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mercoledì 2 dicembre 2020

Malinvestment: abbiamo imparato la lezione sin dall'ultima recessione?

 

 

di Bradley Thomas

Un numero crescente di economisti prevede che l'attuale boom economico finirà nel 2019. Quando arriverà la recessione, gli economisti chiederanno di più o di meno la stessa cosa che hanno chiesto finora? Vale a dire, una spesa pubblica infinita?

Dopo tutto, sulla scia della crisi finanziaria del 2008, la maggior parte degli economisti ci ha detto che il problema era che il settore privato non spendeva e non investiva abbastanza. Quindi, ci è stato detto, lo stato deve intervenire e compensare la differenza con la spesa in deficit e quindi riportare in carreggiata le "risorse inutilizzate", come i beni capitali e il lavoro.

Ma per cosa dovrebbe spendere lo stato? A quanto pare per qualsiasi cosa.

Questa non è un'esagerazione. Ad esempio, l'economista di Berkeley, Brad DeLong, nel 2009 diceva: "A questo punto, tutto ciò che possa aumentare il deficit del governo nei prossimi due anni supererà il test dei costi/benefici, qualsiasi cosa".

Tale pensiero rivela uno dei difetti fatali dell'economia mainstream: l'idea che l'intera economia sia un unico grande blob omogeneo. Come disse Friedrich Hayek: "Gli aggregati di Keynes nascondono i meccanismi di cambiamento più fondamentali".


Il problema dei malinvestment

Durante il boom immobiliare 2002-2007, quantità significative di capitale e lavoro sono state organizzate in luoghi, combinazioni e usi molto specifici in più fasi della produzione, in modo da produrre più case e soddisfare le richieste dei consumatori. Ciò significava che più lavoratori edili erano impiegati nella costruzione di case nelle comunità in crescita e più broker ipotecari e banchieri d'investimento finanziavano il boom. Significava anche più input come legno, chiodi, cemento e vetro diretti verso l'edilizia; cosa che a sua volta richiedeva più lavorazione del legname, produzione di acciaio e così via.

Quando è scoppiata la bolla immobiliare, milioni di questi lavoratori sono diventati disoccupati e anche parti significative delle strutture di produzione che sono state ampliate per sostenere la bolla sono diventate inattive. Lo scoppio della bolla ha poi provocato un effetto a catena che ha permeato altri settori dell'economia, creando ancora più risorse disoccupate.

Affinché l'economia si riprenda, è necessaria un'importante riallocazione di questi lavoratori inattivi e risorse. I lavoratori inattivi ed i beni capitali dovevano essere rimodellati da quegli imprenditori pronti e disposti ad impiegarli nel tentativo di soddisfare le mutevoli richieste dei consumatori.

Ma questo processo non è breve né facile. I lavoratori disoccupati hanno competenze ed esperienze specifiche e molti potrebbero aver bisogno di una formazione per acquisire nuove competenze e soddisfare il mercato del lavoro in evoluzione. Alcuni potrebbero non essere disposti a trasferirsi per cogliere nuove opportunità. Come dovrebbe un muratore licenziato trovare lavoro in un mercato che richiede grafici e programmatori?

Allo stesso modo, i beni capitali non più utilizzati hanno usi specifici e spesso necessitano di beni complementari specifici per svolgere il loro ruolo nel processo di produzione. Alcuni di loro potrebbero finire per essere liquidati perché nessun imprenditore ne ha bisogno. Ad esempio, potrebbero esserci troppi bulldozer e betoniere per l'industria delle costruzioni post-bolla, ora ovviamente di dimensioni ridotte.


Recessione: un processo di ridistribuzione delle risorse investite male

Questo processo di rimpasto spiega la forza e la durata di una recessione.

Gli economisti ed i politici di ispirazione keynesiana, sfortunatamente, vedono il capitale inattivo e il lavoro solo nell'aggregato. I loro grandi piani di "stimolo" non implicano altro che convincere la spesa dei consumatori e gli investimenti aziendali a spendere più soldi per qualsiasi cosa, e basta.

