioni ottiche legate alla fine dei lockdown.

Ora una crisi effettiva e incombente delle forniture di gas naturale in Europa (tra previsioni di carenza di approvvigionamento russo e produzione interna frenata dalla politica ambientale) potrebbe significare che i consumatori di alcuni Paesi dovranno affrontare un raddoppio delle bollette e anche interruzioni dei servizi. Il presidente russo Vladimir Putin, con il gasdotto Nord Stream 2 verso la Germania ora completato, potrebbe peggiorare la crisi per l'Europa orientale e meridionale. Alcuni esperti sospettano che Gazprom stia già manipolando i prezzi del gas.

Questa crisi del gas si aggiunge al peggioramento dei problemi dei colli di bottiglia nell'economia globale. Il numero suggerito per l'IPC dell'area Euro questo inverno è di circa il 5% anno/anno. Nel frattempo le prospettive di ripresa economica sbiadiscono. Tra i grandi Paesi europei solo la Germania quest'autunno è tornata ai livelli di PIL pre-2019.

Anche il capo della Banca Centrale Europea, Christine Lagarde, ha dovuto prendere atto dell'allarme stagflazione nella sua conferenza stampa del 9 settembre, strategicamente indetta in vista delle elezioni generali tedesche (26 settembre). Facendo una lieve concessione alla Bundesbank, ha annunciato un'insignificante riduzione del quantitative easing.

Questo consumato ex-politico francese, sensibile all'importanza dell'asse BCE-Berlino nel sostenere lo status quo dell'Unione Monetaria Europea (UEM), è riuscito a rimuovere l'euro come argomento di dibattito tra i principali partiti. Né l'UEM né l'allarme stagflazione (né il presidente Putin!) sono stati protagonisti del dibattito televisivo finale (12 settembre) tra i tre candidati alla cancelliera (Unione Cristiano Democratica, Partito Socialdemocratico e Verdi). Inoltre i recenti annunci della Lagarde su un "inverdimento" del quadro di politica monetaria della BCE hanno senza dubbio soddisfatto i Verdi.

Se ci fosse stata una domanda sulla stagflazione, la risposta corretta di uno qualsiasi dei candidati sarebbe stata che questo non era il vero pericolo.

Stagflazione è un termine fuorviante coniato negli anni '70 dai critici dello "stimolo" monetario targato Arthur F. Burns, seguito in Europa da Paesi al di fuori dell'orbita tedesca. Questi critici, nelle loro comprensibili preoccupazioni, sono stati troppo rapidi nel sottolineare un epilogo di alta inflazione e alta disoccupazione senza prestare attenzione ai dettagli piccoli ma importanti. L'elevata inflazione media dell'IPC nel 1973-1980 ha trasformato lo stimolo della politica monetaria in un boom inflazionistico (1976-1978). In particolare, la Francia in quel decennio viveva un miracolo economico.

Oggi, invece, c'è una diffusa sclerosi economica in gran parte derivante da una lunga inflazione monetaria che ha stimolato investimenti sbagliati e l'avanzata del capitalismo clientelare. Sì, dovremmo valutare la minaccia di questa lunga inflazione monetaria, aggravata dalla BCE e condonata dal cancelliere Merkel. Ciononostante è un diversivo erroneo riesumare diagnosi popolari, ma errate, degli anni '70.

L'episodio originale di "stagflazione" negli anni '70 iniziò con l'embargo dell'Organizzazione del Medio Oriente dei Paesi esportatori di petrolio e il relativo quadruplicamento del prezzo del petrolio all'indomani della guerra dello Yom Kippur (autunno 1973). L'inflazione dell'IPC accelerò all'indomani di questo episodio nonostante una recessione economica incalzante. Infatti l'inflazione monetaria a quel tempo si stava già trasformando in disinflazione monetaria, con Burns che aveva imposto una stretta monetaria nell'estate del 1973.

Un balzo dei prezzi al consumo dovuto a problemi nell'offerta non è sintomo di inflazione monetaria e si verificherebbe anche in un sistema monetario sano. Ma una volta risolti i problemi, i prezzi al consumo dovrebbero scendere. Invece Burns spinse sull'acceleratore dell'inflazione monetaria. Forti sintomi di inflazione dei prezzi di beni e asset emersero nel 1976-78 nel mezzo di un boom economico globale e statunitense. Poi, quando la politica monetaria iniziò ad essere ristretta, l'esplosione della rivoluzione iraniana portò un nuovo shock per l'offerta di petrolio, causando una spirale al rialzo dei prezzi proprio mentre l'economia stava rallentando.

Avanti veloce agli allarmi che ora suonano su una stagflazione nel 2021.

In Europa, come negli Stati Uniti, gran parte del picco dell'inflazione IPC di quest'anno è stato determinato da "problemi dal lato dell'offerta", i famigerati colli di bottiglia che sono l'essenza della tesi "inflazione transitoria" spacciata delle banche centrali. A loro volta questi colli hanno contribuito a tagli forzati nella produzione. Pesano sulla domanda le incertezze sui tempi di attesa delle consegne e la stretta sui redditi reali.

