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martedì 16 luglio 2024

La Federal Reserve, ieri

Il pezzo di oggi non deve essere inteso come un mero esercizio di critica fine a sé stesso. Il pezzo di oggi vuole portare all'attenzione del lettore l'obiettivo finale dell'attuale strategia d'uscita da parte di Powell: ritorno della politica monetaria statunitense nelle mani della Federal Reserve e contrazione di quell'interventismo della banca centrale americana che, negli ultimi 20 anni in particolar modo, è diventato onnipresente. È importante notare il momento in cui questo treno è deragliato e, “guarda caso”, è coinciso con l'espansione incontrollata del mercato degli eurodollari. Non solo, tale degenerazione era diventata una manna per i mercati finanziari ogni volta che finivano nei guai. L'abbattimento selettivo dei livelli di leva finanziaria che si sono accumulati nel sistema bancario ombra, cosa che ha fatto schizzare alle stelle le masse monetarie ombra, rappresenta un gigantesco spartiacque nella linea di politica della Federal Reserve, la quale mira a togliersi di dosso l'aura di “ente salvatore del mondo”, obtorto collo, nei momenti di stress economico/finanziario. Per quanto i mercati mondiali abbiano testato la volontà di Powell nel voler perseguire questa strada dopo tutto il 2022 e 2023, la sua campagna “higher for longer” sta sortendo gli effetti desiderati e, soprattutto, sta ridonando credibilità ai mercati dei capitali statunitensi. Detto in parole povere, il ritorno del cosiddetto “tocco leggero” o “guardiano passivo” è il ruolo che Powell vuole ricucire sul vestito sfilacciato della FED a causa di decenni di interventismo progressivo e manipolazione/distorsione/deformazione innaturale dei mercati attraverso gli eurodollari.

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di David Stockman

L’economia americana del dopoguerra se la cavò bene tutto sommato, senza alcun obiettivo riguardo i tasso d'interesse, acquisto di obbligazioni, o aiuto generale nella gestione macroeconomica da parte della FED. L'onnipresente dominio del sistema bancario centrale sul sistema finanziario ed economico era inesistente all'epoca.

Sto parlando dell’intero decennio compreso tra il quarto trimestre del 1951 e il terzo trimestre del 1962, quando il bilancio della FED rimase piatto a soli $51 miliardi (linea nera), ciononostante l’economia statunitense non vacillò per la mancanza di ossigeno monetario. Durante quel periodo il PIL crebbe da $356 miliardi a $609 miliardi, ovvero del 71% (linea viola), una crescita nominale del 5,1% annuo e la maggior parte di essa rappresentava guadagni di produzione reale, non inflazione.

Variazione del bilancio della Federal Reserve rispetto al PIL, dal quarto trimestre del 1951 al terzo trimestre del 1962

Si dà il caso che il sopraccitato arco temporale abbracciasse il periodo immediatamente successivo al cosiddetto Accordo Tesoro-FED del marzo 1951, il quale pose fine all’espediente della Seconda Guerra Mondiale che aveva fissato i titoli del Tesoro statunitensi a breve termine allo 0,375% e quelli a lungo termine al 2,50% al fine di finanziare il flusso di debiti di guerra.

L’effetto di questi ancoraggi fu che la FED fu obbligata ad assorbire tutta l’offerta di titoli del Tesoro statunitensi che il mercato non riequilibrava ai rendimenti target. Non sorprende che il bilancio della FED, $12 miliardi nel 1937, fosse aumentato di 4,3 volte arrivando a $51 miliardi al momento di suddetto Accordo, riflettendo quella che equivaleva a una monetizzazione del debito pubblico giustificata dalla  esigenze della guerra.

Nel periodo post-ancoraggio mostrato di seguito, la FED permise ai tassi d'interesse di trovare i propri livelli di compensazione di mercato. Diversamente da quello che accade oggi, a Wall Street non ci furono continue ipotesi riguardo al livello a cui la FED avrebbe fissato i tassi d'interesse a breve termine. Allora era chiaro che le forze della domanda e dell’offerta nei mercati obbligazionari erano pienamente in grado di scoprire i giusti tassi d'interesse.

La combinazione di crescita elevata, investimenti robusti, salari forti e reddito familiare reale in forte aumento, da un lato, e inflazione ai minimi dall’altro, costituisce la regola aurea di performance per una moderna economia capitalista.

Il tutto avvenne in un sistema “tocco leggero” delle banche centrali che presupponeva che il capitalismo di libero mercato avrebbe trovato la propria strada verso una crescita economica, occupazione, investimenti e prosperità ottimali. Non era necessario nessuno sherpa monetario all'Eccles Building.

Non era nemmeno necessaria alcuna stampa di denaro. I risultati economici descritti di seguito si sono verificati durante un periodo di 11 anni in cui la FED non acquistò un centesimo di debito del Tesoro statunitense!

Variazione annua, dal quarto trimestre del 1951 al terzo trimestre del 1962

• Vendite finali reali: +3,8%

• Investimenti reali interni: +4,1%

• Crescita della produttività non agricola: +2,5%

• Salario orario reale: +3%

• Reddito familiare medio reale: +2,3%

• Aumento dell’IPC: +1,3%

Passività della Federal Reserve, dal 1937 al 1962

Non c’è assolutamente nulla in tal periodo che renda la performance macroeconomica sopra riassunta aberrante, casuale, o irreplicabile. Infatti il presidente Eisenhower tagliò drasticamente le spese per la difesa ed eliminò completamente il deficit fiscale durante il suo secondo mandato, pertanto l’aumento cumulativo del debito pubblico durante quel periodo di 11 anni fu di appena $30 miliardi, ovvero un esiguo 0,6% del PIL, a causa dei prestiti contratti durante la Guerra di Corea.

Ma anche questo modesto aumento del debito non fu monetizzato dall’acquisto di obbligazioni da parte della FED, invece fu finanziato con i risparmi privati. I rendimenti obbligazionari a lungo termine, quindi, salirono dal livello fissato al 2,5% mostrato di seguito fino al 4%, come dettato dalla domanda e dall’offerta. Tuttavia nel periodo 1959-1962 l’IPC si attestò in media solo all’1,2%, il che significa che i rendimenti reali sfiorarono il +3,0% durante i primi anni ’60.

All’epoca la FED non aveva visto la necessità di spingere i tassi reali a zero e addirittura in territorio negativo, come è avvenuto per gran parte degli ultimi due decenni. Il fatto è che l’economia di Main Street prosperò enormemente e i tassi aggiustati all’inflazione fornirono un solido rendimento a risparmiatori e investitori.

Rendimento dei titoli del Tesoro USA a lungo termine, dal 1942 al 1962

Ciò che pose fine all’economia favorevole dal 1951 al 1962 fu il flagello della finanza di guerra. LBJ (Lyndon B. Johnson) intensificò la guerra del Vietnam dopo il 1963, provocando un’impennata del debito e un aumento del decennale statunitense fino a quasi il 6% all’inizio del 1968. Ma Johnson non era disposto a lasciare che i tassi d'interesse di compensazione finanziassero la sua miserabile impresa di portare la Great Society nel Sud-est asiatico.

Così “persuase” il presidente della FED nel suo ranch in Texas e ordinò di tagliare il tasso di riferimento per far fronte al crescente deficit federale. Quest’ultimo era cresciuto da $4,8 miliardi e -0,8% del PIL nel 1963 a $25,2 miliardi e -2,8% del PIL nel 1968.

Sfortunatamente, dopo aver aumentato costantemente il tasso di riferimento dal 2,9% nel dicembre 1962 al 5,75% nel novembre 1966, mentre crescevano anche i deficit di Johnson, la FED abbassò suddetto tasso di riferimento al 3,8% nel luglio 1967. A sua volta ciò scatenò un’ondata di speculazione e inflazione, con l’indice dei prezzi al consumo che salì dall’1% annuo nell’agosto 1964 a un picco di +6,4% nel febbraio 1970.

Non vi è alcun mistero sul motivo per cui il genio dell’inflazione fosse ormai uscito dalla lampada: tra il terzo trimestre del 1962 e il quarto trimestre del 1970, il bilancio fino ad allora piatto della FED (linea nera) salì alle stelle, passando da $52 miliardi a $85 miliardi nel corso di un periodo di otto anni. Ciò equivaleva a un aumento del 6% annuo, il che significava che il precedente di un’espansione aggressiva del bilancio era ormai saldamente stabilito.

Rendimento del decennale statunitense aggiustato all’inflazione & crescita del bilancio della FED, dal 1962 al 1970

La prima vittima, ovviamente, sono stati i rendimenti obbligazionari aggiustati all’inflazione (linea viola). Come mostrato sopra, il sano rendimento reale al +3% del 1962 scese ad appena il +1% alla fine del 1970.

La FED non fu spinta a questo primo giro di stampa di denaro e monetizzazione del debito sin dal dopoguerra perché l’economia privata era entrata in un misterioso svenimento o modalità di fallimento, e quindi aveva bisogno dell’aiuto della banca centrale.

Al contrario, si trattò di un allontanamento, guidato da Washington, da una sana attività bancaria centrale; da lì in poi si è partiti per la tangente.

Una volta uscito dalla lampada il genio dell’inflazione, con l’indice dei prezzi al consumo che raggiunse il 6% nell’autunno del 1970, la FED lottò per più di un decennio per riportarlo dentro. Di conseguenza qualsiasi attenzione allo stimolo della crescita, dell’occupazione, dell’edilizia abitativa e degli investimenti fu rara e decisamente secondaria rispetto alla lotta all’inflazione.

È importante notare che, nonostante quattro recessioni (1970, 1975, 1980 e 1981) e pochissimo aiuto a favore della crescita da parte di quella che era ormai diventata una FED ossessionata dall’inflazione, l’economia statunitense si espanse a un ritmo decente durante l’intervallo tra il quarto trimestre del 1969 e il secondo trimestre del 1987.

Il tasso di crescita economica (base reale delle vendite finali) fu in media di un solido +3,1% annuo, ma ciò avvenne grazie alle propensioni alla crescita insite nel capitalismo e nonostante gli ostacoli periodici durante le contrazioni monetaria. Infatti tre presidenti della FED prestarono servizio durante quell’intervallo di 17,5 anni – Burns, Miller e Volcker – e con vari gradi di successo il loro obiettivo fu prevalentemente quello di sopprimere l’inflazione, non di stimolare la crescita.