Come ha scritto Robert Higgs: "Se qualcuno, qualunque siano le sue capacità, preferenze o posizione, è disoccupato, allora secondo questo quadro di pensiero possiamo rimetterlo al lavoro aumentando la domanda aggregata, non importa dove si spendano i soldi, che si tratti di cosmetici o computer".

Il semplice inserimento forzato di nuovo denaro nell'economia sarà inefficace, perché non tiene conto del vero motivo per cui le risorse sono inattive.

I miliardi di dollari in progetti di lavori pubblici, ad esempio, attingeranno principalmente dal lavoro e dal capitale attivamente impegnati nel settore privato e non riusciranno ad impiegare le risorse invece inattive. Supponiamo, ad esempio, che Chicago riceva milioni per costruire una nuova strada. Qualcuno può onestamente dire con certezza che la costruzione di strade impiegherà solo lavoratori e altri input inattivi nell'area di Chicago a causa del crollo del mercato immobiliare?

Banchieri e falegnami disoccupati non saranno di grande aiuto per costruire marciapiedi. Invece il progetto stradale devierà senza dubbio manodopera e macchinari già attivamente impegnati in altri progetti del settore privato. Alla fine saranno disponibili meno risorse per un uso produttivo e privato, perché sono impegnate in progetti di stimolo pubblico.

Nel frattempo la maggior parte dei lavoratori e delle attrezzature inattivi continuerà a rimanere inattiva.

Inoltre miliardi di fondi disponibili nei mercati degli investimenti di capitale saranno vincolati da progetti governativi, andando a prosciugare ulteriormente le opportunità d'investimento privato.

La spesa per incentivi statali può anche gonfiare artificialmente i prezzi delle risorse, determinandone un prezzo fuori dalla portata di quegli imprenditori che necessitano di input a basso prezzo per tirare fuori dalla recessione i loro investimenti. Le stesse risorse necessarie per generare una ripresa sana non saranno disponibili, essendo dirottate verso progetti statali.

La migliore politica è che lo stato si tolga di mezzo e consenta che la riallocazione delle risorse avvenga senza ostacoli. La spesa pubblica può solo distorcere e prolungare questo processo, producendo lungo il percorso pressioni inflazionistiche dannose sui prezzi.

La prossima volta sarà diverso?


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


giovedì 26 novembre 2020

Antonio Gramsci: il padrino del marxismo culturale

 

 

di Bradley Thomas

C'è poco dibattito sul fatto che le università americane, l'istruzione pubblica, i media tradizionali, Hollywood e i gruppi di difesa politica siano dominati dalla sinistra. Non è un caso, ma parte di una strategia deliberata per aprire la strada alla rivoluzione comunista sviluppata più di ottant'anni fa da un teorico politico italiano di nome Antonio Gramsci.

Descritto come uno dei teorici marxisti più importanti e influenti del mondo dopo lo stesso Marx, se non avete familiarità con Gramsci, dovreste averla.

Il comunista italiano (1891 - 1937) è considerato il padrino del progetto che è servito come base per il movimento marxista culturale nell'America di oggi.

Successivamente soprannominata dall'attivista tedesco degli anni '60, Rudi Dutschke, come "la lunga marcia attraverso le istituzioni", Gramsci scrisse negli anni '30 di una "guerra di posizione" per socialisti e comunisti in modo da sovvertire la cultura occidentale dall'interno e costringerla ad essere ridefinita.

Gramsci usò metafore di guerra per distinguere tra una "guerra di posizione" politica, che paragonò alla guerra di trincea, e la "guerra di movimento (o manovra)", che sarebbe stata un improvviso assalto frontale con conseguente sconvolgimento sociale.


Un cambiamento nella strategia

Nel libro del 1998, The Antonio Gramsci Reader a cura di David Forgacs, viene chiarito lo sviluppo da parte di Gramsci di una nuova forma di strategia per inaugurare la rivoluzione socialista.

