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venerdì 31 marzo 2017

L'elemento morale insito nella libera impresa





di Friedrich A. Hayek


L'attività economica fornisce i mezzi materiali per tutti i nostri fini. Allo stesso tempo, gran parte dei nostri sforzi individuali sono diretti a produrre mezzi per i fini di altri in modo che essi, in cambio, possano fornire a noi i mezzi per i nostri fini. È solo poiché siamo liberi nella scelta dei nostri mezzi che siamo anche liberi nella scelta dei nostri fini.

La libertà economica è perciò una condizione indispensabile per tutte le altre libertà, e la libera impresa è sia una condizione necessaria e una conseguenza della libertà personale. Discutendo L'Elemento Morale nella Libera Impresa, non mi limiterò dunque ai problemi della vita economica, ma considererò le relazioni generali tra libertà e morale.

In questa circostanza intendo, secondo la grande tradizione Anglosassone, l'indipendenza del libero arbitrio di un altro. Questa è la concezione classica di libertà sotto la legge, uno stato delle cose in cui un uomo può essere costretto solo laddove la coercizione è contemplata dalla legge generale, ugualmente applicabile a tutti, e mai secondo una decisione discrezionale di un'autorità amministrativa.

La relazione tra questa libertà e i valori morali è reciproca e complessa. Perciò dovrò limitarmi ad esaltare i punti salienti in modo quasi telegrafico.

È, da un lato, una vecchia scoperta che morale e valori morali cresceranno solo in un ambiente di libertà, e che, in generale , gli standard morali di persone e classi sono alti solo dove hanno a lungo goduto libertà, e proporzionale alla quantità di libertà che hanno posseduto. È anche una vecchia intuizione che una società libera funzioni bene solo nel caso in cui l'azione libera è guidata da forti convinzioni morali e, di conseguenza, che potremo godere di tutti i benefici della libertà solo laddove la libertà è già ben consolidata. A questo voglio aggiungere che la libertà, per funzionare correttamente, richiede non solo dei forti principi morali, ma che siano anche principi di un tipo particolare, e che è possibile che in una società libera si sviluppino degli standard morali che, se generalmente diffusi, distruggeranno la libertà e con essa le basi di tutti i valori morali.



Verità dimenticate

Prima di tornare su questo punto, che non è generalmente compreso, devo brevemente elaborare due vecchie verità che dovrebbero essere familiari, ma che sono spesso dimenticate. Che la libertà sia la matrice richiesta per la crescita di principi morali – dunque non un solo un valore tra molti ma l'origine di tutti i valori – è pressoché auto-evidente. È solo dove l'individuo ha la libertà di scelta, e la sua inerente responsabilità, che ha l'occasione di affermare i valori esistenti, per contribuire alla loro ulteriore crescita ed acquisirne il merito morale. L'obbedienza ha valore morale solo dove è una questione di scelta e non di coercizione. È nell'ordine in cui cataloghiamo i nostri fini che il nostro senso morale si manifesta, e nell'allocazione delle regole generali della morale a particolari situazioni in cui ogni individuo è costantemente chiamato ad interpretare e applicare i principi generali, e facendo questo, a creare valori particolari.

Non ho tempo in questa sede di dimostrare quanto questo abbia determinato che le società libere non solo sono state generalmente rispettose della legge, ma anche nei tempi moderni sono state la fonte di tutti i movimenti umanitari tesi ad aiutare attivamente il debole, il malato e l'oppresso. Le società non libere, d'altra parte, hanno regolarmente sviluppato un disprezzo per la legge, un'attitudine indifferente alla sofferenza e perfino una simpatia per il malfattore.

Devo rivolgermi all'altro lato della medaglia. Dev'essere altrettanto ovvio che i risultati della libertà debbano dipendere dai valori che gli individui liberi perseguono. Sarebbe impossibile asserire che una società libera svilupperà sempre e necessariamente valori che approveremmo, o perfino, come vedremo, che manterranno valori che siano compatibili con la conservazione della libertà. Tutto ciò che possiamo dire è che i valori che possediamo sono il prodotto della libertà, che in particolare i valori Cristiani si dovettero affermare attraverso uomini che resistettero con successo all'oppressione del governo, e che è al desiderio di essere in grado di perseguire i propri principi morali che dobbiamo le moderne salvaguardie della libertà individuale. Forse possiamo aggiungere a questo che solo le società che detengono valori morali essenzialmente simili al nostro sono sopravvissute quali società libere, mentre in altre la libertà è perita.

Tutto questo fornisce validi argomenti al perché sia di assoluta importanza che una società libera sia basata su forti principi morali e perché se vogliamo conservare la libertà e la morale, dobbiamo diffondere con tutte le nostre forze i principi morali appropriati. Ma ciò di cui sono maggiormente preoccupato è l'errore che gli uomini debbano essere buoni prima che possa essere garantita la loro libertà.

È vero che una società libera a cui mancassero le fondamenta morali, sarebbe una società in cui vivere sarebbe molto spiacevole. Ma sarebbe perfino meglio di una società che fosse non libera e immorale; almeno offre la speranza di un'emersione graduale di convinzioni morali che una società non libera è impossibile. Su questo punto mi spiace dissentire fermamente con John Stuart Mill, che sostiene che finché gli uomini hanno conservato la capacità di essere guidati al loro miglioramento dalla convinzione o dalla persuasione, "non c'è nulla per loro se non un'implicita obbedienza ad un Akbar o Carlo Magno, se sono così fortunati da trovarne uno". Credo che T. B. Macaulay espresse la più grande saggezza di una vecchia tradizione, quando scrisse che "molti politici del nostro tempo hanno l'abitudine di sostenere che nessuna persona possa essere libera fino a che non dimostri di essere in grado di usare la propria libertà. La massima si addice allo sciocco di quella vecchia storia che non si decideva ad entrare nell'acqua finché non avesse imparato a nuotare. Se gli uomini devono attendere la libertà fino a quando non diventeranno buoni e saggi, potranno certamente attendere per sempre".



Considerazioni morali

Ora però devo spostarmi da ciò che è meramente la riaffermazione di un vecchio sapere, verso questioni molto critiche. Ho detto che la libertà, per funzionare correttamente, non richiede meramente l'esistenza di principi morali, ma anche l'accettazione di particolari punti di vista morali. Con questo non intendo che entro certi limiti le considerazioni utilitaristiche contribuirebbero ad alterare i principi morali su questioni particolari. Nemmeno intendo che, come Edwin Cannan affermò, "dei due principi, Equità ed Economia, l'Equità è in ultima analisi la più debole... il giudizio dell'umanità su ciò che è equo è passibile di cambiamenti, e... una delle forze che ne causa il cambiamento è la scoperta umana che di volta in volta ciò che si supponeva essere abbastanza giusto ed equo in alcune situazioni particolari è diventato, o forse lo è sempre stato, anti-economico".

Questo è anche vero e importane, sebbene potrebbe non essere affatto una raccomandazione per chiunque. Sono preoccupato piuttosto da alcune concezioni più generali che mi sembrano essere condizioni essenziali di una società libera e senza le quali essa non può sopravvivere. Ritengo che le due istanze cruciali siano la fede nella responsabilità individuale e l'approvazione di un accordo per mezzo del quale ricompense materiali sono corrisposte per il particolare servizio che una persona rende al suo prossimo; non ad alimentare quella stima che lo porterebbe ad essere considerato una persona in funzione del suo merito morale.



Individui responsabili

Devo essere conciso su questo punto – cosa che trovo molto difficile. Gli sviluppi moderni sono parte della storia della distruzione dei valori morali da parte di un errore scientifico, il quale di recente è stato la mia principale preoccupazione – e uno su cui ad un insegnante capita di lavorare considerandolo il tema più importante del mondo. Ma cercherò di spiegarlo in poche parole.

Le società libere sono sempre state società nelle quali la fiducia nella responsabilità individuale è stata forte. Hanno sempre permesso agli individui di agire secondo la loro conoscenza e convinzioni e hanno considerato i risultati raggiunti come dovuti ad essi. Lo scopo era che la gente trovasse utile e valevole la pena di agire razionalmente e ragionevolmente, e persuaderli che gli obbiettivi raggiunti dipendevano essenzialmente da loro. Quest'ultima convinzione è indubbiamente non del tutto corretta, ma certamente ha avuto uno splendido effetto nello sviluppo dell'iniziativa e della prudenza.

Per via di una curiosa confusione, si è arrivati a pensare che questa fede nella responsabilità individuale sia stata confutata dalla conoscenza sempre più approfondita di un modo in cui gli eventi in generale, e le azioni umane in particolare, sono determinati da certe classi di cause. È probabilmente vero che abbiamo aumentato la conoscenza dei tipi di circostanze che influenzano l'azione umana – ma nulla di più. Certamente non possiamo dire che un particolare atto consapevole di qualunque uomo sia la conseguenza necessaria di particolari circostanze che possiamo specificare – escludendo la sua individualità peculiare emersa dal suo vissuto. Usiamo la nostra conoscenza generica di come l'azione umana possa essere influenzata per valutare apprezzamento o disprezzo – cosa che facciamo con lo scopo di spingere le persone a comportarsi in un modo a noi desiderabile. È su questo limitato determinismo – tanto quanto la nostra conoscenza dei fatti giustifichi – che è basata la fede nella responsabilità, mentre solo una fede in un qualche sé metafisico che si trova al di fuori della catena di causa ed effetto giustifica la contestazione secondo cui è inutile considerare un individuo responsabile delle proprie azioni.



La pressione delle opinioni

Eppure, per quanto sia grezza la fallacia sottostante l'opposta e presunta opinione scientifica, essa ha avuto l'effetto di distruggere l'arma suprema che una società ha sviluppato per garantire un comportamento decente – la pressione dell'opinione pubblica che spinge la gente a rispettare le regole del gioco. Ed è sfociata in quel Mito della Malattia Mentale che un distinto psichiatra, T. S. Szasz, ha recentemente e giustamente fustigato in un libro così titolato. Probabilmente non abbiamo ancora scoperto la via migliore per insegnare alla gente a vivere secondo le regole che rendono la vita in società non così spiacevole. Sono certo che non arriveremo mai a costruire una società libera di successo, senza quella pressione di elogio e biasimo che tratta l'individuo come responsabile per la propria condotta e gli fa scontare le conseguenze di ogni errore seppur innocente.

Ma se per una società liberà è essenziale che la stima di cui gode una persona presso i suoi simili dipenda da quanto sia all'altezza della richiesta di legge morale, è altrettanto essenziale che la ricompensa materiale non debba essere determinata dall'opinione che i suoi simili hanno dei suoi meriti morali, ma dal valore che attribuiscono ai servizi particolari che costui offre loro. Questo mi porta al secondo punto cardine: il concetto di giustizia sociale che deve prevalere se vogliamo perseguire lungo la via di una società libera. Questo è il punto sul quale i difensori di una società libera e gli avvocati di un sistema collettivista, sono principalmente divisi. E su questo punto, mentre i sostenitori della concezione socialista di giustizia distributiva sono solitamente molto espliciti, i sostenitori della libertà sono inutilmente timidi quando si tratta di affermare sfacciatamente le implicazioni dei loro ideali.



Perché la libertà?