Le preoccupazioni da parte della FED e delle banche centrali estere per le interruzioni dell'offerta (e la famigerata inflazione transitoria dovuta ai colli di bottiglia) sollevano qui la questione della responsabilità: il massiccio "stimolo" monetario ha contribuito ad un enorme aumento sbilanciato della domanda di beni di consumo durevoli, gonfiando al contempo il boom della digitalizzazione guidato dalle esigenze di restare casa durante la pandemia.

Dovremmo associare le interruzioni dell'offerta ed i costi delle risorse per eliminare gli arretrati agli investimenti errati indotti dall'inflazione monetaria. Dietro queste strozzature ci sono il consumo eccessivo e gli investimenti improduttivi, e il loro seguito potrebbe benissimo aggravare le tendenze recessive.

È improbabile che l'attuale impennata dell'inflazione dell'IPC in Europa, acuita dalle ulteriori impennate del prezzo del gas naturale (questo, contrariamente alle strozzature, potrebbe essere un vero e proprio shock dell'offerta), si trasformi direttamente in inflazione sostenuta ed un IPC elevato caratteristico degli anni '70. Il vero pericolo di un aumento sostenuto dell'inflazione di beni e servizi nell'area Euro risiede altrove: nell'aumento e nella diminuzione dell'inflazione dei prezzi degli asset, la caratteristica distintiva dell'inflazione monetaria in Europa durante l'era Merkel.

Quando l'inflazione globale dei prezzi degli asset si trasforma in deflazione, c'è un'alta probabilità che i debiti dei governi francese e italiano e dei sistemi bancari in quei due Paesi entreranno nel centro della crisi. Le banche francesi hanno ora una famigerata esposizione a potenziali "aree in bolla", compresi i prestiti cinesi, accumulati durante l'inflazione monetaria europea e statunitense ormai decennale. Le finanze pubbliche francesi sono ora deboli come quelle italiane e la cancellazione del mega ordine australiano per i sottomarini francesi nel mezzo di una più ampia crisi esistenziale per il settore militare francese evidenzia le debolezze del credito francese.

Forse il governo di coalizione tripartito che emergerà dalle elezioni tedesche lavorerà davvero a stretto contatto con Parigi e darà vita ad un'unione bancaria europea e salvataggi illimitati tramite la BCE. Questa soluzione di tipo cinese ai problemi del debito europeo, una severa repressione monetaria in un sistema bancario effettivamente statale, porterebbe alla fuga di capitali dall'Europa su una scala mai vista in Cina, con la sua valuta inconvertibile protetta da una miriade di restrizioni sui cambi. Un crollo dell'euro, piuttosto che i prezzi del gas e le strozzature, è la fonte più probabile di un'inflazione IPC elevata e sostenuta in Europa dopo l'era Merkel.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


mercoledì 4 agosto 2021

Il nuovo piano della BCE sull'inflazione non solo è come quello vecchio, ma peggiore

 

 

di Brendan Brown

Vecchio, assurdo e inadatto allo scopo: in quale altro modo descrivere il “nuovo” piano per la politica monetaria dell'euro presentato dal capo della BCE?

Perché vecchio? Il "nuovo" piano è notevolmente simile a quello presentato nel maggio 2003.

Perché assurdo? La logica principale è quella di aggirare un problema dello "zero bound".  Questo problema, tuttavia, è opera della stessa BCE.

Perché inadatto allo scopo? Christine Lagarde ci dice che la revisione è stata intrapresa per assicurarsi che "la nostra strategia di politica monetaria sia adatta allo scopo sia oggi che in futuro". Ma non considera critiche a quella strategia e non avanza alcuna confutazione. Non spiega perché ci si aspettano risultati migliori da un piano così simile alla strategia che è stata perseguita nell'ultimo quarto di secolo.


Cosa c'è di nuovo?

La BCE ha alzato il suo obiettivo d'inflazione.

Quindi cosa c'è di nuovo? “Appena sotto il 2%”, la formulazione del 2003, è stata sostituita da “2%”. Nel profondo del testo del nuovo piano si fa riferimento alle conoscenze acquisite da allora sulla gravità della paralisi della politica monetaria che può verificarsi quando l'inflazione scende troppo. Questa scoperta, ci viene detto, giustifica una maggiore clemenza nell'accettare un rialzo dell'asticella dell'inflazione per qualche tempo. Il lettore arriva quindi alla frase "la stabilità dei prezzi si mantiene meglio puntando ad un obiettivo di inflazione del 2% nel medio termine".

La BCE ha adottato molti nuovi strumenti per far sì che ciò accada. A seguito della dichiarazione del 2%, la BCE conferma che l'impostazione dei tassi d'interesse rimane lo strumento principale, ma sono disponibili anche molti altri:

Il Consiglio direttivo ha inoltre confermato che l'insieme dei tassi d'interesse della BCE resta il principale strumento di politica monetaria. Altri strumenti, come la forward guidance, l'acquisto di asset e le operazioni di rifinanziamento a più lungo termine, che nell'ultimo decennio hanno contribuito a mitigare i limiti generati dallo zero bound sui tassi d'interesse nominali, rimarranno parte integrante dell'armamentario della BCE.

In altre parole, il nuovo piano ci dice che la BCE intende essere molto più attivista e prevede di utilizzare molti "strumenti" che una volta erano considerati inaccettabilmente radicali.