Gramsci sosteneva che la rivoluzione bolscevica del 1917 ebbe successo perché le condizioni erano mature per uno sconvolgimento così improvviso. Descrisse la rivoluzione russa come un esempio di "guerra di movimento" in base al suo improvviso e completo rovesciamento della struttura di governo esistente. Gramsci pensava che in Russia nel 1917 "lo stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa".

In quanto tale, un attacco diretto ai governanti avrebbe potuto essere efficace perché non esistevano altre strutture o istituzioni significative di influenza politica da soverchiare.

Nelle società occidentali, al contrario, Gramsci disse che lo stato è "solo un fossato esterno" dietro il quale si trova una società civile robusta e solida.

Gramsci credeva che le condizioni in Russia nel 1917, che resero possibile la rivoluzione, non si sarebbero concretizzate nei Paesi capitalisti più avanzati dell'Occidente. La strategia doveva essere diversa ed includere un movimento democratico di massa, una lotta ideologica.

La sua difesa di una guerra di posizione invece che di una guerra di movimento non era un rimprovero alla rivoluzione stessa, ma solo una tattica diversa, una tattica che richiedeva l'infiltrazione nelle organizzazioni influenti che compongono la società. Gramsci paragonò queste organizzazioni alle “trincee” in cui si sarebbe dovuta combattere la guerra di posizione.

Le strutture delle democrazie moderne, sia come organizzazioni statali, sia come complessi di associazioni nella società civile, costituiscono per l'arte della politica una sorta di "trincea", una fortificazione permanente nella guerra di posizione: rendono "parziale" l'elemento di manovra che prima utilizzava il "tutto" della guerra, ecc.

Gramsci sosteneva che un "attacco frontale" ad istituzioni consolidate come i governi nelle società occidentali avrebbe potuto incontrare una resistenza significativa e quindi richiedere una maggiore preparazione, lavorando quindi sullo sviluppo di una volontà collettiva tra le persone e una presa di potere tra società civile e posizioni politiche.


Guerra di posizione & guerra di movimento

È importante tenere a mente che l'obiettivo finale di Gramsci è sempre il socialismo e il rovesciamento dell'ordine capitalista. Il suo contributo è stato quello di delineare una strategia diversa affinché ciò avvenisse.

Come descritto da Forgacs: "La guerra di movimento è un attacco frontale allo stato, mentre la guerra di posizione è condotta principalmente sul terreno della società civile".

Gramsci paragonò la "guerra" politica alla guerra militare, con la sua guerra di movimento simile all'assalto frontale: un rapido attacco militare ad una breccia nelle difese nemiche in modo da ottenere una vittoria rapida e definitiva.

Al contrario, Gramsci paragonò la guerra di posizione alla guerra di trincea, accontentandosi di una lotta a lungo termine con vittorie strategiche più piccole per guadagnare più territorio un po' alla volta. La guerra di posizione è anche caratterizzata da un'abbondanza di rifornimenti per rifornire le truppe e "una grande massa di uomini sotto le armi".

Gramsci sosteneva che una guerra di posizione fosse necessaria per le società capitaliste avanzate in cui la società era diventata una "struttura molto complessa", resistente alle "incursioni" come le depressioni economiche, che altrimenti avrebbero dovuto indebolire la struttura del potere in termini di supporto ideologico. In altre parole, la società ha fornito un sistema di supporto alla struttura politica e coloro al potere in modo da aiutarla a resistere a shock altrimenti negativi come le recessioni economiche.

Gramsci credeva che nelle società occidentali capitalistiche, il sistema di supporto ideologico prevalente per una struttura economica capitalistica e valori borghesi avrebbe protetto la classe dirigente da qualsiasi opposizione organizzata.

Di conseguenza riteneva essenziale studiare in profondità "quali elementi della società civile corrispondono ai sistemi difensivi in ​​una guerra di posizione".


L'analisi di Gramsci della “società civile” e dell'egemonia

Gramsci definì la società civile come "l'insieme di organismi comunemente chiamati 'privati'".

Più direttamente, descrisse la società civile come quella sfera delle attività sociali e delle istituzioni non direttamente parte del governo. Esempi primari includevano partiti politici, sindacati, organizzazioni ecclesiastiche e altre associazioni popolari di volontariato.