I fatti sono questi: vogliamo che l'individuo sia libero poiché solo se egli decide cosa fare può allo stesso tempo usare il suo set unico di informazioni, capacità e abilità che nessun altro può apprezzare appieno. Per permettere all'individuo di espletare il suo potenziale, dobbiamo anche permettergli di agire secondo le proprie valutazioni delle varie opportunità e probabilità. Visto che noi non sappiamo ciò che egli sa, non possiamo decidere se le sue decisioni erano giustificate; né possiamo sapere se il suo successo o fallimento è dovuto ai suoi sforzi e lungimiranza, o alla fortuna. In altre parole, dobbiamo guardare ai risultati, non alle intenzioni o alle motivazioni, e possiamo permettergli di agire secondo la propria conoscenza solo se gli consentiamo di conservare per sé ciò che i suoi simili sono disposti a pagargli per i servizi resi, indipendentemente dalla nostra opinione sulla misura appropriata del merito morale che ha guadagnato o dalla stima che abbiamo nei suoi confronti come persona.

Questa remunerazione, in accordo col valore dei servizi offerti da una persona, è spesso differente da ciò che pensa sia il suo merito morale. Questa, credo, sia la radice di tutta l'insoddisfazione nei confronti di un sistema di libera impresa e dell'acclamazione nei confronti di una "giustizia ridistributiva". Non è onesto né efficace negare che ci sia tale discrepanza tra il merito morale e la considerazione che una persona può guadagnarsi con le proprie azioni e, d'altra parte, il valore dei servizi per cui lo paghiamo. Se cercassimo di sorvolare questo fatto, o di mascherarlo, ci troveremmo  in una posizione completamente falsata. Né abbiamo alcuna necessità di farlo.



Remunerazioni materiali

Ritengo che uno dei grandi meriti di una società libera sia che la remunerazione materiale non è  dipendente dalla stima personale che la maggioranza dei nostri simili ha nei nostri confronti. Ciò significa che finché restiamo entro i limiti delle regole accettate, la pressione morale può essere applicata su di noi solo attraverso l'apprezzamento di coloro che noi stessi rispettiamo e non attraverso l'allocazione di ricompense materiali da parte di un'autorità sociale. È nell'essenza di una società libera remunerare materialmente non per fare ciò che altri ci ordinano di fare, ma perché diamo loro ciò che desiderano. La nostra condotta non dovrebbe essere guidata dal nostro desiderio del loro apprezzamento. Ma siamo liberi, poiché il successo dei nostri sforzi quotidiani non dipende dall'apprezzamento che alcune particolari persone hanno nei nostri confronti, o dei nostri principi, o della nostra religione, o delle nostre abitudini, e perché possiamo decidere se la ricompensa materiale che altri sono disposti a pagare per i nostri servizi ne rende conveniente la fornitura.

Raramente sappiamo se un'idea brillante che improvvisamente un uomo concepisce, e che può recare grande beneficio ai suoi simili, sia il risultato di anni di sforzi e di investimenti preparatori, o se sia un'ispirazione improvvisa indotta da un'accidentale combinazione di conoscenza e circostanza. Ma sappiamo che non varrebbe la pena prendersi il rischio se allo scopritore non fosse permesso di beneficiarne. E poiché non sappiamo come distinguere un caso dall'altro, dobbiamo perciò permettere ad un uomo di ottenere il guadagno quando il suo successo sia una questione di fortuna.



Il merito morale di una persona

Non voglio negarlo, vorrei piuttosto enfatizzare che nella nostra società la reputazione personale e il successo materiale sono troppo spesso legati l'uno all'altro. Dovremmo essere più attenti, poiché se riconosciamo ad un uomo la titolarità per un'alta ricompensa materiale, ciò non necessariamente lo investe di un'alta considerazione. E, sebbene ci sia spesso confusione su questo punto, non significa che tale confusione sia il risultato necessario del sistema di libera impresa – o che in generale il sistema di libera impresa sia più materialista di altri ordini sociali. Per molti aspetti mi sembra proprio il contrario.

Infatti la libera impresa ha sviluppato l'unico tipo di società che, mentre ci rifornisce di ampi mezzi materiali, se questo è ciò che principalmente desideriamo, lascia comunque l'individuo libero di scegliere tra una ricompensa materiale e una non materiale. La confusione – tra il valore che i servizi di un uomo hanno per i suoi simili e la reputazione che merita per il suo merito morale – potrebbe rendere materialistica una società di libera impresa. Ma il modo di prevenire questo esito non è certamente quello di controllare tutti i mezzi materiali, rendendo la distribuzione dei beni materiali l'obbiettivo principale di tutti gli sforzi comuni e, perciò, rendendo la politica e l'economia inestricabilmente vincolate.



Molte basi per un giudizio

È possibile per una società di libera impresa essere una società pluralista che non riconosca alcun ordine o rango, ma che abbia molti e diversi principi su cui basare la stima; laddove il successo mondiale non è né la sola prova né considerata prova certa del merito individuale. Potrebbe benissimo essere vero che periodi di rapida crescita della ricchezza, nei quali molto godono dei benefici della ricchezza per la prima volta, tendano a produrre una concentrazione nei confronti del miglioramento materiale. Fino alla recente ascesa europea, molti membri delle classi più agiate erano soliti denunciare come materialisti i periodi economicamente più attivi ai quali dovevano gli agi che permettevano loro di dedicarsi comodamente ad altre cose.



Progresso culturale

Periodi di grande creatività culturale e artistica sono generalmente seguiti da periodi di più rapida crescita in ricchezza. Ritengo che questo dimostri non che la società debba essere dominata da occupazioni materiali, ma che piuttosto con la libertà sia l'atmosfera morale nel più ampio senso, i valori a cui le persone si attengono, che determinerà la direzione principale delle loro attività. Gli individui, così come le comunità, quando percepiscono che altre cose sono divenute più importanti del progresso materiale, possono rivolgersi ad esse. Non è certamente attraverso lo sforzo di far coincidere il guadagno materiale col merito che possiamo proteggerci dal diventare troppo materialisti, bensì solo riconoscendo che ci sono altri e più importanti traguardi oltre al successo materiale.

È sicuramente ingiusto biasimare un sistema quale più materialista, perché lascia che sia l'individuo a decidere se preferisca il guadagno materiale ad altri tipi di eccellenza, anziché lasciare che questo sia deciso per lui. C'è effettivamente poco merito nell'essere idealisti se la fornitura dei mezzi materiali richiesti per questi scopi idealistici viene lasciata a qualcun altro. Solo se una persona può scegliere di fare un sacrificio materiale per un fine non materiale, allora ne merita il riconoscimento. Il desiderio di essere sollevati dalla scelta, e dal sacrificio personale, non mi sembra particolarmente idealista.

Ritengo che l'atmosfera dello Stato Sociale sia molto più materialista di quanto non lo sia una società di libera impresa. Se quest'ultima invita gli individui ad attribuire molto più scopo nel servire i propri simili attraverso il soddisfacimento dei bisogni puramente materialistici, dà loro anche l'opportunità di perseguire altri scopi che ritengono più importanti. Bisogna tenere a mente, comunque, che il puro idealismo di un obiettivo è discutibile quantunque i mezzi materiali necessari affinché esso venga conseguito sono creati da altri.



Mezzi e fini

Concludendo, vorrei per un momento ritornare al punto da cui sono partito. Quando difendiamo il sistema della libera impresa dobbiamo sempre ricordare che ha a che fare esclusivamente con i mezzi. Ciò che facciamo con la nostra libertà dipende da noi. Non dobbiamo confondere l'efficienza nel fornire i mezzi, con i propositi a cui servono. Una società che non ha altri standard se non l'efficienza, indubbiamente sprecherà quell'efficienza. Se gli uomini devono essere liberi di usare i loro talenti per fornirci i mezzi che desideriamo, dobbiamo ricompensarli in funzione col valore che questi mezzi hanno per noi. Ciononostante dovremmo stimare questi uomini solo in funzione dell'uso che fanno dei mezzi a loro disposizione.

Incoraggiamo dunque l'utilità verso i propri simili in tutti i modi, ma non facciamoci confondere con l'importanza dei fini a cui gli uomini in ultima analisi aspirano. È la gloria del sistema della libera impresa che rende possibile che ogni individuo, servendo il prossimo, possa così fare lo stesso per i propri fini. Ma il sistema è esso stesso solo un mezzo, e le sue infinite possibilità devono essere messe al servizio dei fini che esistono separatamente.


[*] traduzione di Giuseppe Jordan Tagliabue per Francesco Simoncelli's Freedonia: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


lunedì 25 aprile 2016

Il declino del principio di legalità





di F. A. Hayek


La saggezza politica, acquisita attraverso l'amara esperienza delle varie generazioni, spesso sbiadisce lungo il graduale cambiamento del significato delle parole che esprimono le sue massime. Sebbene l'apparenza delle frasi rimanga la stessa, vengono lentamente spogliate del loro significato originale fino a quando risultano vuote e banali. Infine, un ideale per il quale le persone hanno combattuto con passione in passato, cade nel dimenticatoio perché manca di un appellativo generalmente inteso. Se la storia dei concetti politici è in generale d'interesse solo per lo specialista, in tali situazioni spesso non c'è altro modo di scoprire ciò che sta accadendo se non tornare alla fonte, al fine di recuperare il significato originario del fonema che usiamo ancora. Al giorno d'oggi questo è certamente vero per il concetto di Principio di Legalità, il quale era l'ideale fondamentale della libertà degli inglesi, ma che ora sembra aver perso sia il suo significato sia il suo fascino.

Ci sono pochi dubbi circa la fonte da cui gli inglesi del tardo periodo Tudor e all'inizio di quello Stuart, hanno estrapolato l'ideale politico per cui i loro figli avrebbero combattuto nel XVII secolo; è stata la riscoperta della filosofia politica dell'antica Grecia e dell'antica Roma che, come sostenne Thomas Hobbes, ha ispirato il nuovo entusiasmo per la libertà. Ma se ci chiediamo quali fossero quelle caratteristiche nell'insegnamento degli antichi che scatenassero quel loro grande appeal, la risposta degli accademici moderni non è troppo chiara. Non dobbiamo prendere sul serio l'affermazione di moda secondo cui la libertà personale non esisteva nell'Atene antica: tutto ciò che può essere stato vero per la democrazia degenere contro la quale reagì Platone, non era certamente vero per quegli ateniesi i cui generali, in un periodo di estremo pericolo durante la spedizione in Sicilia, dichiararono di combattere per un paese in cui avevano "discrezionalità illimitata per vivere a loro piacimento". Ma da dov'è emersa questa libertà nel "più libero tra i paesi liberi", come lo definì Nicia, tanto da illuminare sia i Greci stessi sia gli elisabettiani?

La risposta risiede in parte in una parola greca che gli elisabettiani hanno preso in prestito dai Greci, ma che sin da allora è caduta in disuso; la sua storia, sia nell'antica Grecia sia successivamente, ci offre una curiosa lezione. Il termine Isonomia appare nel 1598 nell'opera di John Florio, World of Wordes, ed è una parola italiana che significa "leggi uguali per tutte le persone"; due anni dopo viene tradotta in inglese, "isonomy", da Philemon Holland nella sua traduzione di Livio in cui viene descritta una situazione in cui le leggi sono uguali per tutti e i magistrati hanno la loro dose di responsabilità di fronte ad esse. Poi è stata utilizzata con una certa frequenza durante il XVII secolo, e "uguaglianza di fronte alla legge", "stato di diritto" e "principio di legalità", sembrano essere solamente interpretazioni successive del concetto descritto dal termine greco.