Ripensate alla primavera del 2003, quando il professor Otmar Issing introdusse l'allora nuovo quadro della BCE. Il punto saliente era quindi che la BCE avrebbe puntato ad un'inflazione di poco inferiore al 2%, pronta ad intraprendere azioni determinate per prevenire salti al di sotto e al di sopra. In risposta a una domanda, insistette sul fatto che la BCE aveva seguito questo piano sin dall'inaugurazione dell'euro (1999), anche se il suo obiettivo formale era semplicemente l'inflazione al di sotto del 2%, che in linea di principio avrebbe potuto significare inflazione a zero per la maggior parte del tempo.

Al momento dell'ultima revisione, Issing era ancora molto rispettoso nei confronti di un secondo pilastro del processo decisionale della BCE fondato su un intervallo di monitoraggio per la crescita dell'offerta di denaro più ampia. Non si parlava allora di QE, forward guidance, manipolazione dei tassi a lungo termine, e questi strumenti non erano accettati come legittimi. La legittimità e l'applicazione di tali "strumenti non convenzionali" sono arrivate nel bel mezzo delle crisi del debito sovrano e bancario del 2010-12. Sono stati introdotti come essenziali per il controllo monetario. Tutti si sono resi conto che il loro scopo principale era permettere alla BCE di effettuare massicci trasferimenti di fondi per sostenere i titoli sovrani deboli e le loro banche. Ora quella finzione è diventata parte del nuovo piano.


Gestire le aspettative dell'inflazione dei prezzi

Ci si sarebbe potuti aspettare qualche opposizione a tutto questo da parte della Bundesbank o della Banca nazionale olandese. Non ci sono prove di ciò, se non indirettamente, nella concessione da parte della BCE di un quid pro quo. La sua revisione afferma che la stima dell'inflazione dovrebbe essere eventualmente modificata per tenere conto del costo delle abitazioni.

Questa è una tesi molto debole. La BCE ci dice che il costo delle abitazioni è ora da stimare in un “indice a sé stante” e questo dovrebbe essere considerato in un contesto più ampio di valutazione delle condizioni monetarie per i prossimi anni. In definitiva, entro la metà del prossimo decennio la BCE prevede che ci sarà un HCPI modificato (IPC dell'area Euro) che includa questa stima dei costi delle abitazioni, ma non sarà pienamente operativo come variabile obiettivo fino alla fine di questo decennio. Chissà, a quel punto il formidabile boom dei prezzi delle case nella zona Euro, tra cui in particolare Germania e Olanda negli ultimi anni, potrebbe essersi invertito, il che significa che l'HCPI sarà riformato in una direzione che di fatto richiede una politica monetaria europea ancora più radicale.


Perché è necessario il nuovo piano? 

La BCE sostiene che il suo nuovo "piano" è diventato necessario perché il problema dello "zero bound" è diventato grave. Cioè, con i tassi d'interesse già così bassi, si presume che la banca centrale abbia bisogno di nuovi strumenti per far salire l'inflazione dei prezzi, nonostante l'obiettivo di quest'ultima sia stato raggiunto. Ciò è dovuto, si dice, a questioni al di fuori del proprio controllo. “Gli sviluppi strutturali hanno abbassato il tasso d'interesse reale di equilibrio: calo della crescita della produttività, della demografia e della domanda e richiesta persistente di asset liquidi sicuri. Da qui l'incidenza e la direzione degli episodi in cui i tassi ufficiali nominali si avvicinano allo zero bound”.


La BCE non risolverà un problema creato dalla stessa BCE

Che faccia tosta! Questo presunto problema di “tassi reali di equilibrio straordinariamente bassi” è un problema creato della stessa banca centrale. Il debito sovrano europeo e la crisi bancaria del 2010-12, l'innesco dei primi ribassi sul tasso reale di equilibrio, sono stati essi stessi una conseguenza della politica della BCE negli anni 1997-2007. Questo atteggiamento era altamente inflazionistico, anche se per la maggior parte del tempo i sintomi erano più visibili nei mercati degli asset rispetto ai mercati dei beni/servizi. Mirando ad un'inflazione del 2% in un momento di rapida crescita della produttività e globalizzazione, anche con pressioni al ribasso sui prezzi dovute all'aumento della concorrenza all'interno dell'UME, la BCE ha alimentato l'inflazione monetaria.

I “tassi reali di equilibrio” sono rimasti così bassi ben oltre le crisi del 2008-12 proprio perché le politiche della BCE hanno indotto e si sono aggiunte alla sclerosi economica. Il suo radicalismo, caratterizzato da tassi d'interesse negativi e vaste operazioni di QE incentrate sul salvataggio di banche e titoli sovrani deboli, ha indebolito ogni potenziale dinamismo delle economie europee.

Esempi di come la BCE ha contribuito alla sclerosi economica includono il dissesto che continua in Italia, fortificando lo status quo e soffocando qualsiasi distruzione creativa, compresa la liquidazione del big government e del clientelismo; lo stimolo di un boom mediante l'ingegneria finanziaria e più in generale della speculazione finanziaria in cui gli investitori perseguono rendimenti basati sulla leva finanziaria e altre illusioni piuttosto che potenziali ritorni sulla spesa in conto capitale; la creazione di massicce esportazioni di capitali in risposta alla carestia del reddito da interessi. Gli investitori europei cercano rendimenti elevati all'estero, specialmente nei mercati del credito ad alto rischio e anche nell'Eldorado del capitalismo monopolistico statunitense (in particolare i cosiddetti FAAAM), a sua volta una regione che soffoca il dinamismo economico; l'alimentazione di un boom immobiliare soprattutto in Germania che non genera crescita di produttività; disperazione in alcune famiglie per i ritorni negativi sui loro risparmi e che le loro pensioni vengano tagliate nel bel mezzo della prossima crisi finanziaria, costringendole così a limitare la spesa.