I tassi di crescita dell’occupazione, della produttività e del reddito familiare medio reale durante suddetto periodo non furono particolarmente eccezionali, malgrado ciò questi stessi parametri non sprofondarono nemmeno in un buco nero.

Questi risultati furono opera del capitalismo di mercato, non del sistema bancario centrale. Quest’ultimo si oppose fortemente all’inflazione per gran parte di quel periodo, quindi l'assenza di “aiuto” da parte della banca centrale fu solo un’ulteriore prova del fatto che lo stimolo monetario non è necessario per una crescita solida e la prosperità.

Variazione annua, dal quarto trimestre 1969 al secondo trimestre 1987

• Vendite finali reali del prodotto interno: +3,1%

• Ore lavoro impiegate: +1,5%

• Produttività non agricola: +1,8%

• Reddito familiare medio reale: +1,2%

A scanso di equivoci, ecco il percorso del tasso di riferimento mentre si stava svolgendo la performance macroeconomica di cui sopra. In altre parole, le ricorrenti iniziative anti-inflazione della FED fecero sì che suddetto tasso saltasse in alto come una sorta di fagiolo saltatore. Nel periodo precedente a ciascuna delle quattro recessioni indicate dalle aree ombreggiate nel grafico, l’aumento del tasso di riferimento della FED è stato il seguente:

• 1970: +340 punti base

• 1974: +960 punti base

• 1980: +1290 punti base

• 1981: +440 punti base

Inutile dire che queste successive campagne di rialzo dei tassi ammontarono a colpi di martello per l’economia di Main Street. Non è possibile che queste violente oscillazioni dei tassi d'interesse e il conseguente avvio e arresto dei cicli economici – quattro recessioni in soli 17 anni – siano stati un tonico per la crescita durante quest’era di inflazione elevata.

Infatti la performance macroeconomica ragionevolmente solida sopra quantificata rappresenta una sorta di minimo del libero mercato. Riflette la spinta incessante di lavoratori, consumatori, imprenditori, uomini d’affari, investitori, risparmiatori e speculatori a migliorare la propria situazione economica, anche di fronte agli ostacoli inflazionistici e alla manipolazione finanziaria anti-inflazione da parte della banca centrale.

Tasso di riferimento, da agosto 1968 a giugno 1987

Naturalmente, gli ostacoli all’inflazione erano enormi e ben al di là di qualsiasi precedente esperienza in tempo di pace. Rispetto all’inflazione media dell’1,3% nel periodo 1951-1962, l’IPC salì al 5,6% nel periodo quarto trimestre del 1969 e secondo trimestre del 1987.

E ciò includeva il beneficio del forte calo dell’inflazione progettato da Paul Volcker durante gli ultimi quattro anni di suddetto periodo. Pertanto durante il decennio degli anni ’70, fino al picco di inflazione annuo del 14,6% nell’aprile 1980, l’IPC salì in media del 7,7% annuo.

A sua volta ciò introdusse per la prima volta le classi salariate nella routine dei tassi salariali nominali in forte aumento, quasi interamente consumati dal forte aumento dei prezzi al consumo. Pertanto durante il decennio terminato con il picco inflazionistico nel secondo trimestre del 1980, la retribuzione oraria media in termini nominali salì del 7,6% annuo, ma, ahimè, ciò che rimase impresso sui conti bancari dei lavoratori fu un guadagno di solo l’1,1% annuo nello stesso periodo. Tutto il resto fu divorato dall’inflazione.

Variazione annua dell'indice dei prezzi al consumo, dal 1960 al 1987

Se l’effetto tapis roulant salari/prezzi introdotto dopo il 1969 fosse tutto, l’impatto avremmo potuto considerarlo tollerabile. La resilienza del capitalismo di mercato si è dimostrata sufficientemente forte da superare gran parte degli ostacoli inflazionistici, insieme ai cicli punitivi di stretta anti-inflazione della FED.

Sfortunatamente, però, ciò che si materializzò negli anni ’70 furono due corollari estremamente dannosi.

Il primo era l’idea che il compito della banca centrale fosse quello di gestire il tasso di variazione del livello generale dei prezzi piuttosto che il mandato originario, molto più modesto. Quest’ultimo presupponeva la presenza di una moneta non inflazionistica coperta dall’oro, quindi la gestione dell’inflazione sarebbe stata un ossimoro. Di conseguenza il mandato statutario della FED era semplicemente quello di fornire liquidità e riserve al sistema bancario sulla base dei tassi d'interesse di mercato. I capi della FED non avevano bisogno di conoscere l'IPC, il deflatore PCE, o qualsiasi altro metro di misurazione moderno dell'inflazione che ancora non era stato inventato.

In realtà, la gestione del ritmo di breve periodo con cui il livello generale dei prezzi sale ha rappresentato un passaggio fatale verso il sistema bancario centrale statalista e la gestione plenaria della macroeconomia in cui gli indici dell'inflazione sono inestricabilmente integrati. Alla fine il figlio bastardo di questa apertura a un potere statale ampliato si è materializzato come il feticcio dell’inflazione al 2%.

Ecco il punto: fino a quando il dollaro coperto dall’oro non fu stroncato da Nixon nell’agosto del 1971 e la possibilità di un’inflazione crescente e persistente in tempo di pace non si materializzò negli anni ’70, l’idea di una gestione del tasso d'inflazione da parte della banca centrale non era neanche lontanamente contemplata. Questo perché la stabilità dei prezzi in tempo di pace era la condizione predefinita del mondo durante il gold standard. Infatti dalle guerre napoleoniche in poi “inflazione” e tempo di guerra furono praticamente sinonimi, perché la moneta fiat era quasi invariabilmente un espediente temporaneo in tempo di guerra.

L’altra eredità degli anni ’70 è stata l’esplosione dei costi unitari del lavoro nell’economia statunitense. Questa deformazione economica inutile, ma pervasiva, alla fine ha portato alla massiccia delocalizzazione dell’economia industriale statunitense.

L’implicazione in tutto ciò è che sarebbe stato molto meglio restare fedeli all’epoca d’oro di William McChesney Martin, caratterizzata da una crescita elevata, una bassa inflazione, un bilancio piatto della Federal Reserve e tassi d'interesse guidati dalle forze della domanda e dell’offerta nei mercati finanziari. Purtroppo il bilancio della FED durante il decennio di alta inflazione era tutt’altro che piatto.

Durante la presidenza dei tre governatori successivi a Martin, il bilancio della FED crebbe ai seguenti ritmi annuali composti:

• Arthur Burns (dal febbraio 1970 al marzo 1978): +6,9%

• William Miller (dal marzo 1978 ad agosto 1979): +9,5%

• Paul Volcker (dall'agosto 1979 ad agosto 1987): +6,8%

Crescita del bilancio della Federal Reserve, dal primo trimestre del 1970 al secondo trimestre del 1987

In poche parole, Volcker rallentò bruscamente la crescita travolgente del bilancio della FED che si era verificata sotto la presidenza di William Miller, lo sfortunato ex-amministratore delegato di un conglomerato che produceva golf cart, motoslitte e aerei Cessna. Ma alla fine anche Volcker continuò a pompare nuova moneta nell’economia a un ritmo appena inferiore a quello di Arthur Burns. E Burns, ovviamente, era lo smidollato che aveva ignominiosamente ceduto alle suppliche di Nixon a sostegno della sua campagna di rielezione nel 1972.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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lunedì 8 luglio 2024

La depressione inflazionistica è già qui?

 

 

di Jeffrey Tucker & Peter St. Onge

C’era un messaggio indiretto sepolto in un articolo del New York Times sulla crisi degli immobili commerciali nelle città. Sì, questo è esattamente il tipo di articolo che le persone trascurano perché a prima vista sembra che non abbia un impatto diffuso nella vita reale. E invece sì, influisce su questioni come l'orizzonte delle nostre città, il modo in cui pensiamo all’urbanistica e al progresso, dove andiamo in vacanza e lavoriamo, e se le grandi città sono fattori trainanti o drenano la produttività nazionale.

L'articolo menziona “un’emergenza che si annida nel mercato immobiliare commerciale, il quale sta soffrendo a causa dei tassi d'interesse alti, che rendono più difficile il rifinanziamento dei prestiti, e dei tassi di occupazione bassi degli edifici adibiti a uffici – un risultato della pandemia”.

Siamo abituati a questo tipo di linguaggio che incolpa la crisi sanitaria per i risultati dei lockdown. Naturalmente è stata una decisione presa dagli esseri umani quella di trasformare un virus in una scusa per chiudere il mondo. I lockdown hanno fatto saltare in aria tutti i dati economici, generando grafici altalenanti su ogni indicatore mai visti nella storia industriale. Inoltre hanno reso estremamente difficile il confronto prima/dopo.

Le conseguenze avranno un’eco a lungo nel futuro. I tassi d'interesse alti sono il risultato del tentativo di rallentare il rubinetto monetario aperto nel marzo 2020, in cui più di $6.000 miliardi in nuova liquidità sono apparsi dal nulla e sono stati distribuiti dai proverbiali elicotteri.

Che fine ha fatto l’iniezione di denaro? Ha generato inflazione. Quanto? Purtroppo non lo sappiamo. Il Bureau of Labor Statistics non riesce a tenere il passo, in parte perché l’indice dei prezzi al consumo non calcola quanto segue: interessi su qualsiasi cosa, tasse, affitti, assicurazione sanitaria (accuratamente), assicurazione per i proprietari di case, assicurazione automobilistica, servizi governativi come scuole pubbliche, calo della quantità di prodotto a prezzi invariati, cali di qualità, sostituzioni dovute al prezzo o costi di servizio aggiuntivi.

Tutte queste sono sole alcune delle cose che sono salite di prezzo ed è per questo che i dati su particolari settori mostrano un enorme divario (generi alimentari in aumento del 35% in quattro anni) e perché ShadowStats stima un'inflazione a doppia cifra da due anni a questa parte, avendo raggiunto il picco del 17%. Se si aggiungono gli interessi, un documento dell'NBER stima l’inflazione del 2023 al 19%.

Vari studi hanno dimostrato che dal 2019 i prezzi dei fast food – uno standard di riferimento nei mercati finanziari per misurare l’inflazione reale – hanno superato l’IPC ufficiale tra il 25% e il 50%.