Leggi uguali per tutti

La storia della parola in greco antico è di per sé istruttiva. Era un termine molto antico che aveva preceduto quello di Demokratia, come nome per un ideale politico. Per Erodoto era "il più bello di tutti i nomi" per un ordine politico. La necessità di leggi uguali per tutti, concetto intrinseco a tale termine, rappresentava una rivolta contro la tirannia. Dopo che venne raggiunta la democrazia, il termine continuò ad essere utilizzato come giustificazione e poi come travestimento del carattere vero della democrazia: il governo democratico avrebbe presto proceduto a distruggere quella stessa uguaglianza davanti alla legge da cui aveva derivato la sua giustificazione. I Greci avevano pienamente compreso che i due concetti, anche se correlati, non avevano lo stesso significato. Tucidide parla senza esitazione di un "un'oligarchia isonomica"; e poi scopriamo che isonomia è stato un termine usato anche da Platone in contrasto con la democrazia, piuttosto che in suo favore.

Alla luce di questo sviluppo i passaggi celebri di Politica di Aristotele, in cui egli discute i diversi tipi di democrazia, anche se non utilizza più il termine isonomia, sono in sostanza una difesa di questo vecchio ideale. I lettori probabilmente ricorderanno come egli sottolinea che "è più corretto che sia la legge a disciplinare piuttosto che uno qualunque dei cittadini", che le persone in possesso di potere supremo "dovrebbero essere nominate solo come custodi e servitori della legge", e in particolare come condanna il tipo di governo sotto il quale "governano le persone e non la legge". Tale governo, secondo lui, non può essere considerato come uno stato libero: "Poiché quando il governo non è nelle leggi, allora non c'è stato libero, poiché la legge dovrebbe essere suprema su tutte le cose"; egli sostiene anche che "qualsiasi struttura di questo genere che concentra tutto il potere nei voti delle persone non può chiamarsi democrazia, poiché i suoi decreti non possono essere definiti generali nella loro estensione". Insieme con l'altrettanto famoso passo in Retorica, in cui sostiene che "è importante che le leggi definiscano quanti più punti possibili in modo da lasciarne il meno possibile alle decisioni dei giudici", abbiamo una dottrina piuttosto coerente di governo della legge.

Quanto tutto questo significasse per gli Ateniesi, lo dimostra un racconto di Demostene su una legge introdotta da un ateniese in base alla quale "non era lecito proporre una legge che colpisse un individuo, a meno che la stessa non valesse per tutti gli Ateniesi", perché egli era del parere che "ogni cittadino ha una quota uguale di diritti civili, cosicché tutti dovrebbero avere una quota uguale nelle leggi". Anche se, come Aristotele, Demostene non utilizza più il termine isonomia, l'affermazione è poco più di una parafrasi del vecchio concetto.



La riscoperta nel XVII secolo

Una controversia tra Hobbes e Harrington, sull'origine della formula "governo delle leggi e non degli uomini", indica com'erano vivi questi punti di vista degli antichi filosofi nella mente dei pensatori politici del XVII secolo. Hobbes l'aveva descritto come "l'ennesimo errore della politica di Aristotele, poiché in una repubblica ben ordinata non dovrebbero governare gli uomini bensì le leggi". Harrington replicò che "una società civile basata sul fondamento del diritto o dell'interesse comune" deve "seguire Aristotele e Livio [...] l'impero delle leggi, non degli uomini".

A quanto pare per gli inglesi del XVII secolo gli autori latini, in particolare Livio, Cicerone e Tacito, divennero fonti sempre più importanti di filosofia politica. Ma anche se non consultarono la traduzione olandese di Livio, dove avrebbero trovato la parola, era ancora l'ideale greco dell'isonomia a cui facevano riferimento in tutti i loro punti cruciali. Omnes legum servi sumus ut liberi esse possumus di Cicerone [siamo tutti servi delle leggi in modo da poter essere liberi] (ripetuto più tardi, quasi parola per parola, da Voltaire, Montesquieu e Kant) è l'espressione più concisa dell'ideale di libertà sotto la legge. Durante il periodo classico del Diritto Romano si ricomprese come non ci fosse alcun conflitto tra la libertà e la legge; soprattutto come le sue generalità, certezze e restrizioni ponessero limiti all'autorità, condizione essenziale per la libertà. Questa condizione durò fino a quando la legge inflessibile (strictum ius) venne progressivamente abbandonata nell'interesse di una nuova politica sociale. L'egregio studioso del Diritto Romano, F. Pringsheim, ha descritto questo processo sin dalle sue origini sotto l'imperatore Costantino:

L'impero assoluto proclamò, insieme al principio di equità, che l'autorità della volontà imperiale fosse avulsa dalla barriera del diritto. Giustiniano con i suoi dotti professori portò questo processo alla sua conclusione.



Lotta per la libertà economica

Quando si tratta di mostrare ciò che gli inglesi dei secoli XVII e XVIII hanno prodotto con la tradizione classica che avevano riscoperto, dobbiamo per forza di cose snocciolare qualche citazione. Ma molte delle espressioni più significative ed istruttive della dottrina alla base, così come s'è sviluppata, purtroppo sono meno note di quello che in realtà avrebbero meritato. Né oggi viene ricordato che la lotta decisiva fra il Re e il Parlamento, che ha comportato l'identificazione e l'elaborazione del Principio di Legalità, è stata combattuta principalmente sul tipo di questioni economiche che ancora oggi sono al centro delle varie polemiche. Per gli storici del XIX secolo le misure di Giacomo I e Carlo I, le quali generarono un conflitto, sembravano abusi antiquati senza attualità. Oggi alcune di queste controversie hanno qualcosa di straordinariamente familiare. (Nel 1628 Carlo I evitò di nazionalizzare il carbone solo quando gli venne fatto notare che ciò avrebbe potuto provocare una ribellione!)

Fu la richiesta di leggi uguali per tutti i cittadini che permise al Parlamento d'opporsi agli sforzi del re per regolare la vita economica. Gli uomini sembravano aver capito, meglio di quanto non accada oggi, che il controllo della produzione significa sempre creazione di privilegi: dare il permesso a Pietro di fare ciò che Paolo non è autorizzato a fare. La prima grande affermazione rappresentate il Principio di Legalità, ovvero, leggi certe e uguali per tutti e limitazione delle discrezionalità amministrative, è contenuta nella Petizione dei Reclami del 1610; nacque a seguito delle nuove norme per la costruzione a Londra e il divieto di produzione di amido di frumento. In quella occasione la Camera dei Comuni si pronunciò così:

Tra i molti altri punti di felicità e di libertà che i sottoposti di Vostra Maestà hanno goduto, il più caro e prezioso è il seguente: essere guidati e governati dalla certezza del principio di legalità, il quale dà sia al capo sia alle membra ciò che appartiene loro di diritto, senza lasciare spazio ad una forma di governo incerta ed arbitraria. [...] Da questa radice è sbocciato il diritto incontestabile del popolo di questo regno: non essere soggetto a subire alcuna punizione che si estenda alle loro vite, terre, corpi, o beni, diversa da quella che viene ordinata dal diritto comune di questa terra o dagli statuti redatti in Parlamento.

L'ulteriore sviluppo di quella che i giuristi socialisti contemporanei hanno sprezzantemente respinto come dottrina Whig del Principio di Legalità, è stato strettamente connesso alla lotta contro il monopolio statale e in particolare alla discussione riguardante lo Statuto dei Monopoli del 1624. È stato proprio a questo proposito che quella grande fonte di dottrina Whig, Sir Edward Coke, sviluppò la sua interpretazione della Magna Carta e che lo portò a dichiarare (nel suo Institutes):

Se ad un qualsiasi uomo venisse fatta una concessione, occuparsi di carte o trattare per fare affari, tale concessione sarebbe contro la libertà e la libertà del soggetto [...] e di conseguenza contro questa grande Carta.

Abbiamo già riportato le posizioni caratteristiche espresse da Hobbes e Harrington. Qui non ci interessa rintracciare quei passi concernenti lo sviluppo della dottrina e passeremo sopra anche all'esposizione classica di John Locke, fatta eccezione per una delle sue affermazioni raramente citate. Il suo obiettivo è quello che gli scrittori contemporanei hanno definito "addomesticamento del potere":

Le leggi sono state fatte [...] per limitare il potere e moderare il dominio di ogni parte e membro della società.

La forma in cui la dottrina è diventata proprietà comune degli inglesi, è stata determinata più dagli storici che hanno presentato le conquiste della rivoluzione alle generazioni successive che dagli scritti dei teorici politici. Quindi se vogliamo sapere cos'ha significato la tradizione in questione per l'inglese di fine XVIII e inizio XIX secolo, non possiamo far altro che rivolgerci a History of England di David Hume per ottenere un'interpretazione riguardo il progresso politico dal "governo della volontà" al "governo del diritto". C'è un passaggio in particolare, che fa riferimento alla soppressione della Star Chamber nel 1641, il quale mostra quello che egli riteneva il significato principale degli sviluppi costituzionali del XVII secolo:

Nessun governo, a quel tempo o in qualsiasi altro tempo, è sopravvissuto senza una certa autorità arbitraria; e credo sia chiaro il perché la società umana non potrà mai arrivare ad uno stato di perfezione senza adottare massime generali e rigide della legge e dell' equità. Ma il Parlamento pensò giustamente che il re, dato il suo potere discrezionale, fosse un magistrato troppo eminente per essere attendibile, il quale avrebbe potuto facilmente portare alla distruzione della libertà. E nel caso in cui si riscontrassero alcuni inconvenienti quando si aderisce strettamente alla legge, i vantaggi li controbilancerebbero, tanto da rendere l'inglese per sempre grato alla memoria dei suoi antenati che stabilirono questo nobile principio.

In seguito questa dottrina Whig ha trovato la sua espressione classica in molti passaggi familiari di Edmund Burke. Ma se vogliamo una dichiarazione più precisa del suo contenuto, dobbiamo rivolgerci ad alcuni dei suoi contemporanei meno conosciuti. Una dichiarazione caratteristica è stata attribuita a Sir Philip Francis ed è la seguente:

Il governo d'Inghilterra è un governo della legge. Tradiamo noi stessi se siamo in contrasto con lo spirito delle nostre leggi; inoltre sovvertiamo l'intero sistema della giurisprudenza inglese ogni volta che affidiamo ad un potere discrezionale la vita, la libertà, o la fortuna degli individui, sulla presunzione che non sarà abusato.

Che io sappia, la massima considerazione della logica dietro a tutta questa dottrina la ritroviamo nel capitolo "Of the Administration of Justice" del libro Principles of Moral and Political Philosophy di Archdeacon Paley:

La prima massima di uno stato libero è che le leggi siano fatte da un gruppo di uomini e gestite da un altro; in altre parole, che il carattere legislativo e quello giudiziale siano tenuti separati. Quando questi uffici sono uniti nella stessa persona o commissione, vengono approvate leggi particolari per casi particolari, spesso scaturite da motivi parziali e indirizzate a fini privati; mentre se sono tenuti separati, le leggi generali saranno approvate da un gruppo di uomini senza che possano prevedere su chi andranno ad incidere; e, quando approvate, verranno applicate da altri [...].