Il denaro malsano e disonesto, sia da parte della FED che della BCE o della Banca del Giappone, ha prodotto un tasso d'interesse di equilibrio apparentemente basso e presumibilmente (secondo la narrativa del sistema bancario centrale) sotto lo zero.

Una moneta sana ed onesta è la risposta al problema dello zero bound.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


martedì 20 aprile 2021

La politica monetaria negli USA è nel caos, ma le cose stanno peggio in Europa

 

 

di Brendan Brown

L'inflazione decolla laddove le forze politiche sono determinate a non attuare dure misure correttive per quanto riguarda tassazione e politica monetaria, misure tali da prevenire un'implosione della valuta nazionale. Nel mercato finanziario globale c'è stata preoccupazione che gli Stati Uniti fossero diretti verso questo esito, anche se in una data incerta, come evidenziato dalle ondate di attacchi contro il dollaro USA la scorsa primavera, estate ed autunno. In realtà, il livello di minaccia di inflazione di lungo periodo è più alto in Europa che negli Stati Uniti.

Qualsiasi azione correttiva sostanziale e sufficiente ad arrestare in futuro una  comparsa di un'elevata inflazione dei prezzi al consumo scatenerebbe forze che potrebbero potenzialmente spazzare via l'attuale status quo del potere politico ed economico. Quindi qualunque sia la causa immediata dell'accelerazione dell'inflazione, dovremmo aspettarci un consenso delle élite politiche, Berlino in prima linea, affinché venga calciato il barattolo lungo la strada.

È probabile che il deprezzamento della valuta sia una parte cruciale del processo dinamico di alta inflazione che sta emergendo in Europa, come in effetti è accaduto spesso nel laboratorio della storia. Questa lezione si applica agli Stati Uniti e, soprattutto, alle origini della più grande inflazione in tempo di pace tra l'inizio e la metà degli anni '60.

La storia è iniziata con i miracoli economici in Europa (Francia, Italia, Germania) e Giappone. La FED, in quanto egemone monetario all'interno del sistema di Bretton Woods, avrebbe dovuto lasciare che i tassi d'interesse salissero come sarebbe avvenuto in un sistema di moneta solida. Invece la FED, in sintonia con l'obiettivo dell'amministrazione Kennedy di ripudiare le politiche più assennate degli anni '50, alimentò una politica monetaria tale da mantenere bassi i tassi d'interesse. Quando dal 1965 è emersa l'elevata inflazione dei prezzi al consumo, con un ritardo rispetto all'inflazione degli asset, la FED iniziò a far salire i tassi. Un'azione coraggiosa sostenuta avrebbe dovuto far salire drasticamente il costo del prestito del settore pubblico, che allora stava aumentando mentre l'amministrazione Johnson intraprendeva la guerra in Vietnam e promuoveva i programmi della Great Society.

Il capo della FED, William McChesney Martin, non aveva piglio politico per entrare in rotta di collisione con l'amministrazione Johnson, e comunque sposò l'opinione che la sua istituzione fosse "indipendente all'interno del governo" non "indipendente dal governo". Il dollaro ne soffrì, come illustrato dall'aumento del prezzo dell'oro dalla primavera del 1968 e dalla rivalutazione del marco tedesco l'anno successivo.

È improbabile che lo scenario di un'alta inflazione dei prezzi al consumo negli Stati Uniti sia caratterizzato da miracoli economici al di fuori degli Stati Uniti come negli anni '60. È plausibile che una parte fondamentale della storia potrebbe essere la forza economica del settore privato, il quale richiede tassi molto più alti e che la FED non è in grado di fornire.

Una flessione del ciclo di crescita o addirittura una recessione nel 2022/23 potrebbe interrompere per qualche tempo il viaggio verso questa destinazione. Ma quando alla fine emergerà un'elevata inflazione anche nell'IPC, è probabile che l'opposizione all'aumento della tassazione o al taglio della spesa pubblica sarà forte. Inoltre, con così tanto debito aziendale e ipotecario, le urla sarebbero enormi contro qualsiasi azione monetaria correttiva che significherebbe tassi di interesse più elevati. Quindi la FED potrebbe accontentarsi di "calciare il barattolo lungo la strada".

Questa conclusione, però, non è certa. Ci sono scenari alternativi meno probabili in cui forze contrarie a tale cinismo potrebbero vincere e la FED avrebbe un ampio margine tecnico per "normalizzare" le condizioni monetarie. A titolo di esempio, la FED potrebbe liquidare il suo vasto portafoglio di titoli del Tesoro USA come parte di un'operazione per ripristinare la base monetaria ad un ruolo di ancoraggio efficace.