Sbagliare i dati sull’inflazione è solo l’inizio del problema. Siamo fortunati se qualche dato governativo si adegua anche ai numeri sbagliati. Prendiamo in considerazione le vendite al dettaglio. Supponiamo che abbiate comprato un hamburger l'anno scorso a $10 e ne avete comprato uno questa settimana a $15. Direste che la vostra spesa al dettaglio è aumentata del 50%? No, avete semplicemente speso di più per la stessa cosa. Beh, indovinate un po'? Tutte le vendite al dettaglio vengono calcolate in questo modo.

È lo stesso con gli ordini di fabbrica. Siete voi a dover effettuare gli aggiustamenti all'inflazione. Anche l’utilizzo dei dati convenzionali, che sono ampiamente sottostimati, cancellano tutti i progressi degli ultimi anni. EJ Antoni è uno dei pochi economisti che tiene il passo con queste cose e ha costruito i due grafici seguenti.

“Si tratta di ordini di fabbrica prima e dopo l'aggiustamento all'inflazione: quello che sembra un aumento del 21,1% da gennaio '21 a marzo '24 è solo un aumento dell'1,8% – il resto è solo prezzi più alti, non più cose fisiche; peggio ancora, gli ordini reali sono diminuiti del 6,9% rispetto al picco raggiunto nel giugno '22”.

Immaginate gli stessi grafici ma con aggiustamenti più realistici. Avete capito? I dati diffusi quotidianamente dalla stampa generalista sono falsi. E immaginate gli stessi grafici sopra aggiustati all’inflazione a doppia cifra come dovrebbe essere. Abbiamo un problema serio.

I guai con i dati sull’occupazione stanno diventando sempre più noti. In sostanza, i dati che vengono normalmente riportati sono conteggiati due volte o semplicemente imprecisi, e c’è un’enorme divergenza con l’altro metodo di conteggio dei lavori tramite indagini sulle famiglie. EJ offre ancora una volta il suo commento su questo aspetto.

Inoltre né il rapporto lavoratori/popolazione, né il tasso di partecipazione al lavoro sono tornati ai livelli pre-lockdown.

Prendiamo ora in considerazione il PIL. Nella vecchia formula elaborata negli anni ’30 la spesa pubblica aumenta il PIL, mentre i tagli a essa lo fanno diminuire, proprio come le esportazioni ne gonfiano i numeri e le importazioni li sgonfiano. Perché? È una vecchia teoria radicata in una sorta di keynesiano/mercantilismo che nessuno sembra mai cambiare, ma la distorsione è profonda in questi giorni con una spesa pubblica fuori controllo.

Per calcolare se e in che misura siamo in recessione, guardiamo non al PIL nominale ma al PIL reale; cioè aggiustato all'inflazione. Due trimestri in ribasso sono considerati recessione. Cosa accadrebbe se aggiustassimo i numeri della produzione, erroneamente stimati, attraverso una comprensione realistica dell’inflazione negli ultimi anni?

Non abbiamo i numeri precisi, ma calcoli a spanne suggeriscono che non siamo mai usciti dalla recessione del marzo 2020 e che tutto è andato gradualmente peggiorando.

Ciò si adatta a ogni singolo sondaggio sulla fiducia dei consumatori, soprattutto perché le persone stesse sono osservatori della realtà migliori rispetto ai raccoglitori di dati e agli statistici del governo.

Finora ci siamo occupati brevemente di inflazione, produzione, vendite e produzione, e abbiamo scoperto che nessuno dei dati ufficiali è affidabile. Un errore si ripercuote negativamente sugli altri, come aggiustare la produzione all’inflazione o le vendite all’aumento dei prezzi. I dati sull'occupazione sono particolarmente problematici a causa del problema del doppio conteggio.

Che dire sulle finanze delle famiglie? L’inversione dei tassi di risparmio e del debito delle carte di credito vi dice tutto quello che dovete sapere.

Quando sommate tutto, avete la strana sensazione che nulla di ciò che ci viene detto è reale. Secondo i dati ufficiali negli ultimi quattro anni il dollaro ha perso circa 23 centesimi in potere d'acquisto. A questo non ci crede assolutamente nessuno. A seconda di cosa spendete effettivamente, la risposta reale è più vicina a 35 centesimi, o 50 centesimi, o anche 75 centesimi... se non di più. Non sappiamo ciò che non possiamo sapere.

Non ci resta che fare ipotesi. E questo si combina con la realtà che non è solo un problema degli Stati Uniti. L’aumento dell’inflazione e il calo della produzione sono globali. Potremmo chiamarla recessione inflazionistica, o depressione inflazionistica, in tutto il mondo.

La maggior parte dei modelli economici utilizzati negli anni ’70, e ancora oggi, postulano che esiste un compromesso permanente tra la produzione (con l’occupazione come proxy) e l’inflazione, in modo tale che quando uno è al rialzo, l’altro è al ribasso (Curva di Phillips).

Ora ci troviamo di fronte a una situazione in cui i dati sull’occupazione sono profondamente influenzati da sondaggi inadeguati e dall’abbandono del lavoro, i dati sulla produzione sono distorti da livelli fuori scala di spesa pubblica e di debito, e nessuno tenta nemmeno più di fornire una contabilità realistica dell’inflazione.

Cosa diavolo sta succedendo veramente? Viviamo in tempi ossessionati dai dati con capacità apparentemente magiche di far conoscere e calcolare tutto. Eppure anche adesso sembriamo più ciechi che mai. La differenza è che oggigiorno dovremmo fidarci di dati che nessuno crede nemmeno siano reali.

Tornando alla crisi immobiliare commerciale citata nell’articolo del New York Times, le grandi banche non avrebbero nemmeno parlato con i giornalisti che stavano scrivendo la storia. Questo dovrebbe suggerirvi qualcosa...

Viviamo in un’economia “non chiedere, non dire”. Nessuno vuole parlare di inflazione elevata, nessuno vuole parlare di depressione economica. Soprattutto nessuno vuole ammettere mai la verità: il punto di svolta nelle nostre vite e l’evento che ha fatto precipitare le cose è stato il lockdown. Tutto il resto è stato una conseguenza.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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mercoledì 10 gennaio 2024

Il caos stagflazionistico dell'America

Il saggio di oggi di Stockman, oltre a tracciare un filo conduttore per capire come la stagflazione si sia di nuovo impossessata dell'economia statunitense, passa in rassegna il settore immobiliare per saggiare la devastazione economica arrecata dalle politiche fiscali e monetarie lassiste del governo federale. In questo cappello voglio aggiungere un ulteriore elemento: il debito studentesco. Il mondo del lavoro si sta avvitando su sé stesso anche a causa di questo programma di finanziamento pubblico, il quale aumenta la disoccupazione istituzionale, sovrabbondanza di lavori non richiesti, incapacità di creare una famiglia, crisi di accessibilità a tutti i livelli sociali, ecc.  Come disse Milton Friedman: “Se volete di più di qualcosa, sovvenzionatelo; se ne volete meno, tassatelo”. I prestiti studenteschi, inizialmente, erano prestiti bancari tra privati: gli studenti si rivolgevano direttamente alle banche e il governo federale garantiva contro il loro default. Inadempienze e rimborsi erano considerati gestibili e la maggior parte di questi prestiti venivano rimborsati. Ma le regole sono state cambiate radicalmente quando è entrato in vigore l’Affordable Care Act (noto come Obamacare) nel 2010: il Dipartimento dell’Istruzione degli Stati Uniti è diventato il prestatore e il progetto era realizzare profitti sufficienti sui prestiti agli studenti per pagare i premi agevolati dell’assicurazione sanitaria Obamacare. Col tempo è diventato evidente che non solo il nuovo programma dei prestiti studenteschi non stava realizzando i profitti come previsto, ma stava, di fatto, diventando una spada di Damocle sul collo del governo federale, poiché i rendimenti marginali sugli investimenti nei diplomi universitari non hanno automaticamente prodotto guadagni più favorevoli per i laureati e i mutuatari hanno fatto sempre più fatica a effettuare i pagamenti mensili richiesti per il prestito. Una volta finita l'università la maggior parte degli studenti finisce a fare "lavori umili", impedendo loro di acquistare case e creare famiglie. Nel frattempo i costi universitari hanno superato di gran lunga i prezzi in altri settori dell’economia e gran parte di tale aumento finisce nel lato amministrativo dell'equazione. Negli ultimi anni è diventato chiaro che l’esistenza dei prestiti federali agli studenti ha dato ai college e alle università luce verde per aumentare le tasse scolastiche. E sta diventando preoccupante il fatto che molti studenti (e i loro genitori) non si rendano conto delle responsabilità che si assumono quando accettano i pacchetti di aiuti finanziari offerti dalle università; nel loro entusiasmo di voler frequentare le università desiderate, gli studenti ignorano i loro oneri finanziari futuri. Ed è chiaramente inaccettabile condonare i prestiti in sospeso, costringendo tutti i contribuenti – compresi quelli che non hanno frequentato l’università, o che l'hanno frequentata senza il beneficio dei prestiti, o che l'hanno frequentata con prestiti e li hanno rimborsati – a sopportarne il costo. Nel frattempo gli studenti continuano a richiedere questi sussidi e i costi non fanno altro che accumularsi.

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di David Stockman

Il grafico qui sotto incarna un sacco di storia politica e finanziaria moderna, anche se in superficie sembra abbastanza prosaico: misura, in potere d’acquisto del 2023, l’aumento del debito pubblico sin dal 1966.

Quell'anno, infatti, fu un punto di svolta per la storia fiscale moderna: la linea di politica “Guns and butter” di LBJ raggiunse il culmine, alimentata da un'impennata della spesa pubblica sia per la Great Society che per l'escalation della guerra contro i contadini del Vietnam. E fu anche l’anno in cui LBJ malmenò il presidente della Federal Reserve nel suo ranch in Texas, chiedendogli di stampare i soldi per sostenere quei ragazzi “sanguinanti e morenti nelle giungle del sud-est asiatico”, come affermò egli stesso.

Ma un esame del grafico rende chiaro che il punto di svolta effettivo in termini di esplosione del debito pubblico della nazione iniziò 15 anni dopo: nel 1980. In potere d’acquisto del 2023, il debito pubblico passò da $2.360 miliardi nel 1966 a $2.760 miliardi nel 1980, una crescita annua piuttosto modesta dell’1,4% in termini reali.