Il Parlamento non sa su quali individui ricadranno i suoi atti; non ha tesi o parti che lo costituiscano; nessun progetto privato da servire; di conseguenza le sue risoluzioni saranno suggerite dalla considerazione degli effetti e dalle tendenze universali, le quali producono sempre regolamenti imparziali e comunemente vantaggiosi.

Qui, a mio avviso, abbiamo quasi tutti gli elementi che insieme producono la dottrina complessa che il XIX secolo ha definito Principio di Legalità. Il punto principale è che, dati i suoi poteri coercitivi, la discrezionalità delle autorità dovrebbe essere strettamente vincolata da leggi stabilite in anticipo in modo che l'individuo possa prevedere con certezza come verranno utilizzati questi poteri in casi particolari; e che le leggi stesse siano veramente generali e non creino privilegi per una classe o una persona, ovvero, che vengano approvate in considerazione dei loro effetti di lungo periodo e quindi nell'ignoranza più assoluta su quali saranno i singoli individui che ne beneficeranno o ne verranno danneggiati. Che la legge debba essere uno strumento utilizzato dagli individui per i loro fini e non uno strumento utilizzato dai legislatori sulla gente, rappresenta il senso ultimo del Principio di Legalità.

Dal momento che questo Principio di Legalità è una sorta di governo, un governo di ciò che dovrebbe essere la legge, non potrà mai essere un governo di diritto positivo. Il legislatore non potrà mai limitare efficacemente i suoi poteri. Il governo è piuttosto un principio meta-legale che può operare solo attraverso la sua azione sull'opinione pubblica. Finché godrà di fiducia, conserverà la sua legislazione entro i limiti del Principio di Legalità. Una volta che non sarà più accettato o comprensibile all'opinione pubblica, ben presto la legge stessa sarà in conflitto con il Principio di Legalità.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


giovedì 24 dicembre 2015

La scelta della moneta: un modo per fermare l'inflazione

Cari lettori di Freedonia, visto che siamo alle porte del Natale voglio farvi un regalo che sicuramente gradirete. Infatti, il seguente è uno dei migliori saggi scritti da F. A. Hayek e sebbene sia stato scritto nel 1976 la sua valenza nel presente è assolutamente forte. Questa è una difesa della libertà allo stato puro, senza sponsorizzazioni di questa o quella moneta ma solo il sostegno della libertà e della responsabilità individuali su cui una società libera dovrebbe fondarsi. In questo saggio Hayek sfida tutti i riformatori monetari, chiamandoli a sottoscrivere una proposta che non possono rifiutare: lasciare libere le persone di scegliere la loro moneta di fiducia, senza imposizione alcuna. Solo in questo modo, ovvero, attraverso la concorrenza, potrebbe emergere quella merce destinata ad essere denaro. E il risultato sarebbe inoppugnabile, lasciando la libertà anche alle minoranze di poter utilizzare la moneta di loro gradimento. Infatti è questo il più grande inganno della democrazia moderna: forzare i dissidenti a sottostare alla volontà dei molti. Ed è questo il grande inganno del corso legale: forzare i dissidenti ad utilizzare una moneta da loro sgradita. Eliminate il corso legale ed eliminerete la maggior parte dei problemi che oggi attanagliano il mercato monetario. Questo è un saggio importante sotto tanti aspetti, perché rappresenta la base di una riforma che potrebbe prendere piedi domani stesso, una riforma che cambierebbe gli incentivi istituzionali cui sono sottoposte le banche centrali. Questo, in sintesi, non è un piano per ristabilire una qualsivoglia forma di moneta, bensì un piano per limitare il potere strabordante delle banche centrali.
Se poi, cari lettori, oltre ad apprezzare le letture che potete trovare giornalmente su questo blog, desiderate dimostrare anche un po' d'apprezzamento "materiale", vi invito a lasciare una donazione utilizzando l'apposito pulsante "Donazione" che trovate sulla colonna di destra sotto la dicitura "Sostieni Freedonia". Grazie a tutti voi e buon Natale.
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di Friedrich A. Hayek


Prefazione

Gli Occasional Papers hanno lo scopo d'aumentare l'importanza di alcuni saggi o discorsi, rendendoli accessibili ad un pubblico più ampio di quello a cui erano inizialmente indirizzati. Questa raccolta ha finora incluso tra le sue fila alcuni grandi economisti della Gran Bretagna e del mondo, ma anche nomi meno noti.

Il saggio numero 48, in particolare, è una versione modificata di un discorso del professor F. A. Hayek ad una conferenza in Svizzera. In un certo senso si tratta di un seguito del numero 45, in cui il professor Hayek sosteneva che la causa della disoccupazione non era una domanda inadeguata derivante da un reddito totale inadeguato, bensì sproporzioni nei salari relativi necessarie per equiparare la domanda di lavoro e la sua offerta in ogni settore dell'economia. L'errore di supporre che la piena occupazione, una produzione intensiva e il benessere possano essere conservati ampliando la spesa totale, viene descritto in questo documento come la superstizione secolare che diede autorità scientifica a Keynes e ai suoi seguaci.

In questo saggio il professor Hayek considera le condizioni in base alle quali lo stato espande la spesa totale attraverso l'aumento della quantità di denaro. Secondo Hayek la storia indica che, prima o poi, il controllo dell'offerta di denaro da parte dello stato finisce sempre in inflazione. Da qui lo sviluppo di sistemi monetari nazionali e internazionali basati sull'oro e su altri dispositivi in ​​grado di rimuovere quei poteri sul denaro di cui lo stato sempre abusa.

La tesi opposta, sostenuta fortemente negli ultimi anni in Gran Bretagna, recita che se lo stato fosse libero da regole rigide (es. tassi di cambio fissi) nella gestione monetaria nazionale o estera, sarebbe meglio in grado d'agire per il bene generale. Sta di fatto che queste regole non sono mai state rispettate, perché, sebbene fossero abbastanza chiare, lo stato ha ritenuto politicamente accettabile infrangerle. Questo non è un dubbio teorico che si chiede se lo stato possa migliorarsi in presenza di un sistema monetario automatico o semi-automatico, come un gold standard o un gold-exchange standard in cui l'offerta e il valore del denaro sono esclusi dal controllo politico. Si tratta di un giudizio pratico in economia politica: uno stato sottoposto a pressioni elettorali non sarà in grado di rimanere fedele alle regole, anche se ciò significa dislocazioni transitorie e disoccupazione.

Pertanto il professor Hayek sostiene che i tempi sono maturi per togliere allo stato quel potere che obbliga i suoi cittadini ad utilizzare una determinata forma di denaro. E, in ultima analisi, ciò richiederebbe l'eliminazione del corso legale. In realtà non si vuole privare lo stato del potere d'emettere denaro, ma di negargli il diritto esclusivo d'emetterlo e di conseguenza costringere i cittadini ad utilizzarlo a prezzi specifici. È quindi il monopolio statale sul denaro la questione cruciale, e la storia è piena d'esempi di stati che hanno tentato di far valere il loro potere con misure estreme, tra cui la sanzione suprema della morte.

La soluzione è quindi quella di permettere alle persone d'utilizzare quel tipo di denaro che ritengono più conveniente, sia emesso dallo stato o da altri soggetti. Il professor Hayek sostiene che questo sistema sarebbe più desiderabile e praticabile rispetto ad un'Unità Monetaria Europea.

Tale proposta può sembrare inverosimile dopo secoli in cui s'è ritenuto che una delle funzioni essenziali dello stato fosse quella di fornire una moneta su cui i cittadini avrebbero potuto fare affidamento come unità di conto e mezzo di scambio, una funzione che ha incluso il concetto di moneta a corso legale. Il professor Hayek nega che il corso legale sia una parte essenziale della funzione monetaria. Egli sostiene che gli individui dovrebbero essere liberi di rifiutare quella moneta di cui diffidano e favorire, invece, quella in cui hanno fiducia. È questo potere di rifiutare il denaro nazionale che indurrebbe gli stati a garantire la stabilità nel tempo del suo valore. Quindi il professor Hayek abbraccia la tesi di un nuovo tipo di moneta internazionale.

In questi Occasional Papers il professor Hayek ha fornito analisi stimolanti su un problema contemporaneo, proponendo una soluzione radicale. Egli illustra quei modi in cui il sistema potrebbe funzionare in pratica e risponde alle relative obiezioni. Discute degli effetti che avrà sui sistemi bancari, e così facendo fornisce un commento sul dibattito in corso che concerne il denaro e l'inflazione. Non è una sorpresa, quindi, se egli ritiene un'autorità monetaria internazionale tanto inutile quanto una nazionale. La sua visione limiterebbe lo stato ad una serie di ruoli giuridici, dimodoché le persone possano sviluppare le istituzioni monetarie che meglio si adattano ai loro desideri.

Per indicare la possibile applicazione pratica delle proposte del professor Hayek abbiamo accolto le osservazioni di due economisti e due politici di alto livello, i quali hanno anche ricoperto alte cariche di governo. Gli economisti sono il professor Ivor Pearce e il professor Harold Rose. Mentre i politici sono l'onorevole Douglas Jay e Sir Keith Joseph, entrambi membri dell'All Souls College, Oxford, e particolarmente interessati alle questioni economiche.

Per illustrare il tema, Miss Sudha Shenoy ha raccolto estratti economici e storici su come i governi francesi e tedeschi abbiano fallito nel tentativo di limitare l'uso del denaro attraverso sanzioni severe, su come il valore del denaro fiat a corso legale sia calato a seguito d'un aumento della sua offerta durante periodi d'inflazione, e su some il governo degli Stati Uniti abbia vietato l'utilizzo di monete diverse dal dollaro.

Novembre 1975, Arthur Seldon



1. Denaro, Keynes e Storia[1]

La radice di tutti i nostri problemi monetari è la benedizione che l'autorità scientifica, costituita da Lord Keynes e dai suoi discepoli, ha dato alla superstizione secolare secondo cui aumentare l'aggregato della spesa monetaria significa garantire una prosperità duratura e una piena occupazione. Si tratta di una superstizione contro la quale gli economisti prima di Keynes avevano lottato per almeno due secoli.[2] Aveva infestato la maggior parte della storia precedente. Questa storia, infatti, è stata sostanzialmente una storia d'inflazione; solo negli ultimi 200 anni circa, durante l'ascesa dei moderni sistemi industriali e durante l'era del gold standard (in Gran Bretagna dal 1714 al 1914 e negli Stati Uniti dal 1749 al 1939), i prezzi sono rimasti pressoché invariati. Durante tale periodo di stabilità monetaria, il gold standard aveva imposto alle autorità monetarie una disciplina che impediva loro di abusare dei loro poteri, come fecero invece quasi tutte le altre volte. L'esperienza in altre parti del mondo non è stata molto diversa: sono venuto a conoscenza di una legge cinese che tentava di vietare una volta per tutte la cartamoneta (ovviamente inefficace), molto tempo prima che gli europei la inventassero!