È abbastanza diverso in Europa. "È troppo tardi per tornare indietro" è una frase la cui fama risale al rifiuto dell'imperatore Francesco Giuseppe alla fine di luglio 1914 di ammorbidire l'ultimatum di Vienna a Belgrado. Un secolo dopo, sarà quasi certamente troppo tardi per tornare indietro rispetto all'euro svalutato. Ogni volta che l'economia europea entrerà in un percorso di ripresa sostenuta, la BCE non consentirà ai tassi di salire in linea con qualsiasi aumento incipiente dell'inflazione dei prezzi al consumo.

Uno sguardo al bilancio della BCE spiega tale ostinazione. Entro la fine del 2021 è destinato a salire all'80% del PIL della zona Euro, rispetto al bilancio della FED a poco meno del 40%. Mentre il bilancio di quest'ultima è composto quasi interamente da prestiti al governo degli Stati Uniti (principalmente titoli del Tesoro USA) e debito ipotecario sponsorizzato dal governo, quello della BCE è costituito in gran parte da spazzatura, comprese vaste partecipazioni di debito sovrano debole (es. Italia). I prestiti ad un settore bancario praticamente in bancarotta ammontano ad un terzo degli asset totali della BCE. Inoltre le banche centrali italiana e spagnola hanno preso in prestito oltre mille miliardi di euro all'interno del cosiddetto sistema TARGET2 con la Bundesbank, il principale creditore dall'altra parte.

Esaminiamo l'esperimento mentale della BCE che intraprende un corso di normalizzazione monetaria e che avrebbe come conseguenza tassi d'interesse di mercato in aumento di 200 punti base su tutta la linea e il dimagrimento del bilancio, diciamo, del 25%. Le banche deboli non potrebbero pagare il costo del tasso d'interesse aggiunto alla BCE sul loro vasto indebitamento, data la loro mancanza di possibilità di aumentare i tassi sui prestiti ad imprese ed individui. In un modo o nell'altro dovrebbero ottenere sussidi per pagare gli interessi, ma come possono i Paesi sovrani criticamente deboli permetterselo se non tramite la stampa di moneta da parte della BCE? Il risentimento del "nord frugale" e le leggi dell'UE contro gli aiuti di stato ostacolerebbero il processo.

Una coalizione verde-CDU (Unione Democratica Cristiana) a Berlino, come probabilmente emergerà dalle elezioni di questo autunno secondo i sondaggi attuali, non avrà alcun desiderio di rompere l'Unione economica e monetaria europea (UEM). Tenere insieme lo status quo significa fare un cenno alla BCE per mantenere bassi i tassi (attualmente sotto zero) e risparmiarci tutti questi traumi. Allo stesso modo, immaginate lo stress del sistema se la Bundesbank chiedesse alla Banca d'Italia di pagare gli interessi sul suo saldo di debito all'interno del sistema TARGET2, o se la BCE dovesse liquidare il 20% del suo debito pubblico italiano come parte di un taglio generale. Meglio consentire all'inflazione di aumentare.

La dinamica dell'inflazione dipenderà in modo cruciale dal comportamento dell'euro. Se gli Stati Uniti staranno per allora frenando il radicalismo monetario nel contesto di un'accelerazione dell'inflazione, il calo della valuta europea potrebbe davvero essere mozzafiato. Anche se le forze politiche in Germania contro l'alta inflazione raccogliessero potere in tali circostanze, ciò non rallenterebbe la caduta dell'euro. In qualsiasi scenario di rottura per l'UEM, inclusa l'apertura di un percorso verso un nuovo euro forte, la BCE deve prima affrontare la liquidazione del suo bilancio.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


giovedì 20 agosto 2020

I segni di una “cinesizzazione” dell'economia europea alimentano l'ennesima frenesia degli investitori

 

 

di Brendan Brown

L'emergere del Piano europeo di ripresa, che ha preso forma definitiva durante i negoziati a Bruxelles (18-21 luglio), ha corso insieme all'euro e ai titoli di stato italiani, unendosi ad una più ampia frenesia degli asset nel mezzo di un'economia globale ancora depressa . Gli investitori alla spasmodica ricerca di rendimenti decent in un mondo di repressione monetaria, stanno inseguendo l'ennesima narrativa nebulosa, questa volta sull'Europa, anche se i narratori chiave hanno un evidente interesse ad ammaliare un vasto pubblico.

Come esempio calzante, una delle principali banche d'investimento statunitensi, i cui ex-impiegati includono potenti funzionari in banche centrali europee e ministeri delle finanze, ci sta dicendo che gli "stimoli giganti", sostenuti in una certa misura da Germania e Paesi Bassi, promettono una "nuova alba" per l'UE e l'euro. Di conseguenza i commentatori finanziari descrivono una fuga precipitosa di fondi globali (investitori retail italiani assenti) in titoli di stato italiani (rendimenti decennali ora scesi all'1% rispetto al 2,4% a metà marzo) e nell'euro (oltre $1,17/euro alla fine di luglio rispetto a $1,10 alla vigilia dello scoppio dell'epidemia).