Anche con una FED moderatamente più accomodante dopo che William McChesney Martin venne “addomesticato” da LBJ e con l’impennata dei conti per lo stato sociale a marchio Nixon e Ford, non c’era alcun segno nel 1980 che i politici americani fossero sul punto di far galoppare il debito pubblico.

Purtroppo i successivi 43 anni hanno dimostrato il contrario, poiché quella che era stata la parte piatta del grafico qui sotto è diventata praticamente verticale.

In termini di potere d'acquisto odierno, il debito pubblico fino da allora è aumentato di 14 volte: da $2.700 miliardi nel 1980 a quasi $33.000 miliardi di oggi. Tale impennata ha rappresentato un ritmo di crescita più elevato, pari al 6,0% annuo.

Inutile dire che, su un periodo di tempo considerevole, la legge dell’aritmetica composta è un mostro. Se invece il debito pubblico fosse rimasto sul percorso di crescita dell’1,4% come accaduto tra il 1966 e il 1980, il debito pubblico oggi ammonterebbe a $5.000 miliardi e la spesa per interessi sul debito federale, ad un tasso standardizzato del 4%, sarebbe di $200 miliardi, non $1.300 miliardi.

Debito pubblico statunitense in dollari costanti 2023, dal 1966 al 2023

Andiamo quindi al sodo: la svolta epocale degli eventi ha comportato la defenestrazione del vecchio partito repubblicano e il conseguente annullamento della sua dedizione alla rettitudine fiscale, al denaro sano/onesto, al libero mercato, alla prosperità interna e al commercio pacifico con l’estero.

Al loro posto è arrivata innanzitutto la dottrina neoconservatrice dell’impero globale e dell’egemonia di Washington – integrata dai guerrieri della cultura anti-aborto, dagli amanti dei pasti gratuiti, dai guerrieri anti-immigrazione e dalla brigata greenspaniana del denaro facile. Insieme tutte queste digressioni hanno compromesso, distratto e, in definitiva, reso impotente il partito repubblicano quando si trattava della sua missione nella lotta politica: essere un cane da guardia del Tesoro e robusto guardiano dei contribuenti e dei produttori della nazione.

Tutto è iniziato quando un gruppo di fanatici neoconservatori ha preso il controllo del team di Ronald e l'ha convinto a perseguire una crescita reale del 7% del budget della difesa, raggiungendo il suo apogeo ora con Nikki Haley come alternativa dell’ultim’ora al ritorno di Donald Trump.

Con la possibile eccezione di Lindsay Graham, Nikki Haley è la repubblicana più interventista e favorevole alla guerra sulla scena politica odierna. Tuttavia un partito repubblicano che la considererebbe come suo candidato presidenziale nelle circostanze attuali ha sicuramente superato la data di scadenza quando si tratta di rivendicare il ruolo di partito conservatore nel tango bipartitico della governance in America.

L’amministrazione Reagan ereditò da Jimmy Carter un budget per la difesa nazionale di $400 miliardi, se misurato in dollari attuali (2023) di potere d’acquisto. Questo era tutto ciò di cui aveva bisogno la sicurezza nazionale americana di fronte a un impero sovietico in rapida decadenza ed era solo un po’ meno di quanto il grande Dwight Eisenhower aveva definito sufficiente nel 1961, quando mise in guardia contro il complesso militare-industriale nel suo discorso di commiato.

Ma a causa della presa di potere da parte dei falchi neoconservatori che spacciavano la falsa affermazione secondo cui l’Unione Sovietica era sull’orlo di attaccare per prima, il mantra della “crescita reale del 7%” per la difesa divenne la forza dominante a guidare la politica fiscale all’interno del partito repubblicano.

Quando Reagan lasciò l’incarico, il settore della difesa aveva assunto una nuova e massiccia dimensione: nel 1988 il budget per la sicurezza nazionale aveva raggiunto i $650 miliardi (dollari 2023), rappresentando un’espansione del 65% di un sistema già gonfio.

Peggio ancora, questo livello crescente di spesa per la difesa ha ucciso qualunque residua volontà di affrontare la questione all'interno del partito repubblicano, sempre più ossessionato da questo tema. Così quando Reagan lasciò l'incarico, il bilancio interno era pari al 15,4% del PIL, praticamente la stessa cifra che i “grandi spendaccioni di Carter” avevano lasciato davanti alla porta di Ronald Reagan.

Quindi, senza tagli alla spesa interna di proporzioni materiali, senza l’impennata dei bilanci della difesa e con i profondi tagli fiscali del 1981, si è cominciato a correre in termini di deficit annuali e di debito pubblico. E ciò lasciò Ronald Reagan a balbettare che se i deficit erano dovuti alla spesa per la difesa, non aveva importanza: “Non si transige sulla difesa, si spende ciò di cui si ha bisogno”.

Non c’è dubbio, quindi, che l’economia statunitense sia alle prese con un grave periodo di stagflazione (un periodo di alto tasso d'inflazione e lenta crescita economica) e questo nonostante il PIL negativo per il terzo trimestre del 2023. L’aumento annuo del PIL reale è dovuto all’enorme accumulo di scorte (+1,32%), all’assistenza sanitaria (+0,33%) e alla spesa pubblica (+0,79%). Queste voci non sono né stabili da un trimestre all’altro, né sono gli ingredienti di ciò che alimenta l’aumento del tenore di vita e della ricchezza sociale.

Infatti negli ultimi sei trimestri il PIL reale meno queste tre voci volatili è stato in media solo  dell’1,80%  annuo. Rispetto alla crescita storica del 3-4% annuo durante il periodo di massimo splendore della prosperità americana, il recente trend del PIL che rappresenta gli investimenti fissi, i consumi interni e le esportazioni nette non è stato niente di entusiasmante.

Variazione annua del PIL reale escludendo scorte, spesa pubblica e assistenza sanitaria: 

• Secondo trimestre 2022: +1,79%

• Terzo trimestre 2022: +2,36%

• Quarto trimestre 2022: +0,31%

• Primo trimestre 2023: +2,56%

• Secondo trimestre 2023: +1,26%

• Terzo trimestre 2023: +2,46%

Ciò riconduce alla disastrosa gestione economica di Donald Trump dal 2017 al 2020. Dal quarto trimestre del 2016 il livello dei prezzi è aumentato del 27% a causa delle misure di stimolo monetario e fiscale che Trump ha supervisionato, mentre la produzione effettiva misurata dall’indice della produzione industriale (manifatturiero, energetico, minerario e utenze pubbliche) ha guadagnato solo il 4,6%.

Quest’ultima cifra equivale a un tasso annuo di appena lo 0,67% annuo, ovvero solo un quinto del tasso annuo del 3,0% prevalente nell’arco di 69 anni tra il 1949 e il 2016.

Questa è una vera e propria stagflazione, secondo qualsiasi definizione.

Indice della produzione industriale rispetto all'IPC, dal quarto trimestre del 2016 al terzo trimestre del 2023

Inoltre questo risultato stagflazionistico non è nemmeno la metà di tutta la storia. Il fatto è che l’arco di quattro anni del mandato di Trump (2017-2020) ha compreso gli ultimi anni della ripresa post-Grande Recessione. Anche alla luce del repubblicanesimo all'acqua di rose, si supponeva quindi che fosse un periodo in cui la politica monetaria e fiscale sarebbe stata normalizzata: consolidamento fiscale e normalizzazione monetaria.

Detestiamo l’idea che recessioni come quella del 2008-2009 debbano essere contrastate con deficit fiscali su larga scala e pompaggio monetario da parte delle banche centrali. Questa è solo una vecchia storia di copertura keynesiana per l'incessante espansione dello stato e la classe dirigente a Washington composta da politici, burocrati del Deep State e scagnozzi dei media generalisti.

Tuttavia i repubblicani moderni sono stati solitamente a favore degli “stimoli” durante le recessioni, con il breve intermezzo del 1981-1982 come unica eccezione. Durante quegli anni la religione dello “stimolo” fu esplicitamente rifiutata dal repubblicanesimo di Ronald Reagan; era abbastanza antiquato da capire che le recessioni sono necessarie per eliminare gli eccessi inflazionistici di debito, spesa, investimenti sbagliati e speculazione, e quindi la crisi deve seguire il suo corso anche se i lavoratori e le famiglie sono temporaneamente supportati dall’indennità di disoccupazione, ecc.

Con Donald Trump non è andata così, però. Anche prima della vergognosa follia fiscale causata dagli stimoli fiscali del 2020, il deficit era salito a $983 miliardi nell’anno fiscale 2019.

Successivamente è stata la volta di un'economia alla Looney Tunes: i deficit dell’anno fiscale 2020 e 2021 sono saliti a un totale complessivo di $5.900 miliardi. Entrambi gli anni sono stati drasticamente gonfiati dalle misure di stimolo, comprese le loro estensioni nel piano di salvataggio di Biden. In realtà il totale di quei due anni è pari all’intero debito pubblico contratto sotto la sorveglianza di tutti i 43 presidenti durante i primi 212 anni di vita della nazione!

I sopraccitati $5.900 miliardi graveranno sui contribuenti statunitensi per generazioni a venire e sono quindi una follia imperdonabile. Si tratta di un comportamento assolutamente inaccettabile per qualsiasi politico eletto nelle fila repubblicane.

Per fugare ogni dubbio, controllate il grafico del deficit federale qui sotto: stava scendendo e poi è impazzito.

Deficit federale, dall'anno fiscale 2009 all'anno fiscale 2021

Inutile dire che questa ondata di prestiti ha favorito gravi distorsioni nell’economia di Main Street. L'unico lato positivo è che la tempesta di stimoli finanziati con inchiostro rosso ha finito per confutare l'illusione keynesiana secondo cui la spesa al consumo (PCE), se gonfiata artificialmente, alimenta una crescita economica sostenibile.

Indice del reddito personale reale meno trasferimenti sociali rispetto alla PCE reale, da febbraio 2020 a settembre 2023

Il livello della PCE totale è stato inizialmente enormemente gonfiato da tutte le misure di stimolo durante la presidenza Trump, compresi i $1.600 miliardi in tagli fiscali. Infatti, tra febbraio 2020 e settembre 2023, la crescita reale della PCE (linea nera) al 2,6% annuo è stata più del doppio della crescita del reddito personale reale derivante da salari, stipendi, interessi e dividendi. Inutile dire che il divario tra entrate e spese è stato compensato da una massiccia esplosione di pagamenti nell’ambito dei molteplici cicli di stimoli fiscali da migliaia di miliardi di dollari.