La Riabilitazione Keynesiana

È stato John Maynard Keynes, un uomo di grande intelligenza ma limitata conoscenza della teoria economica, che alla fine è riuscito a riabilitare le fallacie che il tempo e la costanza avevano smentito. Rivestendole con un alone di novità, le sue nuove teorie andavano a giustificare quello stesso punto di vista plausibile e superficiale che era stato propugnato da molti uomini prima di lui, ma che non era stato in grado di resistere ad un'analisi rigorosa del meccanismo dei prezzi: così come non può esistere un prezzo uniforme per tutti i tipi di lavoro, nessuno può assicurare una parità tra domanda e offerta di lavoro attraverso la manipolazione della domanda aggregata. Il volume di occupazione dipende dalla corrispondenza tra domanda e offerta in ogni settore dell'economia, e pertanto anche la struttura salariale e la distribuzione della domanda tra i settori. La conseguenza è che nel lungo termine il rimedio keynesiano non cura la disoccupazione, ma la peggiora.

Le tesi fallaci di un personaggio pubblico eminente e polemista brillante non solo hanno conquistato l'opinione pubblica, ma, dopo la sua morte, anche il giudizio accademico. Sir John Hicks ha addirittura proposto che chiamassimo la terza porzione di questo secolo, 1950-1975, l'era di Keynes, poiché la seconda è stata l'era di Hitler.[3] Non credo che il danno arrecato da Keynes sia davvero così grande da giustificare una tale descrizione. Ma è vero che, fino a quando le sue prescrizioni sembravano funzionare, sono state trattate alla stregua di un'ortodossia a cui era inutile opporsi.


Confessione Personale

Spesso mi sono rimproverato di aver rinunciato alla lotta dopo aver speso molto tempo ed energie a criticare la prima versione del quadro teorico di Keynes. Solo dopo la pubblicazione della seconda parte della mia critica mi disse di aver cambiato idea e di non credere più in quello che aveva detto in Treatise on Money del 1930 (un po' ingiusto da parte sua, perché continuo a credere che il Volume II di quel libro contenga alcuni dei migliori lavori che abbia mai fatto). In ogni caso, mi è sembrato un po' inutile tornare alla carica, perché sembrava intenzionato a cambiare di nuovo le sue opinioni. Quando è diventato evidente che la sua nuova versione — la Teoria Generale del 1936 — aveva conquistato la maggior parte del mondo accademico, e quando alla fine anche alcuni dei colleghi che più rispettavo sostenevano l'accordo di Bretton Woods del tutto keynesiano, ho deciso di ritirarmi dal dibattito. A mio modo di vedere, proclamare il mio dissenso riguardo i punti di vista quasi unanimi della falange ortodossa mi avrebbe privato dell'attenzione su altre questioni di cui all'epoca ero più preoccupato. (Credo, tuttavia, che, per quanto riguarda alcuni dei migliori economisti inglesi, il loro sostegno a Bretton Woods era determinato più che altro da un patriottismo sbagliato — la speranza che avrebbe giovato alla Gran Bretagna piuttosto che consegnare al mondo un ordine monetario internazionale soddisfacente.)



2. La Fabbricazione della Disoccupazione

Ho descritto il punto cruciale di questa discussione esattamente 36 anni fa:

Non credo sia mai stato negato che l'occupazione possa essere aumentata rapidamente attraverso un'espansione monetaria, e di conseguenza raggiungere una posizione di "piena occupazione" nel più breve tempo possibile — idea sostenuta da economisti la cui prospettiva è stata influenzata dall'esperienza di una grande inflazione. Tutto ciò che è stato asserito è che il tipo di piena occupazione che può essere creato in questo modo è intrinsecamente instabile, e creare occupazione con questi mezzi significa perpetuare le fluttuazioni. Ci possono essere situazioni disperate in cui può essere necessario aumentare l'occupazione a tutti i costi, anche se solo per un breve periodo — forse la situazione in cui si trovò il dottor Brüning nel 1932 in Germania poteva giustificare mezzi disperati. Ma l'economista non deve nascondere il fatto che puntare alla piena occupazione attraverso la politica monetaria, significa essenzialmente attuare la politica della disperazione dove non si ha nulla da perdere e tutto da guadagnare.[4]

Per questo ora vorrei aggiungere, in risposta al costante travisamento dei miei punti di vista da parte dei politici, a cui piace immaginarmi come una specie di spauracchio la cui influenza rende i partiti pericolosamente conservatori, quello che ho sottolineo e dichiarato nove mesi fa al discorso di accettazione del mio Premio Nobel:

La verità è che siamo stati condotti su una posizione fallace a causa di una visione teorica sbagliata, in cui non possiamo impedire la riapparizione di una pesante disoccupazione: non perché questa disoccupazione sia stata deliberatamente perseguita come un mezzo per combattere l'inflazione, ma perché è una conseguenza inevitabile delle deplorevoli politiche sbagliate del passato non appena l'inflazione cessa di accelerare.[5]


Disoccupazione Attraverso “Politiche di Piena Occupazione”

Questa fabbricazione di disoccupazione mediante quelle che vengono chiamate "politiche della piena occupazione", è un processo complesso. In sostanza opera mediante modifiche temporanee nella distribuzione della domanda, spingendo i lavoratori, sia disoccupati sia impiegati, in posti di lavoro che scompariranno con la fine dell'inflazione. Nelle crisi periodiche degli anni pre-1914, l'espansione del credito durante i boom serviva in gran parte per finanziare gli investimenti industriali, e la successiva disoccupazione si verificava soprattutto nelle industrie che producevano beni strumentali. Nell'inflazione progettata degli ultimi decenni, le cose sono diventate un po' più complesse.

Cosa accadrà nel corso di una grande inflazione è illustrato da un'osservazione dei primi anni '20 che molti dei miei contemporanei viennesi confermeranno: molti dei famosi caffè furono cacciati dai luoghi migliori della città per far spazio a nuovi uffici bancari, ma tornarono dopo la crisi quando il numero delle banche si era contratto e migliaia di impiegati di banca andavano ad ingrossare le fila dei disoccupati.


La Generazione Perduta

L'intera teoria alla base delle politiche della piena occupazione è stata ormai completamente screditata dall'esperienza degli ultimi anni. Di conseguenza gli economisti stanno cominciando a scoprire i suoi difetti intellettuali che avrebbero dovuto vedere ben prima. Eppure temo che la teoria ci darà ancora un sacco di problemi: ci ha lasciato con una generazione perduta di economisti che non ha imparato nient'altro. Uno dei nostri problemi principali sarà quello di proteggere il nostro denaro contro quegli economisti che continueranno ad offrire i loro rimedi da ciarlatani, la cui efficacia di breve termine continuerà a garantire loro popolarità. Sopravviverà tra quei dottrinari ciechi che sono sempre stati convinti di avere la chiave per la salvezza.


Il Centesimo del 1863

Di conseguenza, anche se non può più essere negata la rapida discesa della dottrina keynesiana dal piedistallo della rispettabilità intellettuale, resta ancora una minaccia grave alla possibilità di una politica monetaria sensata. Né le persone hanno pienamente compreso quanti danni irreparabili abbia già arrecato, soprattutto in Gran Bretagna, il suo paese d'origine. E' praticamente scomparso quel senso di rispettabilità finanziaria che un tempo guidava la politica monetaria britannica. Da modello da imitare, in pochi anni la Gran Bretagna è diventata un monito per il resto del mondo. Questo decadimento mi è parso più lampante dopo un curioso episodio: ho trovato in un cassetto della mia scrivania un centesimo britannico datato 1863 che circa 12 anni fa, quando aveva esattamente cento anni, mi è stato dato come resto da un conducente di autobus di Londra e che ho portato in Germania per mostrare ai miei studenti cosa significasse stabilità monetaria di lungo periodo. Credo che ne siano rimasti impressionati. Ma mi riderebbero in faccia se ora citassi la Gran Bretagna come esempio di stabilità monetaria.



3. La Debolezza del Controllo Politico sul Denaro

Un uomo saggio avrebbe dovuto prevedere che meno di 30 anni dopo la nazionalizzazione della Banca d'Inghilterra, il potere d'acquisto della sterlina sarebbe stato ridotto a meno di un quarto di quello che era prima di quella data. Com'è successo in tutto il mondo, il controllo statale sulla quantità di denaro s'è dimostrato ancora una volta fatale. E' impossibile che un'autorità monetaria nazionale o internazionale, per quanto intelligente possa essere, sia in grado di far meglio di un gold standard internazionale, o di un qualsiasi altro tipo di sistema automatico. Non c'è la minima speranza che un qualsiasi governo, o una qualsiasi istituzione soggetta a pressioni politiche, sarà mai in grado di agire in tal modo.


Gruppi d'Interesse Dannosi

Non mi sono mai fatto tante illusioni in tal senso, ma devo confessare che nel corso della mia vita l'opinione nei confronti dello stato è costantemente peggiorata: più cerca d'agire in modo intelligente (seguendo alla lettera le leggi), più danni arreca — perché una volta che diviene noto qual è l'obiettivo a cui punta (piuttosto che conservare un ordine spontaneo auto-correttivo), sarà sempre più difficile evitare di servire gli interessi settoriali. E le esigenze dei gruppi d'interesse sono quasi sempre dannose — tranne quando protestano contro le restrizioni imposte loro e che vanno a beneficio di altri gruppi d'interesse. Non mi sento per niente rassicurato dal fatto che i funzionari statali possano essere per lo più intelligenti, muniti di buone intenzioni ed onesti... almeno in alcuni paesi. Il punto è che se i governi devono rimanere in carica secondo l'ordine politico prevalente, non hanno altra scelta che usare i loro poteri a favore di gruppi d'interesse — e un interesse forte ottiene sempre denaro extra per le spese in più. Nonostante la pericolosità dell'inflazione, ci saranno sempre gruppi di persone, inclusi quelli a cui si rivolgerà sempre lo stato per la loro inclinazione collettivista, che nel breve periodo vi trarranno profitto — anche solo per allontanare temporaneamente lo spauracchio della perdita di reddito, che secondo la natura umana è addirittura in grado di traghettare fuori da una crisi.


Ricostruire l'Opposizione all'Inflazione

La richiesta pressante per una maggiore quantità di denaro ha rappresentato una forza politica sempre presente a cui le autorità monetarie non sono mai state in grado di resistere, a meno che non avessero potuto sfruttare un ostacolo che avesse reso impossibile il soddisfacimento di tale richiesta. E diventa ancora più irresistibile quando i gruppi d'interesse possono ricorrere ad un'immagine sempre più irriconoscibile di San Maynard. La necessità più urgente, quindi, è quella d'innalzare nuove difese contro i vari assalti scagliati dalle forme popolari di keynesismo, cioè, ripristinare quelle restrizioni che sono state sistematicamente smantellate dai suoi cosiddetti discepoli inneggianti alla sua teoria. La funzione principale del gold standard, dei bilanci in pareggio, della contrazione del circolante in caso di deficit e della limitazione dell'offerta di "liquidità internazionale", era quella di rendere impossibile la capitolazione delle autorità monetarie davanti alle pressioni per un'espansione monetaria. Ed è proprio per questo motivo che tutte queste misure di salvaguardia contro l'inflazione, che hanno permesso ai governi di resistere alle esigenze dei gruppi d'interesse, sono state rimosse su istigazione di economisti inebriati dalla credenza che se i governi fossero stati liberi dalle catene di regole meccaniche, sarebbero stati in grado di agire con saggezza e per il bene generale.

