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mercoledì 17 novembre 2021

Ungheria e Polonia saranno le prossime vittime dei “cambiamenti di regime” targati USA/UE?

 

 

di José Niño

Nessun Paese è al sicuro dall'Occhio di Sauron, rappresentato nel mondo di oggi dallo stato di sicurezza nazionale americano. Anche alcuni dei presunti alleati degli Stati Uniti non possono sfuggire al suo occhio onniveggente: Ungheria e Polonia, entrambi membri dell'Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), negli ultimi anni hanno affrontato critiche significative da parte dei chiacchieroni di Washington DC e Bruxelles. Durante la campagna elettorale il presidente Joe Biden ha paragonato Paesi come l'Ungheria e la Polonia a "regimi totalitari". Inoltre non molto tempo fa l'ex-presidente Barack Obama ha dichiarato che entrambi i Paesi sono "essenzialmente autoritari" nonostante siano "democrazie funzionanti".

Allo stesso modo Mark Rutte, il primo ministro dei Paesi Bassi, è arrivato al punto di chiedere l'espulsione dell'Ungheria dall'UE per la recente approvazione di una legge che criminalizzerebbe la promozione sui social media della riassegnazione del sesso o dell'omosessualità ad ungheresi sotto i diciotto anni.

Per quanto riguarda la Polonia, molti dei suoi comuni e regioni hanno approvato risoluzioni, in gran parte simboliche, "libere da LGBT" in opposizione a molti degli eccessi della sinistra culturale. Come l'Ungheria, le mosse tradizionaliste della Polonia hanno arruffato le piume dell'Occidente. Hanno persino ricevuto un duro rimprovero da parte dell'ambasciatore americano in Polonia, Georgette Mosbacher, nominata da Trump, la quale ha affermato che la Polonia è "dalla parte sbagliata della storia".

Al di là delle questioni culturali, la Polonia ha un litigio di lunga data con la Commissione europea per i suoi affari giudiziari. Il Partito Legge e Giustizia (PiS) al governo in Polonia insiste che la nazione ha l'autorità esclusiva sulle questioni giudiziarie, mentre Bruxelles sostiene che le leggi dell'UE prevalgono sulle leggi dei Paesi membri. La Commissione europea ha rincarato la dose chiedendo alla corte principale dell'UE di multare la Polonia per aver osato non seguire il copione di Bruxelles.

È divertente come politici, giornalisti e portavoce delle ONG della prima superpotenza mondiale e dell'unione politica sovranazionale del continente lancino una campagna di odio contro i Paesi all'interno delle loro strutture di alleanza. Dopotutto dovremmo trovarci nella "fine della storia", quando la democrazia ha ormai trionfato contro l'illiberalismo; tuttavia gli ingegneri sociali in Occidente non apprezzano la diversità quando si tratta del modo in cui i Paesi gestiscono i propri affari. Alcuni di essi non si piegheranno ai capricci degli estranei.

Come membri del gruppo di Visegrad (un blocco contrarian di Paesi all'interno dell'UE composto da Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia e Slovacchia), Ungheria e Polonia si sono differenziate dai loro coetanei atlantisti per il modo in cui non hanno accettato alcune delle ossessioni moderne come il multiculturalismo, la migrazione di massa e le abitudini di vita alternative (mode che invece la maggior parte delle democrazie occidentali promuove vigorosamente sia nel settore statale che in quello privato). Allo stesso modo, i costanti richiami dei leader ungheresi e polacchi ai loro elettori che appartengono a una più ampia civiltà cristiana occidentale fanno infuriare ulteriormente i tecnocrati a Bruxelles, i quali adorano l'altare della pianificazione centrale.

A dire il vero, la legislazione che i due membri del Gruppo di Visegrad hanno approvato è forse controversa per gli interventisti che vogliono trasformare ogni giurisdizione politica in un facsimile di Bruxelles e Washington, ma per quanto controverse possano essere le mosse dei due Paesi del Gruppo di Visegrad, è iperbolico suggerire che stiano scivolando verso una qualche forma di totalitarismo del ventesimo secolo. Entrambi i Paesi contano su sistemi parlamentari per eleggere i leader e approvare la legislazione, mentre invece l'UE è un colosso politico pieno di burocrati non eletti che impongono costantemente regolamenti ed editti arbitrari a nazioni altrimenti sovrane.