Di recente, poi, il Wall Street Journal non ha usato mezzi termini per descrivere l’aumento vertiginoso dei costi della casa:

Possedere una casa è diventato un sogno irrealizzabile per un numero sempre maggiore di americani, anche per quelli che potevano permettersi di acquistarla solo pochi anni fa [...] acquistare una casa ora è meno conveniente che in qualsiasi momento della storia recente, e le cose non cambieranno tanto presto. [...] Ciò significa che gli acquirenti ottengono molto meno rispetto ai dollari spesi. Prima che la FED iniziasse a rialzare i tassi, una persona con un budget immobiliare mensile di $2.000 avrebbe potuto acquistare una casa del valore di oltre $400.000; oggi lo stesso acquirente dovrebbe trovare una casa del valore di $295.000 o meno.

E sì, si può incolpare la FED per questo stato di cose, ma non per i tassi ipotecari sono troppo alti. Né il problema potrebbe essere risolto mediante l’imposizione di tetti massimi sui tassi ipotecari imposti dal governo federale.

In realtà i tassi ipotecari reali sono ancora al di sotto della norma; ciò che è troppo alto sono i prezzi delle case e questa condizione è attribuibile a decenni di repressione dei tassi d'interesse, i quali hanno avuto il grave effetto di “far trincerare” le persone in mutui a buon mercato che a loro volta stanno tenendo fuori dal mercato milioni di di case.

Per quanto riguarda i tassi ipotecari super-economici degli ultimi dieci anni e oltre, il meccanismo di inflazione dei prezzi delle case è semplice: le case sono il bene a leva per eccellenza, con un debito ipotecario totale pari a quasi $13.000 miliardi, di conseguenza l’offerta marginale per le proprietà è pesantemente finanziata dal debito, il che significa che più bassi sono i tassi d'interesse reali, più alto è il prezzo di equilibrio degli immobili.

Ma ora che i prezzi delle case sono saliti alle stelle a causa del debito ipotecario a basso costo, i potenziali acquirenti di case vengono martellati da tutte le parti: invece di scendere con l’aumento dei tassi d'interesse secondo le normali leggi dell’economia, i prezzi delle case continuano a salire a causa della disponibilità artificialmente scarsa di unità in vendita; quando si moltiplica un tasso ipotecario più elevato per un prezzo di una casa ancora più elevato, i pagamenti mensili dei mutui escono fuori dalla portata di una quota crescente di famiglie statunitensi.

Ciò con cui abbiamo a che fare qui sono gli effetti presumibilmente “non intenzionali”, ma prevedibili, dei tentativi della FED d'impostare i tassi d'interesse al di sotto – e di solito molto al di sotto – dei livelli di mercato. L'Eccles Building potrebbe non aver avuto intenzione di causare l'impennata dei prezzi delle case, o d'indurre i proprietari a tenere le proprietà fuori dal mercato per preservare bassi tassi ipotecari a lungo termine, ma questo è esattamente ciò che la sua sciocca linea di politica sui tassi ha sortito alla fine.

Quindi analizziamo questo pasticcio un componente alla volta. All’attuale livello nominale del 7,5%, i tassi ipotecari a 30 anni possono sembrare elevati rispetto al recente passato, ma visti nel contesto degli ultimi tre decenni chiaramente non lo sono.

Ciò significa che se un tasso ipotecario del 7,5% equivale a una crisi, allora c’è qualcos’altro che non va. Dopo tutto, tra il 1998 e il 2007 il tasso ipotecario è stato per la maggior parte del tempo ben al di sopra dei livelli attuali, ma il mercato immobiliare ha comunque fatto registrare un boom. Le vendite di case esistenti sono state in media di 6,0 milioni di unità all’anno (linea tratteggiata) e non sono mai scese al di sotto dei 5 milioni rispetto al livello di ottobre 2023 di soli 3,79 milioni di unità.

Di maggiore importanza è il tasso ipotecario aggiustato all’inflazione poiché l’inflazione tende a gonfiare sia i costi che i redditi. Eppure, su questo parametro chiave, l’attuale tasso ipotecario trentennale (linea viola) al +2,52% è in realtà inferiore a qualsiasi altro periodo prima del terzo trimestre del 2011. Sembra elevato solo se paragonato all’aberrazione causata dalla frenesia monetaria della FED durante la pandemia, quando il tasso ipotecario reale ha toccato il fondo a un assurdo e del tutto insostenibile -2,0% nel primo trimestre del 2022.

In altre parole, a parte alcuni mesi durante la follia finanziaria del 2020-2021 promossa da Washington, i tassi ipotecari aggiustati all’inflazione oggi sono al livello più basso degli ultimi 25 anni!

Questo sicuramente non può costituire una crisi.

Tasso ipotecario nominale a 30 anni rispetto al tasso aggiustato all'inflazione, dal 1998 al 2023

La vera crisi, ovviamente, riguarda il lato dell’equazione relativo ai prezzi delle case, dove le infermità inflazionistiche si stanno accumulando da cinquant’anni: durante i 50 anni trascorsi dal primo trimestre del 1973, i prezzi delle case (linea viola) sono aumentati di quasi il 1.300%, o del doppio dell’aumento del 610% dell’IPC (linea rossa).

Inoltre è evidente dal grafico qui sotto che la lezione del crollo immobiliare del 2007-2009 non ha avuto seguito. Dopo aver toccato il fondo nel primo trimestre del 2009, il prezzo medio di vendita delle case statunitensi è rimbalzato del 130% in corrispondenza del picco degli stimoli fiscali/monetari nel quarto trimestre del 2022.

Variazione del prezzo medio di vendita delle case negli Stati Uniti rispetto all’IPC, dal 1973 al 2023

Inutile dire che se i salari fossero rimasti ragionevolmente al di sopra dell’inflazione generale dell’indice dei prezzi al consumo, l’incessante aumento dei prezzi medi delle case sarebbe stato ovviamente già abbastanza grave di per sé, ma i salari medi non sono andati da nessuna parte in termini reali nell’ultimo mezzo secolo.

Di conseguenza questo confronto tra il salario orario aggiustato all’inflazione e il prezzo medio della casa aggiustato all’inflazione è sicuramente da inserire nel libro del Guinness World Record: negli ultimi cinque decenni il salario medio aggiustato all’inflazione (linea nera) è aumentato solo dell’1% e, tanto per essere chiari, ci riferiamo all’intero periodo di 50 anni, non ad un incremento annuo dell’1%.

Al contrario il prezzo medio delle case aggiustato all’inflazione (linea viola) è aumentato del 100%. Proprio così. Gli aumenti dei prezzi reali delle case hanno superato di 100 volte gli aumenti dei salari reali. C’è da meravigliarsi, quindi, se anche i tassi d'interesse reali degli ultimi mesi abbiano fatto precipitare in una crisi l’accessibilità agli immobili?

Il fatto è che c’è troppo “prezzo” nell’equazione del pagamento mensile del mutuo, non troppo “tasso”.

Salario medio reale & prezzo mediano reale della casa, dal 1973 al 2023

In altre parole, nel primo trimestre del 1973 ci volevano 3,9 anni di lavoro al salario orario medio ($4,14 l’ora) per eguagliare il prezzo medio di vendita delle case ($32.600); quella cifra ammontava a  8,3 anni nel 2022.

Non sorprende, quindi, che l’indice Home Affordability della National Association of Realtors sia attualmente al minimo da 37 anni.

Dati sull’indice di accessibilità agli immobili negli Stati Uniti forniti da YCharts

Inutile dire che la frenesia della stampa monetaria da parte della FED dopo il 2000 ha dato il colpo di grazia all'accessibilità economica del settore immobiliare. L’ultima volta che i tassi dei mutui trentennali (linea nera) sono stati superiori al 7% è stato nel primo trimestre del 2001, quando il prezzo medio delle case (linea viola) era pari a soli $179.000.

Attualmente il prezzo medio delle case è più alto del 140%, a $431.000, di conseguenza l’interesse aggiuntivo sul prezzo, assumendo un rapporto prestito/valore dell’80%, è superiore a $15.000 all’anno.

Tasso ipotecario a 30 anni rispetto al prezzo mediano della casa, dal 2001 al 2023

Inutile dire che il concetto di “prigionieri del tasso ipotecario” non è solo una metafora, i dati attuali sui livelli dei tassi d'interesse dei mutui immobiliari lasciano poco all’immaginazione: nel primo trimestre del 2023 ben il 95,2% delle ipoteche totali erano prestiti a tasso fisso. In termini di volume in dollari, uno sconcertante 70% di quei prestiti erano bloccati a tassi d'interesse del 4% o inferiori, mentre quasi il 30% era inferiore al 3,0%.

Non stiamo parlando di spiccioli, ci sono quasi $13.000 miliardi di mutui immobiliari in circolazione, il che significa che oltre $9.000 miliardi di essi hanno tassi d'interesse inferiori al 4%. Sulla base dei dati a nostra disposizione, il tasso medio su questi mutui non dovrebbe essere molto superiore al 3,3%, il che significa che la differenza del costo di mantenimento degli interessi rispetto all’attuale tasso di mercato al 7,5% è superiore a $400 miliardi all’anno.

Inoltre il tasso d’interesse medio di tutte le ipoteche ammonta attualmente solo al 3,7% e ciò significa che l'attuale titolare medio di un mutuo paga un tasso pari solo al 49% del tasso di mercato odierno per i nuovi mutui. Quando si parla di distorsioni del mercato e di effetti di "trinceramento", anche questo è un tema destinato ai libri di storia.

Naturalmente la domanda ricorrente è se tutta questa distorsione – guadagni inaspettati prima ed effetti di "trinceramento" ora – ne valesse la pena. I dati seguenti implicano un sonoro no!

Lo scopo della soppressione artificiale dei tassi ipotecari negli ultimi decenni era quello di aumentare il tasso di nuovi investimenti e costruzioni immobiliari, ma in nessun modo ciò è accaduto. Su una base pro capite di completamento dell’edilizia abitativa, il livello oggi è inferiore del 55% rispetto al 1971.