Non credo che ora possiamo porre rimedio a questa situazione con l'inaugurazione di un qualche nuovo ordine monetario internazionale, sia che si tratti di una nuova autorità internazionale monetaria, o di un accordo internazionale pronto ad adottare un particolare meccanismo o sistema di politica, come il gold standard classico. Sono convinto che qualsiasi tentativo di ripristinare il gold standard attraverso un accordo internazionale, verrebbe rotto in tempi brevi e si limiterebbe solamente a screditare ulteriormente l'ideale di un gold standard internazionale. Se le persone non comprendono che a volte sono necessarie alcune misure dolorose per preservare la stabilità, non possiamo sperare che qualsiasi autorità che abbia il potere di determinare la quantità di denaro possa resistere a lungo alle pressioni, o alla seduzione, di una moneta svalutata.


Proteggere il Denaro dalla Politica

Il politico, agendo in base alla massima keynesiana secondo cui nel lungo periodo non ricoprirà più la sua carica pubblica, non si preoccupa se il suo tentativo di curare la disoccupazione è destinato a produrre più disoccupazione in futuro. I politici che ne verranno incolpati non saranno coloro che hanno creato l'inflazione, ma coloro che l'hanno fermata. Non si poteva creare una trappola peggiore, in cui l'elettorato è portato a pensare che lo stato stia agendo per il suo bene. La nostra unica speranza per una moneta stabile è quella di trovare un modo per proteggerla dalla politica.

Con la sola eccezione del gold standard, praticamente tutti i governi della storia hanno usato il loro potere esclusivo di emettere denaro per truffare e saccheggiare il popolo. Fino a quando la gente non ha altra scelta che utilizzare il denaro imposto dallo stato, non c'è speranza che gli stati diventeranno più affidabili. Il sistema di governo prevalente, che dovrebbe essere guidato dal parere della maggioranza, ma dove, in pratica, qualsiasi gruppo d'interesse ben nutrito può creare una "necessità politica" con la minaccia di togliere voti di cui lo stato ha bisogno per rivendicare il sostegno della suddetta maggioranza, non è degno di fiducia. Per fortuna non dobbiamo ancora temere, mi auguro, che gli stati dichiareranno guerre per compiacere alcuni di questi gruppi, ma il denaro è certamente uno strumento troppo pericoloso per essere lasciato nelle mani dei politici — o, a quanto pare, anche in quelle degli economisti.


Un Monopolio Pericoloso

Ciò che dev'essere abolito non è il diritto degli stati ad emettere moneta, ma il diritto esclusivo di farlo e il loro potere di costringere le persone ad utilizzarla e accettarla ad un prezzo particolare. Questo monopolio dello stato, come il monopolio postale, non ha origine da un particolare beneficio per il popolo, ma solo dal desiderio di valorizzare i poteri coercitivi dello stato. Dubito che siano serviti per far qualcosa di buono, tranne che per i governanti e i loro favoriti. Tutta la storia contraddice la convinzione secondo cui lo stato c'ha fornito una moneta più sicura.



4. La Scelta della Moneta con i Contratti

Ma perché non dovremmo lasciare che la gente scelga liberamente ciò che vuole usare come denaro? Con "gente" intendo quelle persone che dovrebbero avere il diritto di decidere se vogliono comprare o vendere mediante l'uso di franchi, sterline, dollari, marchi o once d'oro. Non obietto che anche gli stati possano emettere moneta, ma credo che la loro pretesa di un monopolio, o il loro potere di limitare il tipo di denaro con cui possono essere siglati i contratti sul loro territorio, o il voler determinare i tassi a cui il denaro può essere scambiato, siano decisamente dannosi.

In questo momento la cosa migliore che si possa desiderare è che tutti i membri della Comunità Economica Europea, o, meglio ancora, tutti gli stati della Comunità Atlantica, giurino reciprocamente di non limitare l'uso libero delle valute scelte dagli attori di mercato. A mio modo di vedere questa disposizione è più praticabile e desiderabile di un'utopica Unità Monetaria Europea. Per rendere più efficace questo schema sarebbe importante, per ragioni che enuncerò più in avanti, fare in modo che le banche in un paese siano libere di aprire succursali in tutti gli altri.


Stato e Moneta a Corso Legale

A prima vista questo suggerimento può sembrare assurdo per tutti coloro cresciuti col concetto di "corso legale". Non è essenziale che la legge elevi un tipo di denaro come moneta a corso legale? Questo è vero solo nella misura in cui è lo stato ad emettere denaro col quale impone di saldare i debiti. Ma le imposizioni non si fermano qui, perché abbracciano anche certi obblighi legali non contrattuali, come le tasse o le passività per danni o illeciti. Ma non vi è alcun motivo per cui la gente non dovrebbe essere libera di stipulare contratti, compresi gli acquisti e le vendite ordinarie, in qualsiasi tipo di denaro di sua scelta, o perché dovrebbe essere obbligata a vendere usando un particolare tipo di denaro.

Non esiste controllo più efficace contro l'abuso di potere da parte dello stato di quello esercitato da individui liberi che rifiutano quella moneta di cui diffidano e preferiscono quella in cui hanno più fiducia. Inoltre, affinché gli stati garantiscano la stabilità della loro moneta, non esiste incentivo più forte della consapevolezza che fino a quando conserveranno un'offerta al di sotto della domanda, quest'ultima tenderà a crescere. Quindi, cerchiamo di spogliare gli stati (o le loro autorità monetarie) da ogni potere che scherma le loro valute dalla concorrenza: se non possono più nascondere che le loro valute stanno diventando inutili, dovranno limitare il problema.

La prima reazione di molti lettori potrebbe portarli a domandarsi se l'effetto di tale sistema non sarà quello di scacciare la moneta buona a vantaggio della moneta cattiva. Ma questo sarebbe un fraintendimento della cosiddetta legge di Gresham. Questa è una delle intuizioni più antiche riguardanti la storia della moneta, così vecchia che 2,400 anni fa Aristofane, in una delle sue commedie, disse che i politici erano come le monete, perché i cattivi scacciano quelli buoni.[6] Ma la verità, che a quanto pare ancora oggi non è compresa, è che la legge di Gresham funziona solo se le due monete sono accettate ad un tasso di cambio imposto. Accadrà esattamente il contrario quando le persone sono libere di scambiare le diverse monete a qualsiasi tasso ritengono più appropriato. Ne siamo stati testimoni più volte durante le grandi inflazioni, in cui anche le sanzioni più severe minacciate dallo stato non hanno impedito alle persone d'utilizzare altri tipi di monete; perfino le merci come sigarette e bottiglie di grappa piuttosto che il denaro statale — cosa che significava chiaramente che la moneta buona stava scacciando quella cattiva.[7]


Vantaggi di un Sistema Monetario Libero

Basta renderlo velatamente legale e la gente smetterà subito d'utilizzare la moneta nazionale una volta che si deprezzerà notevolmente, scegliendo invece quella di cui più si fida. I datori di lavoro, in particolare, scoprirebbero che è nel loro interesse offrire, nei contratti collettivi, non salari che anticipano un aumento previsto dei prezzi, ma salari in una valuta di cui si fidano e con cui è possibile un calcolo economico razionale. Ciò priverebbe lo stato del potere di contrastare eccessivi aumenti salariali, e il conseguente tasso di disoccupazione, mediante la svalutazione della propria valuta. Inoltre impedirebbe ai datori di lavoro di concedere tali aumenti nell'attesa che l'autorità monetaria nazionale li tiri fuori dai guai qualora dovessero promettere più di quanto possano pagare.

Non c'è motivo d'essere preoccupati per gli effetti di una tale organizzazione tra uomini comuni che non sanno né come gestire né come ottenere strani tipi di denaro. Finché i negozianti saprebbero che possono spostarsi istantaneamente verso qualsiasi tipo di denaro, sarebbero pronti a vendere i loro prodotti ad un prezzo adeguato in qualsiasi valuta. Le pratiche scorrette dello stato verrebbero a galla molto più rapidamente se i prezzi aumentassero solo nella valuta da esso emessa, e la gente capirebbe presto che tutta la colpa sarebbe da addossare allo stato. I calcolatori elettronici, che in pochi secondi fornirebbero l'equivalente di qualsiasi prezzo in qualsiasi valuta al tasso corrente, verrebbero presto utilizzati ovunque. Ma, a meno che il governo nazionale non gestisca davvero in modo sconsiderato la moneta che emette, probabilmente continuerebbe ad essere usata nelle operazioni economiche di tutti i giorni. Ciò che verrebbe influenzato non sarebbe tanto l'uso del denaro nei pagamenti quotidiani, piuttosto la volontà di possedere diversi tipi di denaro. Tutte le transazioni commerciali e di capitali tenderebbero a passare ad uno standard più affidabile (basandovi anche calcoli economici e contabili), cosa che manterrebbe la politica monetaria nazionale sulla retta via.



5. Stabilità Monetaria di Lungo Periodo

Molto probabilmente le valute di quei paesi che perseguiranno una politica monetaria responsabile, tenderanno ad eclissare gradualmente quelle meno affidabili. La giustezza finanziaria diventerebbe un requisito di reputazione agognato da tutti coloro che vorrebbero emettere moneta, in quanto saprebbero che anche la minima deviazione dal percorso di onestà ridurrebbe la domanda per il loro prodotto.

Non credo che in questa competizione tra valute possa sorgere una tendenza alla deflazione o ad un valore crescente del denaro. La gente sarà abbastanza riluttante ad accendere prestiti o indebitarsi in una valuta che si apprezzerà tanto quanto esiterà a concedere prestiti in una valuta che si deprezzerà. La bilancia penderebbe decisamente a favore di una valuta che tenderebbe a conservare un valore alquanto stabile. Se gli stati devono competere nell'indurre le persone a possedere la loro moneta, e stipulare contratti a lungo termine in tale moneta, dovranno creare fiducia nella stabilità monetaria di lungo periodo.


“Il Prezzo Universale”

Ciò di cui non sono sicuro è se in tale competizione per guadagnare affidabilità prevarrebbe la valuta emessa dallo stato, o se la preferenza predominante si rivolgerebbe direttamente all'oro. Infatti l'oro potrebbe riaffermarsi come "il prezzo universale in tutti i paesi, in tutte le culture, in tutte le età", come ha detto di recente Jacob Bronowski nel suo brillante libro, The Ascent of Man,[8] se alle persone venisse data completa libertà di decidere cosa usare come mezzo di scambio; in ogni caso, questo risultato sarebbe di gran lunga preferibile ad un tentativo organizzato di ripristinare il gold standard.

Il motivo per cui il libero mercato internazionale nel campo monetario dovrebbe estendersi anche ai servizi bancari, è che oggi i depositi bancari rappresentano più o meno la maggior parte degli asset liquidi della maggior parte delle persone. Anche durante gli ultimi cento anni di gold standard, questa circostanza ha sempre impedito che funzionasse come una moneta pienamente internazionale, perché ogni afflusso o deflusso in un paese richiedeva un ampliamento proporzionale o una contrazione proporzionale della moneta creditizia nazionale, il cui effetto ricadeva indiscriminatamente sull'intera economia invece di limitarsi all'aumento o alla diminuzione della domanda di beni specifici necessari per portare un nuovo equilibrio tra le importazioni e le esportazioni. Con un sistema bancario veramente internazionale, il denaro potrebbero essere trasferito direttamente senza produrre il processo dannoso delle contrazioni o delle espansioni della struttura del credito.