Se c'è una nuova alba, è per la cinesizzazione dell'Europa: stimoli "made in China" somministrati ad un sistema finanziario gravemente in difficoltà e mantenuto integro dalla repressione finanziaria e monetaria. Stimolo qui significa che gli stati e le banche sostengono una serie di progetti di investimento selezionati che devono essere perseguiti da imprese pubbliche designate. I giudici in Europa saranno una nuova sottocommissione a Bruxelles, con pochissima responsabilità a quanto pare, nonostante i migliori sforzi olandesi. La buona notizia (cattiva per gli speculatori a Tokyo e oltre) è che la resistenza olandese potrebbe ancora riuscire a sabotare il treno dell'UE prima che viaggi molto più in quella direzione.

Tornando alla narrativa mainstream: l'UE ha ora messo insieme le sue azioni, attuando nell'arco di sette anni (2021-27) un programma di spesa cumulativa pari a €750 miliardi, circa il 5,5% del PIL (UE) di un anno, di quale un terzo sarà per progetti cosiddetti "green". La Germania e l'Olanda, i maggiori contributori netti al bilancio dell'UE, hanno ritirato le loro tradizionali polemiche sulla "mutualizzazione del debito". Per il prossimo decennio questi due Paesi trasferiranno gradualmente fondi dal bilancio dell'UE per compensare gran parte della componente di aiuto (€390 miliardi) nel piano di ripresa. Il finanziamento dello “stimolo” (comprensivo dell'erogazione di finanziamenti agevolati per progetti imprenditoriali pari a €360 miliardi), avverrà tramite l'emissione di speciali obbligazioni UE garantite congiuntamente da tutti i Paesi membri; ciò dovrebbe rivelarsi un investimento molto interessante per i money manager globali. Il sostegno tedesco e olandese, insieme al gigantesco "programma pandemico" della BCE di acquisto di obbligazioni (QE) e prestiti diretti alle banche (LTRO), dissipa lo spettro di una crisi di solvibilità per banche e stati sovrani più deboli.

Insomma, secondo i narratori mainstream, il sogno eurocratico dell'euro che vince sul dollaro sta per diventare realtà. Ci dicono che queste nuove obbligazioni europee verranno accolte molto bene dagli investitori globali alla ricerca di un'alternativa liquida e sicura a quelle denominate in dollari, fino ad ora in "offerta scarsa" (strano quando lo stock totale dei titoli di stato francesi da solo è superiore a €2.800 miliardi, con rating di credito simile e rendimento negativo). Per inciso, la principale banca d'investimento statunitense e le sue altre compagne di viaggio in Europa, che incoraggiano il ​​piano dell'UE, sarebbero in prima fila per le commissioni su questi €750 miliardi di emissioni obbligazionarie dell'UE.

Anche così, meglio non dire gatto se non ce l'hai nel sacco, dato come potrebbe emergere una crisi del debito globale con il suo epicentro in Europa prima che finisca questa recessione o addirittura depressione. Gli investitori globali potrebbero ancora aprire gli occhi e vedere il panorama della post-epidemia attraverso una lente diversa da quella fornita dai narratori mainstream felici per il piano di ripresa europeo.

Le economie vincenti dopo questa epidemia saranno quelle in cui il processo di distruzione creativa guidato dalle forze del libero mercato genererà opportunità d'investimento su una scala tale da portare una rivoluzione di prosperità. Il piano di ripresa che la UE ha ora elaborato va nella direzione opposta. I narratori mainstream affermano che l'elevato componente "green" farà conquistare all'Europa una posizione di leadership nei settori dei combustibili rinnovabili e della protezione ambientale; la stessa logica che ha guidato i programmi di mega-stimolo di Obama nel 2009-10.

Ci sono già motivi di scetticismo visti gli intensi negoziati intra-UE per un approccio top-down, secondo cui i fondi dovrebbero essere erogati in modo sproporzionato nei Paesi che hanno sofferto maggiormente l'epidemia, un processo che ha portato la Polonia ad ottenere la quota maggiore relativa alla dimensione della sua economia. L'Italia è sulla buona strada per ottenere circa il 20-25% dell'esborso totale (equivalente cumulativamente a circa il 10% del PIL di un anno), la componente di aiuto nel periodo 2021-23 e la componente di prestito agevolato più avanti. C'è una certa enfasi sul rinnovamento del settore sanitario, una sfida impossibile date le possibili penetrazioni della mafia negli ospedali per operazioni di riciclaggio di denaro.

Questi esborsi di fondi di per sé non miglioreranno la qualità del credito dei titoli di stato italiani, a meno che per qualche miracolo non trasformino in meglio l'economia italiana. (Sì, l'erogazione di aiuti e prestiti può essere interrotta se un Paese membro obietta che il beneficiario non rispetta gli orientamenti dell'UE sulla sua politica di bilancio, ma questo non è certo un serio freno.) Il debito pubblico italiano in percentuale del PIL è destinato a salire al 155% l'anno prossimo, dal 135% alla vigilia dell'epidemia, indipendentemente dal piano di ripresa economica dell'UE. Per ora le obbligazioni italiane sono la mania globale, l'equivalente moderno, forse, degli enormi acquisti speculativi di banconote reichsmark nei primi anni '20. Ma c'è uno spettro che infesta l'Europa: quei risparmiatori del nord Europa, in particolare Olanda e Germania già appesantiti dalla repressione monetaria (sintomatizzata da tassi negativi) imposta dalla BCE, continueranno a rimanere quiescenti soprattutto quando il flusso di plusvalenze su scommesse ad alto rischio si trasformerà in perdite?