Completamento pro capite di nuove unità abitative, dal 1971 al 2023

Quindi, per ripetere, l’incessante pompaggio monetario da parte della FED e la falsificazione dei tassi d'interesse hanno avuto un chiaro effetto sull’edilizia abitativa, e non quello propagandato dai keynesiani secondo cui tutto ciò avrebbe prodotto più unità abitative per le persone. Il risultato è stato gonfiare i prezzi delle case fino all'inverosimile: ha fatto lievitare il prezzo degli asset esistenti, non il livello d'investimenti in nuovi asset.

E ora che la FED è finalmente costretta a piegarsi fortemente al vento dell’inflazione, il tradizionale sogno della proprietà immobiliare è fuori portata per una maggioranza crescente di famiglie statunitensi: i tassi sono alti, l’offerta è bassa, i prezzi continuano a salire e l’accessibilità economica è diventata proibitiva.

Questo è solo l'ennesimo motivo per sottrarre il controllo del banco ai pianificatori monetari centrali; il tentativo di ancorare e microgestire i tassi d'interesse genera più danni che benefici.

Inoltre, come spiegato in un precedente pezzo, una finestra di sconto che fornisca credito della FED a tassi di mercato, più uno spread di penalità, alle banche membri fornirebbe un sostegno di liquidità più che sufficiente per il sistema finanziario di oggi. E funzionerebbe passivamente, guidato dalle forze di mercato e dalla creazione di nuova produzione economica e di garanzie commerciali.

Ancora più importante, le bolle speculative, l’inflazione dei prezzi e gli investimenti sbagliati sistematici non si verificherebbero, facendo tornare l’opportunità di possedere una casa alla portata delle famiglie della classe media.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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venerdì 15 settembre 2023

L'evanescenza delle valute fiat e la decadenza socioeconomica della stagflazione risultante

 

 

di Francesco Simoncelli

Ludwig von Mises affermò che “l’essenza della teoria monetaria è la consapevolezza che i cambiamenti indotti dalla liquidità non influenzano né allo stesso tempo né nella stessa misura i prezzi, i saggi salariali e i tassi d'interesse”. Il punto in cui nuova moneta entra nell’economia è di grande importanza se si vuole analizzare il suo effetto perturbante sulla struttura produttiva. A differenza del QE iniziato nel 2008, in cui nuova moneta è entrata nei mercati finanziari principalmente attraverso il sistema bancario commerciale, quello avviato sin dal 2020 ha finanziato la spesa in deficit degli stati. La spesa pubblica risultante si è aggiunta ai bilanci del settore privato e delle famiglie ed è parte di una linea di politica antiproduttiva. Allo stato attuale è difficile distinguere gli strati di espansione monetaria in atto: l’espansione del credito è passata per i mercati dei prestiti, grazie ai tassi d'interesse artificialmente bassi derivanti dall’attività continua del sistema bancario centrale i cui bilanci sono raddoppiati sin dal 2020. C’è anche quella che Mises chiamava "inflazione semplice", dove il Ministero del Tesoro spende i soldi che riceve dal sistema bancario commerciale, che a sua volta li riceve da quello centrale.

Entrambi i livelli possono espandere la produzione e aumentarne i prezzi dei fattori, ma i beneficiari sono scelti da parti diverse. L’espansione del credito consente a coloro che sono più abili – ovviamente grandi aziende e mercato finanziario – di accedere a fondi mutuabili ed espandere la produzione. L’inflazione semplice avvantaggia l’attività economica dello stato e trasferisce il reddito a qualunque parte con cui voglia contrattare. Contrariamente all’opinione diffusa, la spesa fiscale non può indirizzare le risorse da obiettivi di valore inferiore a quelli di valore superiore: i servizi gestiti dal settore pubblico non operano sotto la pressione del sistema profitti/perdite, quindi per natura distruggono valore. Infatti i pagamenti dello stato sociale vengono ottenuti attraverso clientelismo piuttosto che attraverso la concorrenza di mercato.

L’inflazione è sempre un fenomeno politico, in realtà. Gli stati o la assecondano, oppure cercano di frenarla, ma una volta che iniziano a inflazionare, è un’abitudine difficile da interrompere. La questione si riduce tutta a una singola formula: “Inflate or die”. Devono continuare a inflazionare per evitare bancarotte e default; oppure interrompono la musica e mettono subito fine alla festa. In ogni caso il risultato finale è più o meno lo stesso: prima o poi sfatano le fantasie degli illusi e i loro sogni vengono infranti. I tassi d'interesse artificialmente bassi hanno indotto le persone a ricorrere in modo scriteriato ai prestiti: chi ha chiesto un prestito per avviare un'impresa, chi per scommettere sulle azioni, chi per comprare una casa, chi per le vacanze e per la TV a grande schermo, ecc. Tutti hanno le loro speranze, sogni e aspirazioni e tutti sono ora incorporati in un debito pubblico/privato da migliaia di miliardi. Ma mantenendo i tassi d'interesse troppo bassi per troppo tempo, le banche centrali hanno falsificato i costi reali e ora, con l’aumento dei tassi di interesse, diventa sempre più difficile mantenere vivi quei sogni. Alla fine, molti falliranno.

In questo momento, sulla base della relazione storica tra produzione (PIL) e debito, gli americani hanno un debito di circa $50.000 miliardi di troppo e rappresenta una minaccia e un peso: può rovinare debitori e creditori allo stesso modo, sottraendo risorse dal presente per pagare pasti già mangiati, investimenti già andati a male e abbronzature che sono già scomparse. Con sempre più tempo e denaro indirizzati al passato, meno è disponibile per il futuro; la crescita rallenta. Come ci hanno mostrato gli argentini, si può prendere in prestito per molto tempo, ma non per sempre. Alla fine il debito non può essere sostenuto e in qualche modo deve andare via: o attraverso il fuoco (inflazione) o il ghiaccio (deflazione). Ma anche se entrambi i fenomeni alla fine eliminano il debito in eccesso, sono tutt’altro che uguali.

Se la festa finisce all’improvviso, come Paul Volcker pose fine all’inflazione americana degli anni ’70, molte persone si arrabbierebbero e brontolerebbero mentre, ubriachi di liquidità, cercherebbero le chiavi della macchina. Molti non sono in condizioni di guidare, hanno esagerato con i prestiti, hanno speculato in modo troppo sconsiderato e hanno speso troppo... dovranno prendere un taxi. Alcuni correranno il rischio e finiranno in un fosso... o in prigione. No, non sarà divertente, ma almeno la maggior parte tornerà a casa sana e salva; l’economia reale ne uscirà relativamente indenne. Ma se le banche centrali lo volessero, potrebbero mettere su un altro po’ di musica e perfino tirare fuori le droghe pesanti; ciò farebbe andare le cose avanti ancora per un po’ e le persone si indebiterebbero ulteriormente. Farebbero investimenti ancora più sconsiderati, potrebbero spendere di più e la resa dei conti finale sarebbe più severa, semplicemente perché ci sarebbero più debiti inesigibili con cui fare i conti.

Ma c’è di più. Basta guardare alle economie che hanno cercato di uscire dalla trappola del debito con l’inflazione: Zimbabwe, Venezuela, Argentina, Libano, ecc. L’inflazione non ha solo cancellato il debito, ha anche distrutto le loro economie: gli investimenti a lungo termine sono stati spazzati via, non nascono nuove imprese e quelle che esistono già fanno fatica a sopravvivere, le famiglie tagliano le spese oppure spendono i loro soldi prima che perdano di potere d'acquisto.

In altre parole, l’inflazione non si limita a ridurre i prezzi degli asset, portando i ricchi giù di un livello. Come una cattiva abitudine al bere, rende difficile guadagnarsi da vivere, le persone diventano più povere e le loro vite diventano squallide.


PERCEZIONE DI POVERTÀ O POVERTÀ REALE?

Il tema di oggi non è affatto nuovo per i lettori stagionati di questo sito web, soprattutto perché nel corso del tempo, nonostante lo scetticismo dovuto alla non materializzazione del fenomeno inflattivo durante i tempi del QE, mi sono speso per descrivere il processo attraverso il quale saremmo arrivati a questo esito. Per quanto i vari giri di QE fossero indirizzati sostanzialmente al circuito finanziario, la distorsione dello spettro dei tassi d'interesse ha riguardato anche l'economia più ampia e gli effetti distorsivi si sono espansi a macchia d'olio... dapprima lentamente e poi velocemente. I prezzi folli raggiunti dal comparto azionario/obbligazionario sono stati caratterizzati da un'ingegneria finanziaria senza pari nella storia economica, alimentata da uno tsunami di finanziamenti a tassi ridicoli; per quanto il sistema bancario centrale volesse focalizzarsi esclusivamente sui salvataggi di banche e clientes nel circuito finanziario, la deformazione dei tassi d'interesse a causa delle massicce manipolazioni dell'offerta di denaro ha spinto, poco alla volta, anche la persona media ad "approfittare" dei saldi nel mercato monetario. Inutile dire che ciò ha gonfiato bolle molto più grandi di quelle precedenti. Perché? Perché agli errori del passato è stata impedita la correzione sulla scia della teoria keynesiana del "quasi boom", di un sostegno a quelle industrie "più sensibili" ai tassi d'interesse e cruciali per il buon funzionamento dell'arazzo socio-economico.

Bolla immobiliare, bolla nei prestiti auto, bolla nei prestiti agli studenti, ecc. sono solo alcuni degli esempi che si possono fare per dimostrare come il credito facile sia percolato nell'economia di Main Street. La compartimentazione dell'economia, come speravano le banche centrali, erano solo un pio desiderio: l'illusione di poter socializzare le perdite una volta che si sarebbe tirato il freno a mano e chiuso il rubinetto monetario. Non è andata così, come non ci va mai in realtà, e c'è sempre un qualcosa che va storto. È prasseologicamente normale che sia così. Le banche centrali non si sono potute tirare indietro, soprattutto negli ultimi 3 anni, e hanno raddoppiato i loro sforzi d'interventismo per puntellare in qualche modo il caos finanziario che avevano scatenato coi precedenti cicli di svalutazione monetaria. La correzione che si profilava sui mercati sarebbe stata devastante, ma il salvataggio ha comportato un prezzo nascosto da pagare: ulteriore crowding out della struttura del capitale, mismatch di produzione e sovrabbondanze/carenze in vari settori industriali.