Probabilmente imporrebbe anche una disciplina più efficace sugli stati, soprattutto se potessero percepire sin da subito gli effetti delle loro politiche sull'attrazione degli investimenti nel paese. Mi sono appena ricordato di un pamphlet vecchio più di 250 anni: "Chi istituirebbe una Banca in un qualsiasi paese, o si fiderebbe del suo denaro?"[9] Il pamphlet, per inciso, ci dice che 50 anni prima un grande banchiere francese, Jean Baptist Tavernier, aveva investito tutte le sue ricchezze in quello che gli autori descrivono come "le rocce brulle della Svizzera"; quando Luigi XIV gli chiese il perché, ebbe il coraggio di rispondere che "era disposto a possedere qualcosa che avrebbe potuto definire di sua esclusiva proprietà!" La Svizzera, infatti, ha posto le basi della sua prosperità molto prima di quanto le persone credano.


Le Relazioni Volontarie nel Campo Monetario Sono Migliori delle Unioni Monetarie

Io preferisco la liberazione di tutte le operazioni monetarie da qualsiasi tipo di unione monetaria, anche perché quest'ultima potrebbe richiedere un'autorità monetaria internazionale che credo non sia né possibile né desiderabile -- e difficilmente può essere più affidabile di un'autorità nazionale. Mi sembra che ci sia una certa solidità nella riluttanza diffusa a conferire poteri sovrani, o un potere di comando, a qualsiasi autorità internazionale. Ciò di cui abbiamo bisogno non sono autorità internazionali che possiedono poteri di direzione, ma corpi internazionali (o, meglio, trattati internazionali) che possano vietare determinate azioni statali le quali potrebbero danneggiare altre persone. Abolire tutte le restrizioni sulle transazioni con diversi tipi di denaro significherebbe che l'assenza di dazi, o altri ostacoli alla circolazione di merci e uomini, garantirà un vera e propria zona di libero scambio o mercato comune. Ora più che mai è urgente contrastare il nazionalismo monetario che ho criticato quasi 40 anni fa[10] e che sta diventando sempre più pericoloso, poiché si sta trasformando in socialismo monetario. Spero che non passerà molto tempo prima che la libertà di usare qualsiasi tipo di denaro si preferisca, venga considerato essenziale per un paese libero.[11]

Potreste pensare che la mia proposta non rappresenti altro che l'abolizione della politica monetaria; e non sarebbe del tutto sbagliato. Come in altri temi, sono giunto alla conclusione che la miglior cosa che lo stato possa fare per quanto riguarda il denaro, è quella di fornire un quadro di norme giuridiche entro il quale gli individui possano sviluppare le istituzioni monetarie che meglio li soddisfano. Credo che se potessimo impedire agli stati d'immischiarsi negli affari monetari, faremmo più bene di quanto abbia mai fatto un qualsiasi governo. E le imprese private probabilmente farebbero meglio di quanto abbiano mai fatto.



Un Commento su Keynes, Beveridge e l'Economia Keynesiana

Ho sempre considerato Lord Keynes come una sorta di nuovo John Law. Come quest'ultimo, Keynes era un genio della finanza che diede alcuni contributi reali alla teoria della moneta. (Oltre ad una discussione interessante e originale sui fattori determinanti il valore del denaro, Law fornì il primo resoconto soddisfacente su come una merce, quando ampiamente utilizzata come mezzo di scambio, sarebbe stata esponenzialmente accettata dalla popolazione). Ma Keynes non è mai riuscito a liberarsi dalla falsa convinzione che, come disse Law, "l'aumento della massa monetaria darà lavoro alle persone inattive, permetterà a coloro già al lavoro di guadagnare di più, aumenterà la produzione e l'industria prospererà."[12]

Era contro questo tipo di visione che Richard Cantillon e David Hume iniziarono lo sviluppo della teoria monetaria moderna. Hume in particolare affermò che nel processo d'inflazione: "È solo in questo intervallo, o situazione intermedia tra l'acquisizione di denaro e l'aumento dei prezzi, che la quantità crescente d'oro e argento è favorevole all'industria."[13] È questo il lavoro che dovremo riprendere dopo il diluvio keynesiano.

In un certo senso, però, è un po' ingiusto accusare troppo Lord Keynes per gli sviluppi dopo la sua morte. Sono certo che sarebbe stato — nonostante ciò che avesse detto in precedenza — un leader nella lotta contro l'attuale inflazione. Ma suddetti sviluppi, almeno in Gran Bretagna, sono stati determinati anche, e soprattutto, dalla versione del keynesismo sponsorizzata da Lord Beveridge, per il quale i suoi consulenti scientifici devono assumersi la responsabilità (in quanto egli stesso non capiva l'economia).

Sono stato accusato di criticare Lord Keynes possedendo una conoscenza piuttosto limitata della teoria economica, ma la difettosità del suo punto di vista sulla teoria del commercio internazionale, per esempio, è stata spesso sottolineata anche da altri e per confutarla alcuni si sono rivolti addirittura alla rappresentazione satirica.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


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Note

[1] [La sezione principale e quelle secondarie sono state inserite per aiutare i lettori, in particolare coloro con scarsa familiarità con gli scritti del professor Hayek, a seguire le sue tesi; non erano parte dello scritto originale. -ED.]

[2] [Questa osservazione viene semplificata dal professor Hayek nella nota: "Un Commento su Keynes, Beveridge e l'Economia Keynesiana". -ED.]

[3] John Hicks, The Crisis in Keynesian Economics, Oxford University Press, 1974, p.1.

[4] F.A. Hayek, Profits, Interest and Investment, Routledge & Kegan Paul, London, 1939, p. 63n.

[5] F.A. Hayek, ‘The Pretence of Knowledge’, Nobel Memorial Prize Lecture 1974, ristampato in Full Employment at An y Price?, Occasional Paper 45, IEA, 1975, p. 37.

[6] Aristofane, Rane, 891–898:
Spesso abbiamo riflettuto su un abuso simile
Sulla scelta degli uomini per la carica e sulle monete per l'uso comune,
Poiché i nostri pezzi vecchi e canonici, apprezzati, approvati e provati,
Qui fra le nazioni greche, e in tutto il mondo,
Riconosciuti in ogni ambito per affidabilità e saggezza,
Vengono rifiutati e abbandonati per la spazzatura di ieri,
Per un vile concetto adulterato, fasullo, contraffatto,
Che il traffico della città passa ed ignora.
All'incirca nello stesso periodo, il filosofo Diogene definì il denaro "Un gioco di dadi del legislatore"!

[7] Durante l'inflazione tedesca dopo la prima guerra mondiale, quando le persone iniziarono ad usare dollari e altre valute sonanti al posto dei marchi, un finanziere olandese (se non sbaglio, Mr. Vissering) asserì che la legge di Gresham era falsa ed era vero l'opposto.

[8] Jacob Bronowski, The Ascent of Man, BBC Publications, London 1973.

[9] Thomas Gordon e John Trenchard, The Cato Letters, articoli datati rispettivamente 12 maggio 1722 e 3 febbraio 1721, pubblicati in edizioni da collezione, Londra, 1724, e seguito.

[10] Monetary Nationalism and International Stability, Longmans, London, 1937.

[11] In superficie potrebbe sembrare che questo mio suggerimento sia in conflitto col mio sostegno generale dell'attuale sistema di tassi di cambio fissi. Non è così. Credo che i tassi di cambio fissi siano necessari fintanto che gli stati hanno un monopolio territoriale sull'emissione della moneta, in modo da costringerli a rispettare una ferrea disciplina. Ma questo assetto non è più necessario quando devono sottomettersi alla disciplina della competitività con altri emettitori di moneta presenti sullo stesso territorio.

[12] John Law, Money and Trade Considered with a Proposal for Supplying the Nations with Money, W. Lewis, London, 1705. [A Collection of Scarce and Valuable Tracts (the Somers Collection of Tracts, Vol. XIII), John Murray, London, 1815, include il pamphlet di John Law (1720 edition) a pp. 775–817; un estratto da p. 812 recita: "Ma quest'aggiunta di denaro aiuterà ad impiegare quelle persone che ora sono inattive, e quelle già impiegate avranno un vantaggio, cosicché la produzione venga aumentata e la manifattura migliorata." -ED.]

[13] David Hume, On Money (Essay III).

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martedì 24 giugno 2014

L'investimento che fa emergere un aumento della domanda di capitale





di Friedrich A. Hayek


[Questo articolo apparve per la prima volta su The Review of Economic Statistics, novembre 1937.]


Lo scopo di questo articolo è quello di presentare una tesi che stia alla base delle moderne "teorie monetarie sull'over-investment" del ciclo economico, in una forma che, per quanto ne so, non è mai stata espressa ma che rende questa particolare tesi così evidente da blindare la sua correttezza logica.

Questo, naturalmente, non significa necessariamente che le teorie che si basano in gran parte su questa tesi forniscano un resoconto adeguato di tutti o di eventuali cicli economici, ma dovrebbe essere utile per dimostrare l'inadeguatezza di quelle teorie che ignorano completamente l'effetto in questione. Inoltre, dovrebbe chiarire alcuni fraintendimenti e malintesi che hanno reso così difficile giungere ad un accordo sui punti puramente analitici coinvolti.

Non sorprenderà nessuno scoprire che la fonte di questa confusione si ritrova nell'ambiguità del capitale a lungo termine. In analisi statica, il termine capitale si riferisce anche al valore aggregato di tutti i beni strumentali e alla loro "quantità", misurati in termini di costi (o in qualche altro modo). Ma questo è poco significativo, perché all'equilibrio queste due grandezze devono necessariamente coincidere. Nell'analisi dei fenomeni dinamici, tuttavia, questa ambiguità diventa estremamente pericolosa.

In particolare, la tesi statica secondo cui un aumento della quantità di capitale porterà ad un calo della sua produttività marginale (che ai fini del presente articolo chiamerò tasso di interesse), quando viene applicata alle dinamiche economiche e alla quantità di beni strumentali, potrebbe diventare decisamente errata.



L'importanza relativa alla quantità di investimenti e alla forma che prendono

L'ipotesi che un aumento della quantità di beni capitali andrà necessariamente a diminuire il rendimento atteso su ulteriori investimenti, è generalmente considerata come un'ovvietà. E', quindi, opportuno precisare i rapporti reali tra le due grandezze in una forma che potrebbe, forse, sembrare un po' paradossale. La tesi principale di questo articolo: l'effetto che avrà l'attuale produzione di beni capitali sulla domanda futura di fondi investibili, non dipenderà tanto dalla quantità di beni di investimento prodotti, ma dal tipo di beni capitali prodotti o dalle forme degli attuali investimenti; inoltre, un aumento dell'attuale produzione di beni capitali non diminuirà la domanda di fondi investibili, ma la aumenterà, e quindi il tasso di interesse.