La resistenza olandese all'accordo UE e la sua conquista di una riduzione sostanziale della componente di aiuto, si scontrano con l'opinione che la strada per la solidarietà europea è ora chiara. Infatti potrebbe benissimo essere che la cancelliera tedesca Merkel fosse sotto alcuni aspetti il ​​burattinaio della resistenza olandese, usandola per spingere con forza per la riduzione degli aiuti, che il suo stesso partito (CDU/CSU) sarebbe felice di assecondare dato il forte antagonismo al finanziamento della generosità UE anche tra l'elettorato tedesco. Le elezioni generali sono previste entro un anno sia in Germania che in Olanda.

Quelli che acclamano la frenesia dell'euro sulla base del fatto che la resistenza olandese è stata spezzata, non lasciando più seri ostacoli all'unione fiscale, hanno torto. Non c'è nulla nel piano di ripresa che induca l'Olanda o la Germania ad intervenire e garantire i debiti degli altri Paesi membri dell'UE (oltre al finanziamento del piano stesso). La principale area di solidarietà dell'UE è ora la BCE, la quale espande il suo gigantesco bilancio per finanziare i prestiti a banche deboli e stati deboli.

Anche qui la solidarietà non è garantita che sia permanente e può essere revocata. La Germania o l'Olanda, e addirittura l'Austria o il Lussemburgo, possono ancora abbandonare con effetto retroattivo le operazioni di solidarietà della BCE. Ognuno di questi Paesi membri può uscire dall'unione monetaria europea e convertire solo i depositi e i titoli di stato dei propri residenti in una moneta nazionale, lasciando quindi ai non residenti il peso delle perdite sui crediti. Qualunque sia la narrativa mainstream, la repressione finanziaria e monetaria amministrata dalle élite dell'euro non è un presidio così forte come nel caso del comando comunista cinese.

 

[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


mercoledì 22 aprile 2020

Come il credito facile sta incrementando la devastazione del Covid-19





di Brendan Brown


Un esperimento controfattuale ci aiuta a capire l'enormità della situazione attuale.



Cosa sarebbe potuto succedere

Supponiamo che la pandemia del COVID-19 avesse colpito un mondo con denaro sano ed onesto, ad esempio un gold standard. Non ci sarebbe stata alcuna inflazione virulenta dei prezzi degli asset, nessuna Federal Reserve pronta ad intraprendere un QE infinito (illimitato) e tassi zero, e nessun mega programma per garantire il debito aziendale come chiesto dal capitalismo clientelare.

Gli stati con finanze solide e con piena fiducia globale nel loro impegno a sostenere la convertibilità tra denaro nazionale e oro, sarebbero stati in grado di avviare enormi programmi di previdenza sociale per mitigare le difficoltà economiche personali derivanti dalla pandemia. Una condizione chiave di tale successo: convincere gli investitori che le azioni correttive per rafforzare le finanze pubbliche avrebbero fatto seguito alla pandemia, il che significa che nessuno avrebbe fatto ricorso alla svalutazione monetaria.

I Paesi che non avrebbero goduto della fiducia degli investitori avrebbero avuto qualche difficoltà in più nell'espansione dell'assicurazione sociale. In alcuni casi, ciò avrebbe significato un forte aumento dei tassi d'interesse mentre la popolazione si sarebbe affrettata a convertire la propria valuta in oro, innescando una decisione di sospendere temporaneamente il gold standard e impegnarsi nel finanziamento monetario dei deficit.

Anche nei Paesi finanziariamente solidi, le preoccupazioni sulla qualità del debito, in particolare le passività delle imprese e delle famiglie nei settori più colpiti, e le ripercussioni sulla liquidità e la solvibilità delle banche, avrebbe determinato un aumento della domanda di moneta (banconote, depositi presso la banca centrale e oro). Le autorità monetarie locali avrebbero avuto la possibilità di aumentare l'offerta di moneta non metallica e quindi alleviare qualsiasi carenza (evitando un forte aumento dei tassi monetari). I meccanismi automatici del denaro sano ed onesto avrebbero forzato il ritiro di queste emissioni di emergenza una volta terminata la crisi. Contrastare questi meccanismi avrebbe indebolito la fiducia nella continuazione della convertibilità tra la valuta nazionale e oro.

Sì, ci sarebbe stato un tumulto nel mercato del credito. Lo shock dell'offerta viene amplificato da un blocco economico obbligatorio, il che significa che i guadagni precipitano o si trasformano in una perdita in gran parte per il settore delle imprese.

Con un sistema a denaro sano ed onesto, verrebbe onorato il contratto sociale del capitalismo di libero mercato, in base al quale il capitale guadagna in media un premio al rischio nel lungo periodo in cambio dell'assicurazione di altre parti interessate, in particolare del lavoro, contro shock avversi (che si tratti di recessioni, cambiamenti nei gusti, o disastri naturali). Di conseguenza durante gli anni di prosperità le imprese costruirebbero grandi cuscinetti di capitale per assorbire l'impatto di eventuali shock.