Per quanto l'espansione dello stato sociale sia stata visibile a tutti come mezzo attraverso il quale offrire sollievo dalla crisi sanitaria, prima, e da quella ambientale, poi, è la stortura prolungata nell'allocazione del capitale che ha creato criticità sequenziali nell'economia. E che adesso sta impedendo alle banche centrali di poter contare sulla socializzazione delle perdite per attutire l'impatto dello sgonfiamento delle bolle e del rialzo dei tassi. È tale deformazione, strutturale ormai e non più temporanea, che sta garantendo un'inflazione dei prezzi persistente e un impoverimento generale diffuso. Le dislocazioni nell'allocazione del capitale sono superiori alla perdita di potere d'acquisto del denaro, il quale è un sintomo di questa malattia più grande. Bear Stearns e la stessa Lehman Brothers sarebbero dovute essere delle lezioni propedeutiche a tal proposito. La perdita di potere d'acquisto del denaro è una canalizzazione dei risparmi reali verso quelle entità che si desidera salvare da una correzione di mercato, ma quando anni di distorsione dei tassi hanno praticamente azzerato la capacità di creare un bacino sano di ricchezza reale allora l'esito di una tale pratica è sterile: la socializzazione delle perdite affligge tutti indistintamente.

Ciò che rimane da fare per i pianificatori centrali è saccheggiare tutto il saccheggiabile, non più col sotterfugio ma col comando/controllo; non più con la persuasione, bensì con la violenza plateale. Continuare sulla tabella di marcia della socializzazione delle perdite cercando di limitare i danni anche al sistema clientelare imbastito nel corso degli anni e che ha garantito loro, attraverso privilegi monopolistici, la sopravvivenza fino a oggi. Il saccheggio che ne consegue non degrada solo l'ambiente economico, ma quello sociale e culturale anche. La corruzione dei costumi e delle tradizioni cui assistiamo oggi non è altro che il risultato di una nevrosi indotta da un contesto economico che impedisce l'espressione genuina delle motivazioni prasseologiche da parte degli individui; domanda e offerta non s'incontrano, a tutti i livelli, e ne consegue un'esponenziale insoddisfazione. Ma cerchiamo di capire meglio quest'ultimo punto prendendo come esempio l'Italia.

Per cosa si spendono sostanzialmente i soldi di mese in mese? Affitto, mutuo, cibo, utenze, istruzione, manutenzioni varie. Queste sono le categorie fondamentali, ma l’indice dei prezzi al consumo comprende molte più voci, alcune che non acquistate e altre che salgono di prezzo molto meno di altre. Ciononostante sono le categorie sopraccitate che consumano la maggior parte del reddito delle famiglie e, negli ultimi tre anni in particolare, sono salite sempre più in alto. Osservando le voci per le quali si spendono effettivamente i soldi, troviamo aumenti compresi tra il 20 e il 30%; diciamo, per amor di semplificazione, che la media è del 25%. Se poi prendiamo in considerazione il reddito disponibile reale delle famiglie italiane, ovvero il reddito al netto delle spese aggiustate all’inflazione, non solo è rimasto pressoché stagnante negli ultimi tre anni ma addirittura negli ultimi 13 anni! Bonus e stimoli fiscali sembrano grandiosi quando erogati, ma col tempo il loro effetto svanisce e rappresentano essenzialmente una finzione. Quindi le richieste di reddito sono aumentate del 25% in media mentre i soldi necessari per la mera sussistenza non hanno tenuto il passo. Un disastro per il tenore di vita, soprattutto della classe media. In breve, siamo stati derubati.

Le ragioni causali sono molteplici, ma riconducibili principalmente all’aumento gigantesco dell’offerta di denaro alimentato dalla BCE, cosa che ha divorato il valore dell'euro con un certo ritardo temporale. Oltre a ciò le catene di approvvigionamento sono state (volutamente) dissestate, il settore industriale è stato piallato, la libertà commerciale è stata annientata e i mercati del lavoro sono stati sconvolti. Confrontiamo il presente, adesso, con quello che tutti riconoscono come il grande disastro inflazionistico del periodo postbellico, ovvero la grande inflazione dal 1978 al 1982. Erano i tempi in cui la FED e lo stato stavano saccheggiando la popolazione come mai era accaduto prima di quel momento, prosciugavano il valore dei risparmi e del capitale e imponevano un riorganizzazione della vita sociale. Alla fine di quel periodo la famiglia media passò dal vivere con un unico reddito ad avene due. All’epoca veniva definita emancipazione delle donne ma, guardando indietro, possiamo vedere che si trattava chiaramente di propaganda per coprire un disastro economico: la discriminazione di genere sul posto di lavoro non era stata un grosso problema per gran parte del XX secolo e a metà degli anni ’20, se si considerano le donne non sposate senza figli dopo i 18 anni, il tasso di occupazione nelle città era generalmente dell’80%. Queste donne lasciavano il mondo del lavoro dopo il matrimonio per concentrarsi sui figli e sulla famiglia, mentre gli uomini avevano l'obbligo di provvedere a tutto.

La grande inflazione degli anni '80 cambiò tutto e le famiglie dovevano avere due redditi per vivere bene invece di uno, il che significa che un partner doveva andare in ufficio piuttosto che occuparsi della casa. Senza contare che in questo modo si è proceduto ad aumentare l'offerta di manodopera e ad abbassare artificialmente i compensi della forza lavoro. Uno scacco matto di matrice keynesiana alla classe media. Il fatto che i pianificatori centrali siano riusciti a spacciarla per una sorta di nuova libertà (per le donne) è sintomo di quanto possano essere pervasive e intrusive le bugie dell'establishment pur di sopravvivere un giorno in più alla propria natura prona al suicidio economico. Com'è oggi rispetto ad allora? In tre anni abbiamo visto il valore dell'euro scendere del 25% in termini di ciò per cui si spendono i soldi quotidianamente, mentre i redditi sono rimasti praticamente al palo. Durante la grande inflazione degli anni '80 questo identico fenomeno si verificò nell’arco di circa cinque anni anziché dieci come ai nostri tempi. In altre parole, i furti di massa di oggi avvengono il 50% più lentamente rispetto al passato, ma avvengono comunque. È meglio essere travolti da un autoarticolato lentamente o velocemente? Si muore in entrambi i casi. Che cosa importa se si perde gran parte del proprio reddito in cinque o dieci anni? Per la classe dirigente ha valore solo in termini di misura in cui la popolazione si lamenta e una popolazione saccheggiata lentamente – come la rana bollita – è molto probabile che si lamenti meno. Tuttavia la fine è la stessa.

La grande inflazione degli anni '80 ha cambiato radicalmente la vita delle persone: cosa farà invece l’attuale giro di furti a questa generazione? Gli indizi non sono incoraggianti: demoralizzazione, cattiva salute, mancanza di ambizione, abuso di sostanze stupefacenti e disperazione. È possibile invertire la situazione? Sì, ma non sarà facile. Richiederà enormi cambiamenti nella sfera pubblica come mai visto prima e nessun candidato politico, a nessun livello, sarà intenzionato a ridurre il debito, contenere il sistema bancario centrale, indebolire la burocrazia amministrativa, ridurre il carico fiscale e lasciare che la classe media prosperi di nuovo. Infatti un suo miglioramento crescente e incessante non ha bisogno di punti di riferimento al di fuori di essa stessa, non ha bisogno di uno stato sociale; ha solo bisogno che la classe dirigente la lasci in pace. Questo indipendentismo, oltre a essere imprevedibile, restringe automaticamente la sfera d'influenza dello stato, la sua espansione e, soprattutto, crea attrito nei confronti dell'approvazione delle sue spese. L'eutanasia della classe media significa più criminalità, più anomia culturale, più sfiducia, più rabbia sociale. In sintesi, significa il percorso di minor resistenza verso una società dipendente nei confronti dell'apparato di pianificazione centrale la cui unica via di sopravvivenza è divorare e distruggere tutto ciò che tocca.


CONTRAZIONE DELL'OFFERTA

L'espansione dell'apparato burocratico-statale è un'arma a doppio taglio, in realtà. Sebbene venga alimentato dal consenso della popolazione che vive in modo incrementale attraverso le elargizioni dello stato sociale, ciò porta a un'inevitabile contrazione del bacino della ricchezza reale cosa che a sua volta porta a un crescente impoverimento generalizzato. Più le persone finiscono per gravitare intorno all'apparato statale, meno ricchezza reale producono e più finiscono per parassitare quella esistente. Per non parlare del fatto che i prezzi non torneranno mai ai livelli precedenti, andando a formare una nuova linea di base che viene solo modificata più in alto. A tal proposito è didattico pensare per un momento al fantomatico target del 2% riguardo il tasso d'inflazione, spacciato come un parametro che dovesse essere raggiunto dal basso verso l'alto, non il contrario.

Quando l'interventismo non può distruggere più l'ambiente esterno, inizia ad autodistruggersi. In quest'era infatti sono stati ridotte allo status di zimbello sia il keynesismo che il monetarismo. La paura della deflazione s'è dimostrata solo l'ennesima giustificazione atta a fornire propellente a uno stuolo di pianificatori monetari centrali, il cui unico compito è solo preservare lo status quo a qualunque costo. La deliberata confusione creata attorno al tema dell’inflazione è servita solo come cavallo di Troia per convogliare energie e risparmi verso un'entità inefficiente, spendacciona e bancarottiera. Molti, purtroppo, soccombono al richiamo dei presunti pasti gratis. In altre parole, l’inflazione ha un modo di perpetuarsi proprio come la dipendenza dall’eroina, perché le persone continueranno a desiderare sempre di più ciò che le sta avvelenando. Basti pensare, ad esempio, al tumulto che s'è scatenato sulla scia della (temporanea) sospensione del reddito di cittadinanza.