Il primo punto principale è che la maggior parte degli investimenti viene effettuata in attesa di ulteriori investimenti, per i quali sarà necessaria l'attrezzatura che ha formato gli elementi del primo investimento. Ciò si può esprimere dicendo che gli investimenti attuali saranno influenzati da una certa aspettativa sul futuro prossimo: che andranno avanti ad una certa velocità (o che il tasso di interesse rimarrà ad una certa cifra). Il successo degli investimenti attuali dipenderà da questa aspettativa.

Pertanto, la maggior parte dei singoli investimenti deve essere considerata alla stregua di semplici anelli di una catena che viene completata se le sue parti servono alla funzione per cui sono state create (anche se la catena fosse costituita da atti distinti di vari imprenditori). Il fabbricante di un qualsiasi tipo di macchinario spera che questo vada a migliorare il suo stabilimento. La sua speranza è che gli utilizzatori di queste macchine saranno in un secondo momento disposti ad installare macchine aggiuntive, che queste macchine saranno appetibili per coloro che più tardi saranno disposti ad investire in quei prodotti, ecc. ecc.

Il primo investimento di una tale catena, quindi, deve essere effettuato solo se si prevede un certo guadagno dal tasso di interesse. Ma questo non significa che una volta lanciato questo investimento, il processo di ulteriori investimenti non verrà continuato se le condizioni cambieranno in senso sfavorevole — se, per esempio, aumenta il tasso di interesse al quale il denaro può essere preso in prestito. Se gli investimenti già effettuati sono irrevocabilmente legati ad uno scopo particolare, questo fornisce un margine entro il quale i profitti totali attesi possono scendere senza incidere sulla redditività di quegli investimenti ancora necessari per completare la catena.

Infatti se il capitale fisso già creato è specifico per lo scopo prefissato, verrà utilizzato anche se il rendimento copre poco più del costo di utilizzo (lasciando scoperti interessi e ammortamento); e dal momento che i proprietari di questo capitale fisso lo utilizzeranno, malgrado guadagneranno solo poco più del semplice costo di esercizio, nelle fasi successive della catena finiranno per intascare quasi l'intero importo (che avrebbero originariamente guadagnato da interessi e ammortamenti) sotto forma di premio sugli investimenti.

In queste fasi successive gli imprenditori entrano, quindi, in possesso di un importo per pagare meno i prodotti delle fasi precedenti (perché l'attrezzatura esiste già) e pagare quelle spese atte a completare la catena degli investimenti. E maggiore sarà la quantità di investimenti già realizzati rispetto a quelli ancora necessari per utilizzare le attrezzature già esistenti, tanto maggiore sarà il tasso di interesse che potrà essere spuntato aumentando i capitali per quegli investimenti che andranno a completare la catena.



"Completamento degli investimenti" e il tasso di interesse

Ovviamente la domanda di capitale, in ogni particolare momento, non dipende tanto dalla produttività che fornirebbe una struttura di capitale reale e completata — la pianificazione a lungo termine della produttività degli investimenti — quanto dalla proporzione tra quella parte che è già stata completata e la parte che deve ancora essere completata. Solo per una frazione molto piccola degli investimenti totali — gli investimenti marginali che rappresentano l'inizio di nuove catene di investimenti — la domanda di fondi reagirà prontamente ad una variazione del tasso a cui il capitale può essere preso in prestito. Per il resto, la domanda di capitale sarà altamente anelastica rispetto alle variazioni del tasso di interesse.

Le conseguenze di ciò possono essere facilmente visualizzate con un esempio schematico. Supponiamo che gli investimenti passati siano stati guidati dall'aspettativa di un tasso di interesse al 4%, ma che per completarli ora sia necessaria una maggiore offerta di fondi mutuabili rispetto a quelli disponibili. Supponiamo inoltre che se gli investimenti del passato fossero stati guidati dall'aspettativa di un tasso di interesse del 5%, quei finanziamenti necessari per continuare questi processi di investimento coinciderebbero con l'attuale offerta. Questo non significa che una volta effettuati gli investimenti in previsione di un tasso del 4%, un loro aumento di un punto percentuale — cioè, alla cifra che, se prevista correttamente, rappresenterebbe un tasso di equilibrio — sarà sufficiente a ridurre la domanda di prestiti al livello dell'offerta.

Se una parte considerevole delle attrezzature da utilizzare fosse già stata realizzata, molti investimenti, che tanto per iniziare non sarebbero mai stati redditizi se fosse stato previsto un tasso di interesse del 5%, risulterebbero ancora validi anche ad un tasso molto superiore. La perdita ricadrà interamente su quegli imprenditori che in passato, in attesa di un tasso di interesse più basso, avevano già costruito nuovi impianti, ecc. Ma le concessioni che saranno costretti ad introdurre nei prezzi, al di sotto del loro costo effettivo di produzione, consentiranno agli altri imprenditori di andare avanti con l'installazione di nuovi macchinari, cosa che non sarebbe stata possibile se gli sviluppi fossero stati previsti correttamente fin dall'inizio.

La costruzione di una grande centrale idroelettrica che sarebbe stata proficua se il tasso di interesse fosse rimasto al 4%, si potrebbe rivelare improduttiva se dovesse aumentare suddetto tasso. Ma, una volta che è stata costruita e le spese per l'energia elettrica aggiustate per ottenere il massimo profitto rispetto alle spese correnti, darà luogo ad una ulteriore domanda di capitale per l'installazione di motori elettrici, ecc., la quale non sarà ridotta malgrado l'emersione di un tasso di interesse molto superiore al 5%.

Fino a che punto il tasso di interesse dovrà salire per portare la domanda di prestiti in equilibrio con l'offerta? Dipenderà, come abbiamo visto, dalla proporzione tra quella parte dei processi di investimento completi (svolti prima dell'aumento imprevisto del tasso di interesse) e quella parte di spese complessive che devono ancora essere sostenute. Se, in un caso particolare, gli interessi al 4% sul capitale già investito e sull'ammortamento rappresentassero il 30% del prezzo previsto della merce finale, allora gli interessi coinvolti nell'utilizzazione dell'impianto esistente e dei suoi prodotti dovrebbero salire in modo da assorbire tutto questo 30% (prima che la domanda di capitale per questo scopo verrebbe effettivamente ridotta). Se del restante 70% del costo totale il 15% venisse ancora impiegato in aspettativa di interessi al 4%, i tassi di interesse dovrebbero salire di circa il 12% prima che la redditività degli investimenti completi sia equivalente allo zero.

Contro tutta questa argomentazione si potrebbe obiettare che essa ignora completamente l'effetto del rialzo dei tassi di interesse sulla sostituzione del capitale nelle "fasi iniziali". E' certamente vero che questi elementi non verranno sostituiti, ma l'implicazione che questo possa alleviare in qualche modo la domanda di fondi per gli investimenti, è certamente errata. Nella misura in cui tali elementi, in condizioni normali, avrebbero bisogno di sostituzione, queste sostituzioni verrebbero finanziate con l'ammortamento attualmente guadagnato. Non costituirebbero una domanda di fondi disponibili per gli investimenti. Ma se — e questo è più probabile — non fossero ancora diventati maturi per la sostituzione, l'ammortamento guadagnato per gli investimenti sarebbe preso temporaneamente altrove. Il mancato guadagno di un ammortamento, o solo una piccola quota di esso, significherà quindi una riduzione dell'offerta di fondi investibili, cioè, rappresenterà un fattore che tenderà a far aumentare (piuttosto che diminuire) il tasso di interesse.



Cause di una richiesta urgente di fondi per il completamento degli investimenti

Restano da considerare le cause che possono determinare una tale situazione. In quali condizioni la domanda di capitale addizionale per completare una determinata struttura di capitale, farà salire il tasso di interesse ad una cifra molto superiore al tasso che è compatibile con la gestione permanente di quella struttura?

In linea di principio la risposta è sicuramente chiara. Tutto ciò che porterà le persone ad aspettarsi un tasso di interesse più basso, o una maggiore offerta di fondi investibili (che esisteranno quando arriverà il momento del loro utilizzo), forzerà i tassi di interesse molto più in alto di quanto sarebbe avvenuto se le persone non si fossero aspettate un tasso così basso. Ma mentre è vero che un calo inatteso nel tasso di risparmio, o una nuova domanda di capitale imprevista — una nuova invenzione, per esempio — possono generare una situazione del genere, la più importante causa di tali false aspettative è probabilmente un aumento temporaneo nell'offerta di tali fondi attraverso l'espansione del credito ad un tasso che non è sostenibile. In questo caso la maggiore quantità di investimenti presenti indurrà le persone ad aspettarsi che tale situazione continui per un certo periodo di tempo, e di conseguenza le invoglierà ad effettuare investimenti che richiederanno un tasso simile affinché possano essere compeltati con successo.[1]

Non è tanto la quantità di investimenti attuali, ma è la direzione che prendono — il tipo di beni strumentali che vengono prodotti — quella che determina la quantità di investimenti futuri se si vuole che quelli presenti vengano incorporati con successo nella struttura della produzione. Ma è la quantità di investimenti resi possibili dalla corrente offerta di fondi che determina le aspettative per il tasso degli investimenti e quindi la forma che verrà data a quelli nel presente. Ora possiamo vedere la giustificazione per la forma un pò paradossale della tesi da cui siamo partiti all'inizio di questo articolo. Un aumento del tasso di investimento, o della quantità di beni strumentali, può far aumentare (piuttosto che abbassare) il tasso di interesse, se tale aumento ha determinato l'aspettativa futura di una maggiore offerta di fondi investibili che in realtà è imminente.

Se questa affermazione è corretta, e se le sue ipotesi sono empiricamente giustificate, questo significa che gran parte delle analisi puramente monetarie del ciclo economico mainstream sono costruite su fondamenta molto insufficienti. Se quanto detto è vero, dovrà essere abbandonata l'affermazione comune secondo cui il rendimento atteso sul capitale investito, o "l'efficienza marginale del capitale", può essere trattato come una semplice funzione decrescente della quantità di beni capitali esistenti, o dell'attuale tasso di investimento, e con essa bisognerà abbandonare gran parte delle tesi che vogliono un calo più rapido "dell'efficienza marginale del capitale" rispetto al tasso di interesse monetario.

Se l'investimento passato sprona ulteriori investimenti piuttosto che quelli di natura meno redditizia, questo significherebbe anche che l'aumento del tasso di interesse verso la fine di un boom — che tanti autori ritengono si possa spiegare solo con fattori monetari che influenzano l'offerta di fondi mutuabili — può essere adeguatamente spiegato da fattori reali che influenzano la domanda. Ciò dimostra, inoltre, che un'analisi puramente monetaria, che prende in considerazione solo i tassi di investimento senza analizzare la struttura di questi investimenti e l'influenza che i fattori monetari possono avere su questa struttura di produzione reale, è destinata a trascurare alcuni elementi significativi. E, forse, spiega anche perché un'attenta analisi della struttura temporale della produzione (non in termini di un periodo "medio" della produzione) è una base necessaria per un'analisi soddisfacente del ciclo economico.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


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Note

[1] Per un approfondimento di queste connessioni si vedano i miei articoli "Preiserwartungen, monetäre Störungen und Fehlinvestitionen," NationalØkonomisk Tidsskrift, Vol. 73/3 (1935) (anche una versione in francese in Revue des Sciences Economiques, Liege, ottobre 1935), e "The Maintenance of Capital," Economica, II (New series, agosto 1935), in particolare pp. 268 et seq.

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