Cosa è successo

Al contrario con denaro fiat, dove c'è stata inflazione degli asset lunga e virulenta in cui gli ingegneri finanziari sono riusciti a rafforzare la leva finanziaria, spesso in molti modi mimetici in modo da giocare su forze irrazionali (come gli investitori affamati di rendimenti decenti al perenne inseguimento del momentum), i cuscinetti di capitale sono sottili. Questo fatto è rimasto nascosto alla vista durante il picco dell'inflazione degli asset, grazie soprattutto alle valutazioni altissime nel mercato azionario stimolate anche dai programmi di riacquisto di azioni.

In linea di principio, dove i cuscinetti di capitale sono comodi e arrivano disastri naturali, i proprietari di capitali ed i creditori sono in grado di negoziare una ricostruzione finanziaria volontaria da cui tutti traggono vantaggio. I creditori sono invitati (dai detentori di azioni) a scambiare una parte dei loro crediti in azioni, di conseguenza i crediti aumentano di prezzo (da un livello in calo che rappresentava la perdita di valore a causa del disastro naturale). I proprietari di azioni traggono vantaggio (come i detentori di obbligazioni) da una ridotta probabilità di fallimento e da tutti i suoi costi. Questo negoziato volontario tra pari non può aver luogo se la leva finanziaria è molto alta ben prima che arrivi il disastro naturale e il fallimento era già in bella vista.

Anche con un denaro sano ed onesto, una pandemia abbasserebbe il valore del capitale proprio in aggregato (e obbligazioni rischiose), ma solo di un importo che riflette la perdita di guadagno per la durata dell'emergenza medica. Al contrario, laddove la condizione preesistente è quella di un'inflazione degli asset virulenta, si verificano più crash amplificati dall'eruzione della crisi del credito. All'improvviso le storie popolari e altamente speculative, che gli investitori affamati di rendimenti decenti accettavano come verità, giustificando il perseguimento di operazioni di carry trade e strategie azionarie aggressive, hanno perso la loro magia attrattiva.

Questa era la situazione quando è arrivato il COVID-19. La leva finanziaria e la credulità nelle storie di speculazioni altamente remunerative erano andate oltre la razionalità, quindi lo shock dell'offerta è diventato l'ago dello scoppio della bolla: la lunga e virulenta inflazione degli asset dal 2012-2013. Paradossalmente gli autori dell'inflazione degli asset, i banchieri centrali ed i presidenti o i primi ministri che hanno alimentato il loro corso, ottengono un free ride: il crash è tutta colpa del COVID-19.

I neo-keynesiani, ex-baroni del private equity e populisti del centro di comando della politica monetaria, hanno escogitato uno "stimolo" più radicale che mai si era visto in tempo di pace. Per magia questo dovrebbe ridurre lo shock dell'offerta. Con la Federal Reserve che apre la strada agli acquisti illimitati di titoli di stato e tassi d'interesse a zero, tutti i limiti del caso presenti nell'esempio  controfattuale precedente vengono spazzati via.

Questa non è un'operazione temporanea, è per il lungo termine. Lo "stimolo" monetario è accompagnato da massicci programmi di garanzia dello stato per società selezionate, che consentono alla Federal Reserve di acquistare il loro debito.

Tutto ciò pone le basi per un'alta inflazione nel lungo periodo, dopo la pandemia, derivante da una situazione in cui il debito pubblico è aumentato vertiginosamente e ha operato un crowding out sulla maggior parte delle imprese.

Gli stati e le loro banche centrali non lasceranno salire i tassi dallo zero, né smetteranno di manipolare i tassi a lungo termine, anche se si dovesse sviluppare lo slancio inflazionistico. Negheranno pubblicamente che addirittura esista questo slancio. La loro storiella sarà sempre che l'evidenza di un'inflazione elevata è fugace, che in ogni caso l'inflazione negli ultimi anni ha mancato l'obiettivo, e che le imprese vulnerabili non dovrebbero essere messe in pericolo dalla cieca ortodossia.



Perché dovrebbe svilupparsi uno slancio inflazionistico?

Nei nostri attuali sistemi monetari fiat, ciò dipende da un eccesso monetario non identificabile che consente ai prezzi di aumentare fortemente senza alcun freno. Con le enormi quantità di investimenti di capitale degli ultimi anni (la realtà dei malinvestiment), il lato dell'offerta dominato da una paralisi diffusa e la forza della disinflazione della globalizzazione in ritirata, sono tutte presenti le condizioni preliminari affinché emerga un'inflazione di beni e servizi.

Il capitale umano obsoleto e il restringimento delle opportunità in settori in cui una volta i lavoratori a basso reddito potevano trovare un impiego, significano che l'inflazione può decollare ad un tasso di disoccupazione complessivo che è sorprendentemente alto rispetto alla storia recente. All'interno di tale aggregato, alcune sezioni del mercato del lavoro altamente eterogeneo diventeranno molto ristrette.

Il gemello monetario dell'inflazione di beni e servizi, l'inflazione degli asset, riemergerà con vigore, ma con nuove storie (accanto ad alcune vecchie sopravvissute, soprattutto nel settore tecnologico) e una platea diversa di epicentri da cui ci siamo abituati nell'ultimo decennio. L'abilità necessaria per analizzare questi cicli passati, presenti e futuri è la stessa di quella prescritta da Balzac: la capacità sia di individuare i tipi che di caratterizzare gli individui.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/