Semmai la cosiddetta Europa liberale dovrebbe dare una spiegazione per le sue leggi sull'incitamento all'odio e altri regolamenti che impediscono la libertà di espressione delle persone; per non parlare poi delle politiche verdi che impediscono ai Paesi membri dell'UE di avere accesso ad energia economica e da fonti affidabili.

In termini di economia politica, Ungheria e Polonia sono casi interessanti. Sebbene non siano luminari del libero mercato, sono classificati al cinquantacinquesimo posto (Ungheria) e al quarantunesimo posto (Polonia) secondo l'Indice per la libertà economica della Heritage Foundation, il che significa che non sono completamente usciti dal percorso di mercato e ancora proteggono i diritti di proprietà. Questi Paesi brillano per molte ragioni: ad esempio, il primo ministro ungherese Viktor Orbán si è ripetutamente opposto agli sforzi europei di un'armonizzazione fiscale, un eufemismo per aumenti delle tasse. La pressione fiscale sulle società in Ungheria si aggira intorno al 9%, un carico fiscale tra i più bassi nel continente europeo. Sul fronte energetico, Ungheria e Polonia non si bevono le sciocchezze sull'energia green. Sia la leadership politica ungherese che quella polacca hanno avuto da ridire sulle politiche energetiche dell'UE, mostrando ulteriormente le loro venature di dissenso.

Nonostante tutte le prove che dimostrano che l'Ungheria e la Polonia non sono Paesi totalitari, c'è motivo di credere che gli internazionalisti in Occidente continueranno a molestarli. L'Ungheria è un obiettivo particolarmente facile per una serie di ragioni che vanno al di là della sua politica interna. L'uso intelligente da parte dell'Ungheria del bilanciamento geopolitico e del corteggiamento di Paesi come la Russia e la Cina sicuramente non gli farà avere amici a Bruxelles e Washington, DC. L'Ungheria è stata disposta a lavorare economicamente con entrambi i Paesi, i quali hanno visto deteriorarsi sempre più le relazioni con l'Occidente. Per quanto riguarda la Cina, l'Ungheria ha bloccato una dichiarazione dell'UE quando la Cina ha deciso di reprimere Hong Kong, con grande costernazione dell'UE e del complesso industriale delle ONG internazionali.

Le persone ragionevoli, anche gli estranei, possono avere disaccordi con le azioni degli stati esteri, ma chiedere un cambio di regime, sia attraverso la sovversione o l'interventismo diretto, è semplicemente delirante. La destabilizzazione che ne deriverà creerà solo ulteriori problemi e altre conseguenze impreviste che gli esperti di politica estera non potrebbero mai prevedere. Ma ecco il punto: quando si parla di politica estera, si tratta di persone che da tempo hanno perso la ragione.

Sarebbe ingenuo considerare gli Stati Uniti come una potenza mondiale che usa esclusivamente la forza bruta. Proprio come opera a livello nazionale, lo stato americano può ricorrere ad una combinazione di vigorosa forza bruta e subdola sovversione per sottomettere gli attori ribelli. Le famigerate "rivoluzioni colorate", movimenti che agenzie di intelligence, ONG e vari attori nazionali usano per interferire nelle elezioni straniere con lo scopo di generare una crisi elettorale, sono uno dei tanti strumenti che il cosiddetto Deep State degli Stati Uniti e dei suoi alleati nell'UE potrebbero utilizzare per molestare stati "ribelli" e costringerli a sottomettersi alla loro volontà.