E mentre l'apparato burocratico-statale cattura sempre più risorse di capitale, manodopera e accattoni verso di sé, dall'altro lato abbiamo una contrazione dell'offerta delle imprese produttive. Infatti le entrate fiscali non mancano a causa della fantomatica evasione fiscale, ma perché fallimenti e bancarotte sono a livelli record. Lo stesso accade negli USA, dove nei primi sei mesi di quest'anno 340 grandi imprese hanno chiuso i battenti, rappresentando un record degli ultimi 13 anni; in tutto, nei primi sei mesi del 2023, 2973 imprese statunitensi hanno portato le carte in tribunale, in aumento del 68% rispetto all'anno scorso. E per quanto riguarda l'Italia in particolare? Leggiamo cosa dice l'Espresso:

[...] secondo l’Osservatorio Cerved nel 2015 le imprese fallite erano oltre 82 mila. Oggi, su un milione e 600 mila aziende attive, Confcommercio stima 120 mila realtà a rischio fallimento nel 2023. [...] Nel 2022 le richieste di aiuto sono aumentate del 45 per cento rispetto all’anno precedente: 23 mila e 500 contro 16 mila e 300. [...] «La legge salvasuicidi sembra essere caduta in disgrazia pure lei e se ne parla davvero poco. I dati relativi ai suicidi sono fermi dal 2019. A essere sovraindebitati sono soprattutto le persone fisiche per quanto riguarda le grandi città come Roma, Milano e Napoli. In Lombardia, Emilia Romagna e Nord-Est risultano più esposti i piccoli imprenditori legati ai settori delle costruzioni, della manodopera e dell’indotto in generale. Al Sud le criticità interessano molti imprenditori agricoli». Qualche consiglio per non restare impantanati nelle sabbie mobili della burocrazia e della sopravvivenza? «Non regalare soldi a pioggia e incentivare nelle scuole l’educazione finanziaria. Il nostro paese è fanalino di coda in tema di cultura imprenditoriale», conclude Bertollo.

Inutile dire che la contrazione del credito gioca un ruolo importante in questa situazione drammatica, dato che il settore bancario commerciale sta diventando sempre più cauto nell'elargizione di prestiti. Perché? Perché i crediti incagliati si stanno moltiplicando e di conseguenza ciò spinge ancora di più le banche a tirare i remi del credito in barca. È una questione di tempo prima che tale condizione venga estesa anche alle carte di credito, come invece sta già accadendo negli Stati Uniti. Questo sviluppo, a sua volta, andrà a riverberarsi sui consumi, i quali si contrarranno mettendo ancora più pressione sulle imprese. Sulla scia di questa evoluzione ci si aspetterebbe che i prezzi in generale calino, invece non sarà così perché non dobbiamo dimenticarci della misallocation del capitale e della rottura delle supply chain: ci sarà, quindi, una corsa verso i vari beni e servizi la cui offerta non riuscirà a stare al passo con la domanda. Infatti, sebbene i prezzi del gas siano rallentati negli ultimi mesi, ciò è stato dovuto alla bancarotta di aziende. Ironia della sorte, la carta stampata esultava farneticando di vittoria della pianificazione statale; ora i prezzi risalgono e l'offerta è menomata. Non solo, c'è anche la Francia che imporrà un limite ai prezzi di circa 5000 beni alimentari; limite ai prezzi vuol dire sostanzialmente scoraggiarne la produzione. Nella feroce tempesta inflazionistica e dell'allocazione errata del capitale la Germania è l'altro esempio per eccellenza che descrive l'esito nefasto dei due fenomeni economici sopraccitati.

Se in Europa si ferma il cuore industriale pulsante, allora tutte le chiacchiere riguardo "riprese economiche" fantasiose ed esultanze sull'aumento del PIL sono solo teatro per raggirare ancora di più le vittime del furto inflazionistico. Ecco, la Germania rappresenta l'esempio ideale di come una nazione forte e fiera possa essere ridotta sul lastrico dalle linee di politica socialiste. Dalle scelte energetiche folli a uno stato sociale invadente, tutto ciò che è stato descritto finora in questo saggio ha come prova empirica la discesa nella povertà della Germania.

E questo, inutile dirlo, crea a macchia d'olio sfiducia e diffidenza nei confronti dei partner commerciali e dei loro investimenti. Pezzo dopo pezzo l'esperimento comunista dell'Unione Europea sta cadendo in frantumi sotto il peso delle sue stesse contraddizioni, avendo adottato il copione marxista come testo per la propria sopravvivenza. E non poteva essere altrimenti.

Ma la contrazione dell'offerta non riguarda solo gli aspetti economici, ingloba anche la sfera socio-culturale. Dipendere dallo stato alimenta una mentalità passiva nei confronti di tutte quelle cose che più possono interessare il benessere socio-culturale delle persone: a che servono le autorità altrimenti? In questo senso le città scivolano nel degrado, perché non si tende più a salvaguardare direttamente il territorio, come propria responsabilità, ma a delegare la questione a "chi sta più in alto". Un esempio a tal proposito è quello di quell'uomo che, per fini utilitaristici, ha riparato una buca di fronte casa aiutando così, indirettamente, anche altri che sarebbero passati di lì con le automobili. Il risultato è stata una multa e nessun sostegno da parte del vicinato (forse a parole, ma non basta). Il disinnamoramento nei confronti del territorio porta al menefreghismo riguardo la decadenza che si impossessa delle strade, del decoro urbano, della pulizia, ecc. È un circolo vizioso che relega sempre di più le persone all'interno delle quattro mura domestiche e le disincentiva a intervenire personalmente nel momento in cui si potrebbero aggiustare le cose. La responsabilità individuale viene ridotta al lumicino, l'interesse è solo quello di prendere lo stipendio a fine mese, viene smorzata ogni passione nei confronti del proprio lavoro e la macchina pubblica nel frattempo erode platealmente ogni briciolo di ricchezza rimasta.


CONCLUSIONE

Su queste pagine avete potuto leggere con grande anticipo cosa sarebbe arrivato sulla scia della sconsideratezza monetaria rappresentata dai vari giri di QE: inflazione dei prezzi. Avevo la palla di vetro? No. Una volta che si comprendono le meccaniche alla base del funzionamento dell'azione umana come insegnate dalla Scuola Austriaca d'economia, è possibile individuare processi ed evoluzioni. Infatti coloro che chiedono a gran voce la realizzazione nell'immediato di determinate previsioni non capiscono come si sviluppano i processi. Perché? Perché non capiscono il tumultuoso meccanismo dell'azione umana, fatto di apparenti contraddizioni ma di una linea di fondo inesorabile. Ecco che quindi i vari moniti che si sono susseguiti nel tempo hanno trovato fondamento dopo un certo lasso di tempo, ma hanno altresì permesso ai cosiddetti "smart money" di prepararsi per tempo e a costi inferiori rispetto ai "ritardatari". Lo stesso lo possiamo dire riguardo la spiegazione dietro alla mia previsione di un rialzo dei tassi da parte della FED, come minimo, a un 6%.

Ora si parla tanto di "de-dollarizzazione", ma non di "de-euroizzazione" il che la dice lunga sulla vera notizia tra le due. L'UE è a corto di garanzie fisiche a copertura della sua montagna di debiti, che la schiaccerà, e la perdita d'influenza coloniale in Africa ne è la prova. Gli Stati Uniti rappresentano un'ottima fuga per il capitale finanziario, mentre i BRICS (con le nuove aggiunte) stanno accaparrando reti commerciali fisiche/strategiche e giacimenti di commodity offrendo un'alternativa al precedente monopolio di istituti coloniali come l'FMI. Condonare parte dei precedenti debiti delle nazioni in via di sviluppo rappresenta il modo in cui stanno acquistando influenza in Africa e altrove. Nel mezzo rimane l'Europa, privata del capitale finanziario, energetico e fisico che, contorcendosi come stanno facendo Francia e Germania nel disperato tentativo di allargare lo schema Ponzi europeo, cerca annaspando di evitare il suo tragico ruolo: protagonista del Grande Default.

Infatti abbiamo visto come l’eccesso di debito sia un errore del passato: il sistema bancario centrale ha lasciato il tasso di riferimento troppo basso per troppo tempo con il risultato di un debito eccessivo. Cercare di risolverlo con l’inflazione mina il futuro. I prezzi instabili danneggiano l’intera economia, i salari reali non riescono a tenere il passo, gli investimenti nelle industrie che creano ricchezza a lungo termine scompaiono, i tassi di crescita diminuiscono, la classe media si contrae e le persone diventano più povere. Ma sappiamo anche che lasciare morire la bolla del debito (deflazione) colpisce particolarmente i ricchi e i potenti. Sono loro che possiedono gli asset finanziari e quando i prezzi scendono, perdono ricchezza.

In un modo o nell’altro, il fardello rappresentato dal debito in eccesso è destinato ad andare all'altro mondo: può succedere rapidamente, con un default, oppure lentamente attraverso l'inflazione. Nel 1971 il debito delle famiglie, delle imprese e del governo era tenuto a bada dall'ancoraggio lasco che le valute nazionali ancora avevano con l'oro, poi però le cose sono cambiate e le valute sono diventate “scoperte”. L'azzardo morale che ne seguì fu senza precedenti per l'epoca. All’inizio degli anni ’80 Paul Volcker, negli Stati Uniti, cercò di rimettere il dollaro in carreggiata e ne ripristinò la fiducia facendo arrivare i tassi d'interesse al 20%: l’inflazione dei prezzi venne domata e le azioni erano ai prezzi più bassi di sempre. Nel 1983 il tasso di inflazione negli Stati Uniti era sceso al 3%, un livello inferiore a quello attuale. Fu un lavoro veloce ed ebbe successo, l’economia americana prosperò nei due decenni successivi. Una mossa simile oggi farebbe piangere lacrime amare ai mercati finanziari.

Inflazione? Deflazione? Si tratta sostanzialmente di decisioni politiche ed esse vengono prese dai pianificatori centrali. E la mia ipotesi è che non saranno loro a versare lacrime; non saranno i loro soldi a morire. Sceglieranno invece la panacea che gli stati arrivati al capolinea scelgono sempre nel corso dei secoli: l’inflazione. Sarà quindi la classe media a pagare di più per il latte, il formaggio, le case e le automobili. Loro piangeranno le lacrime amare, le persone i cui risparmi sono stati derubati dai tassi d'interesse artificialmente bassi, i cui salari non sono andati da nessuna parte per mezzo secolo, i cui posti di lavoro sono stati spediti in Cina, i cui valori fondamentali sono stati derisi dalle élite, i cui portafogli sono praticamente vuoti. Saranno loro a pagare prezzi al consumo più alti per sostenere il sistema socioeconomico marcio delle élite, marciume che, come un veleno, si diffonde al parassita all'ospite.


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