Gramsci osservò che i gruppi sociali dominanti nella società civile organizzavano il consenso e l'egemonia, assumendo una posizione di leadership con il consenso dei membri. Il loro ruolo di leadership includeva la promozione di un consenso ideologico tra i loro membri. Gramsci immaginava che questi gruppi avrebbero organizzato la loro opposizione all'ordine sociale esistente.

Gramsci, tuttavia, vedeva la società occidentale come un forte sistema difensivo per lo stato, che a sua volta esisteva per proteggere gli interessi della classe capitalista.

"In Occidente c'è una relazione tra stato e società civile, e quando il primo barcollava subito appariva una solida struttura della società civile. Lo stato è solo un fossato esterno, dietro il quale sorge un potente sistema di fortezze e terrapieni", scrisse. In breve, in tempi in cui lo stato stesso potrebbe aver mostrato debolezze per il rovesciamento da parte di forze ideologiche opposte, le istituzioni della società civile hanno fornito un rinforzo politico all'ordine esistente.

A suo avviso era necessaria una nuova volontà collettiva per portare avanti questa guerra di posizione. Per lui era vitale valutare cosa potesse ostacolare questa volontà, vale a dire alcuni gruppi sociali influenti con le ideologie capitaliste prevalenti che avrebbero potuto impedire il progresso della rivoluzione.

Gramsci parlò di organizzazioni tra cui chiese, enti di beneficenza, media, scuole, università e potere "economico aziendale" come organizzazioni che dovevano essere invase dai pensatori socialisti.

La nuova dittatura del proletariato in Occidente, secondo Gramsci, doveva nascere solo da un consenso attivo delle masse lavoratrici, guidate da quelle organizzazioni critiche nella società che generano un'egemonia ideologica.

Come la definì Gramsci, egemonia significa leadership "culturale, morale e ideologica" sui gruppi alleati e subordinati. Gli intellettuali, una volta sistemati, dovevano raggiungere ruoli di leadership sui membri di questi gruppi attraverso il consenso e la persuasione piuttosto che il dominio o la coercizione.

L'obiettivo della guerra di posizione era quello di plasmare una nuova volontà collettiva delle masse al fine di indebolire le difese che la società forniva allo stato capitalista.

Gramsci sottolineò inoltre il ruolo di un partito politico nell'assumere la leadership e la direzione filosofica di tutte queste alleanze nella società. Uno degli obiettivi principali del partito sarebbe stato quello di inserire i soldati di fanteria della guerra rivoluzionaria di posizione nelle istituzioni statali: tribunali, polizia, consigli d'amministrazione e burocrazie. Occorreva stabilire una base di socialisti su cui far funzionare l'apparato statale una volta completato il suo rovesciamento, sosteneva Gramsci.


Condizioni di preparazione per l'attacco frontale

Come la descrisse Gramsci, una guerra di posizione implica una sorta di “rivoluzione passiva”; passaggio dall'ordine borghese dominante a quello del socialismo senza alcun sconvolgimento sociale violento.

Affinché potesse avvenire la transizione sociale, le "condizioni necessarie" nella società dovevano essere "già state incubate", secondo Gramsci. Egli faceva riferimento ad una nuova volontà collettiva tra le masse, la quale coincideva con l'avere le persone giuste in posizioni strategiche nella società e nelle burocrazie statali.

Gramsci indicò il fascismo italiano come un esempio di rivoluzione passiva. Il fascismo economico "consiste nel fatto che la struttura economica si trasforma in modo 'riformista' da un'economia individualista ad un'economia pianificata (economia di comando)". Questa "economia intermedia" sarebbe servita come punto di partenza per la transizione successiva verso il controllo totale dei mezzi di produzione, una transizione che sarebbe potuta avvenire "senza cataclismi radicali e distruttivi di tipo sterminatore".