Un colpo di stato silenzioso in Ungheria e Polonia sarebbe la strategia migliore per un impero che di recente ha affrontato capovolgimenti all'estero in Paesi come l'Afghanistan e l'Iraq. L'ironia è che gli Stati Uniti sovvertirebbero due Paesi che fanno parte della sua rete di alleanze. Finché gli zeloti internazionalisti strisciano per le aule del Congresso, ci si può solo aspettare che continuino gli sforzi per continuare a fomentare sordidi colpi di stato. Tutti gli angoli del globo sono a rischio a questo punto.

Un cambiamento epocale nel modo in cui i responsabili della politica estera vedono il mondo è un prerequisito affinché qualsiasi correzione avvenga nel modo in cui l'America conduce gli affari esteri. Se lo status quo persiste, la cabala interventista a Washington troverà sempre il modo di molestare e destabilizzare le nazioni all'estero.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


giovedì 10 settembre 2020

I tempi sono maturi per un reset geopolitico



di José Niño

La politica estera sembra essere finita nel dimenticatoio nell'era Trump. Le questioni interne, la politica dell'indignazione e l'attuale epidemia di covid-19 hanno risucchiato l'ossigeno dal discorso politico americano.

Il fatto che i media scelgano di trattare materiale più sensazionalistico non rende la politica estera una questione banale. Semmai è la mancanza di copertura della politica estera che rivela lo stato fatiscente del dibattito politico contemporaneo. Quando il Quarto Potere si preoccupa di affrontare la politica estera, lo fa per le ragioni più isteriche.

L'attuale isteria russa è l'incarnazione dell'infantile copertura mediatica della politica estera. Sebbene la Guerra Fredda sia finita da decenni, gli esperti sia di destra che di sinistra rimangono convinti che la Russia, un Paese di quasi 145 milioni  di abitanti e con una produzione economica inferiore a quella del Canada, è determinata a ravvivare le sue passate aspirazioni durante la Guerra Fredda.

Anche l'Iran è sempre stato nelle menti dei neocon. Soffrendo del trauma della crisi degli ostaggi iraniani del 1979, i neocon e le loro controparti liberal nell'establishment hanno passato decenni ad approvare sanzioni e cercare di spingere per un cambio di regime in Iran. All'inizio di quest'anno, la sete di sangue dei neocon è stata parzialmente placata dopo che il governo degli Stati Uniti ha assassinato il  maggiore generale Qasem Soleimani all'aeroporto di Baghdad. In una sorprendente dimostrazione di moderazione, l'amministrazione Trump non si è accanita ulteriormente in Iran spingendo eventualmente l'America nell'ennesimo e disastroso intervento. Se Marco Rubio o Jeb Bush fossero stati al timone, Dio solo sa dove si sarebbero trovati gli Stati Uniti ora.

La crociata globale è stata portata ad un altro livello provocando il governo cinese nel Mar Cinese Meridionale e passando alla lente d'ingrandimento gli affari interni della Cina. Dalla repressione dell'etnia uigura nella regione dello Xinjiang al consolidamento del suo potere su Hong Kong, gli affari interni della Cina sono stati oggetto di attento esame da parte dell'Occidente. Le persone ragionevoli possono riconoscere che la Cina, nonostante abbia approvato alcune riforme pragmatiche negli anni '80, è ancora un regime repressivo. Ma tutto questo merita una potenziale escalation nel Mar Cinese Meridionale o, peggio ancora, un conflitto in piena regola?

Dato che sia la Cina che gli Stati Uniti sono potenze nucleari, probabilmente prevarranno le teste più razionali, ma il fatto che i politici stiano prendendo in considerazione l'idea di rischiare un conflitto catastrofico mostra che la loro sete di guerra e la destabilizzazione derivante da un cambio di regime non sono affatto svanite. Tali deliri alimentano uno stato di ebbrezza che impedisce loro di esprimere giudizi razionali.

 

Perché la politica estera americana è destinata ad una correzione

Francamente, è ora di iniziare a parlare di un reset geopolitico. Un riorientamento delle priorità della politica estera americana è atteso da tempo. Ci sono circa duecentomila soldati americani di stanza all'estero in quasi ottocento basi in settanta Paesi.