Il fascismo economico fa un passo verso la collettivizzazione dei mezzi di produzione senza toglierli ai capitalisti, sosteneva Gramsci. Il fascismo serve ad "accentuare l'elemento della pianificazione" nella struttura economica, facilitando la transizione verso la completa collettivizzazione. Questo spostamento avrebbe contribuito a facilitare l'accettazione diffusa di un maggiore controllo centralizzato sulla produzione senza strappare il controllo sui mezzi di produzione ai capitalisti o eliminare il profitto. Almeno inizialmente...

Una volta che tutte queste condizioni sarebbero state messe in atto (una nuova volontà collettiva, il controllo ideologico sulle istituzioni della società, rivoluzionari in posizioni strategiche nello stato), il tempo sarebbe giusto per la "guerra di movimento" conclusiva.

Questa guerra frontale di movimento per rovesciare lo stato e l'ordine sociale non solo avrebbe avuto successo, ma sarebbe stata anche permanente. Perché secondo Gramsci: "In politica, la 'guerra di posizione', una volta vinta, è definitiva e decisiva".

La “lunga marcia attraverso le istituzioni” della sinistra ha creato le condizioni giuste per il rovesciamento finale della nostra società. Tale successo ha significato e sta significando il disastro economico e sociale.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


mercoledì 12 febbraio 2020

Perché seguire pessime metriche conduce a pessime scelte





di Bradley Thomas


Alla vigilia della Grande Recessione l'ex-presidente George W. Bush, in un discorso del 2007, esortava le persone a "fare shopping" per far "crescere la nostra economia".

Infatti la stampa difficilmente completa un rapporto sull'economia americana senza informarci che "la spesa per consumi costituisce il 70% dell'economia".

Se dobbiamo credere ai politici e ai media, il consumo è la componente più importante: la spesa al consumo alimenta un'economia.

Davvero?

Questo modo di pensare è il risultato di come lo stato "misura" l'economia: il prodotto interno lordo (PIL).

Difetti significativi nel modo in cui viene misurato il PIL non solo lo rendono un indicatore fuorviante, ma hanno portato a conclusioni errate su ciò che fa progredire un'economia. Tali errori portano a politiche pubbliche estremamente costose e dannose.

In breve, il PIL tenta di misurare il valore totale dei prodotti e servizi finiti della nazione in un determinato periodo, in genere un anno.

Ma questa attenzione ai beni finali rappresenta un quadro accurato dell'attività economica totale? Come può testimoniare qualsiasi lettore del saggio di Leonard Read, Io, la matita, la maggior parte dell'attività economica si svolge ben al di sotto della superficie del prodotto finito che vediamo sugli scaffali dei negozi.

I prodotti finiti subiscono varie trasformazioni, passando attraverso diversi stadi intermedi rispetto alla loro origine come materie prime. I beni strumentali, la manodopera e gli input necessari per portare a compimento il prodotto finale sono tutti protagonisti di suddetti stadi.

È qui che vengono rivelate le carenze della metodologia del PIL.



L'errore del “doppio conteggio”

Per evitare ciò che gli economisti chiamano "doppio conteggio", il PIL non conta i soldi spesi dalle imprese che investono in beni intermedi.

I beni intermedi sono classificati come quei beni usati nella produzione di un bene finale. Ad esempio, una pagnotta di pane venduta sugli scaffali della drogheria è un bene finale; anche le macchine, come i miscelatori ed i forni acquistati dal produttore di pane e utilizzate per produrlo, sono considerate beni finali per i calcoli del PIL, poiché non vengono utilizzate nel processo di produzione.

Al contrario, la farina, il grano e altri ingredienti prodotti e quindi inclusi nel pane sono considerati prodotti intermedi. Pertanto i soldi spesi dai fornai per questi elementi non sono inclusi nel PIL. Allo stesso modo, la società di autotrasporti che consegna la farina al forno fornisce quello che è considerato un servizio intermedio, quindi anche il denaro speso per tale trasporto viene lasciato fuori dal PIL.

La spiegazione classica per evitare il "doppio conteggio" dei beni intermedi nel PIL sostiene che se la vendita di acciaio fosse aggiunta alle vendite di Ford, l'acciaio verrebbe conteggiato due volte; una volta quando venduto a Ford e di nuovo quando Ford vende l'auto contenente suddetto acciaio.

Tale logica è errata, poiché unisce il valore totale dei beni intermedi con il loro valore aggiunto al prezzo finale a cui un bene viene venduto.

Tornando alla pagnotta, possiamo immaginare questo semplice esempio:
  • Un produttore di fertilizzanti vende semi di grano ad un agricoltore per $1.
  • L'agricoltore vende quindi il suo grano al mugnaio per $3.
  • Il mugnaio quindi vende la sua farina ad un fornaio per $5.
  • Il fornaio trasforma questa farina in pane e lo vende al consumatore per $6.

Il prezzo di vendita finale del pane è di $6, ma nel processo il denaro totale speso per i beni intermedi è di $9. Ovviamente l'importo totale speso per i beni intermedi non è incluso nel prezzo di vendita finale.

Ciò che è incluso nel prezzo di vendita è il valore aggiunto in ogni fase intermedia.
  • Il valore aggiunto del produttore di fertilizzanti è di $1.
  • Il valore aggiunto del coltivatore di grano è di $2 ($3 a cui ha venduto il grano meno $1 che ha speso per il fertilizzante).
  • Il valore aggiunto del mugnaio è di $2 ($5 a cui ha venduto la farina meno i $3 che ha speso per il grano).
  • Il valore aggiunto del fornaio è di $1 ($6 a cui vende il pane meno i $5 che ha speso per la farina).

È il valore aggiunto che comprende il prezzo di vendita finale.



La spesa per investimenti aziendali, non il consumo, è il cuore della spesa nell'economia

Una volta presa in considerazione tutta la spesa per beni intermedi, la spesa al consumo rappresenta solo il 30% circa dell'economia.

L'economista Mark Skousen ha descritto la necessità dell'uso di una misurazione chiamata Gross Output (GO) che catturi tutte le spese economiche. Questa misura, finalmente adottata dal Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti nel 2014, rivela che la maggior parte dell'attività economica non riguarda la spesa al consumo di beni finiti, ma le imprese che investono nella produzione di tali beni.

Da ciò possiamo dedurre che la spesa dei consumatori non guida un'economia.



L'aumento della spesa al consumo è il risultato, non la causa, della crescita economica

La società non può consumare per trovare la via verso la prosperità. Il risparmio fornisce le risorse necessarie alle imprese per investire in attività produttive e la spesa aziendale per la produzione è ciò che guida veramente un'economia.

Per sottolineare ulteriormente il primato della spesa per investimenti sulle condizioni economiche, prendete in considerazione i seguenti dati della Grande Recessione: secondo la relazione del 2010 del Consiglio dei Consulenti Economici del presidente, la spesa privata al consumo è scesa solo del 2% dal suo picco nel quarto trimestre del 2007.

La spesa totale privata per investimenti ha iniziato il suo calo molto più significativo quasi due anni prima. Gli investimenti interni privati ​​totali hanno raggiunto l'apice nel primo trimestre del 2006 e sono poi scesi di circa il 36%.



Pessime metriche portano a pessime scelte

Basarsi sul PIL è sbagliato e fuorviante se si vuole valutare la salute economica, poiché induce i politici a favorire politiche distruttive volte a raggiungere obiettivi sbagliati. I politici si concentrano su iniziative per "stimolare" la spesa dei consumatori a spese di risparmi ed investimenti, cosa che può portare ad un maggiore indebitamento dei consumatori e all'esaurimento della capacità produttiva dell'economia.

Un prosciugamento del bacino delle risorse necessarie per alimentare gli investimenti produttivi si traduce in stagnazione economica, danneggiando le persone poco qualificate perché sono spesso le prime ad essere licenziate quando l'economia finisce in crisi.

Uno degli errori economici più accettati e dannosi è l'idea che la spesa dei consumatori guidi l'economia. La misura economica più pubblicizzata dallo stato, il PIL, è in gran parte responsabile.

Per migliorare le nostre condizioni economiche, sempre più persone devono respingere la misura del PIL e le conclusioni dannose a cui conduce.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/