Secondo il professore di antropologia dell'American University, David Vine, gestire basi militari all'estero costa ai contribuenti $85-100 miliardi all'anno. Nel frattempo la decennale guerra al terrorismo è costata agli americani $5.900 miliardi e ha portato alla morte di 6.951 soldati americani e di almeno 244.000-266.000 civili in Medio Oriente. Nel 2020 la spesa per la difesa degli Stati Uniti ammonta a più di $732 miliardi, una cifra superiore ai bilanci militari dei prossimi dieci Paesi messi insieme.

 

Un mondo unipolare è morto

Grazie alla posizione degli Stati Uniti e al vasto arsenale nucleare, sono relativamente al sicuro da minacce esterne nonostante tutta la paura proveniente dalla folla interventista. Sta diventando chiaro che il modello missionario di esportare la democrazia all'estero è un fallimento.

Ciononostante i falchi della politica estera sono rimasti irremovibili nel perseguire il cambio di regime in Iran attraverso rigide sanzioni e altre misure. Non dobbiamo dimenticare che l'ingerenza del governo degli Stati Uniti nella regione è profonda. Tutto iniziò quando nel 1953 la CIA e l'intelligence britannica lanciarono un colpo di stato contro il leader populista Mohammad Mossadegh, provocando l'insediamento dello scià Mohammad Reza Pahlavi.

Dopo la deposizione dello scià nella rivoluzione islamica del 1979, gli Stati Uniti hanno visto l'Iran come uno dei suoi principali nemici. L'aumento delle sanzioni a partire dagli anni '80, insieme ad ulteriori sanzioni imposte dopo ogni decennio, ha solo aumentato le tensioni. Per non parlare dell'accresciuta presenza militare che circonda il Paese, la quale ha costretto l'Iran a diventare più furbo nella sua opposizione alla politica estera statunitense. L'Iran ha risposto ai tentativi di cambio di regime degli Stati Uniti non solo colmando il vuoto di potere che lo Zio Sam lasciò dopo aver completamente decimato l'Iraq, ma anche espandendo le sue operazioni in America Latina attraverso la creazione di reti clandestine nella regione. Sebbene nessuna delle reti rappresenti una minaccia esistenziale per gli Stati Uniti, mostrano quanto l'Iran si possa spingere in là per contrastare le invasioni statunitensi nel suo cortile. È l'apice dell'arroganza imperiale pensare che i Paesi si inchineranno e spargeranno rose al passaggio degli Stati Uniti.

Inoltre il crescente atteggiamento aggressivo degli Stati Uniti nei confronti dell'Iran ha creato le condizioni affinché stringesse alleanze con Russia e Cina, due Paesi che negli ultimi dieci anni sono stati anch'essi colpiti da sanzioni e soggetti al bullismo statunitense. Questi legami si sono rafforzati durante l'attuale epidemia covid-19. Indubbiamente l'Iran non si piegherà facilmente e cercherà alleanze con altri Paesi che condividono rimostranze simili contro la natura zelante della politica estera americana.

 

È un nuovo mondo là fuori

L'emergente multipolarità del mondo consente ai Paesi di unirsi contro un egemone antagonista comune come gli Stati Uniti. Mentre l'era unipolare di un tempo diventa un lontano ricordo, gli Stati Uniti non possono fare il giro del mondo senza ripercussioni. Le operazioni di cambio di regime in Siria hanno dimostrato che Paesi come Iran e Russia sono disposti ad intervenire per difendere i propri interessi indipendentemente da ciò che pensano i fanatici della politica estera a Washington.

Allo stesso modo, sottili macchinazioni in Venezuela hanno visto Paesi come Cina, Iran, Russia e Turchia possono rispondere sostenendo il regime dell'uomo forte assediato, Nicolás Maduro. Qualsiasi tentativo degli Stati Uniti di rovesciare governi che non gli piacciono verrà accolto con un significativo "No". I fanatici dei cambi di regime a Washington possono negare tutto ciò che vogliono, ma fa parte del riallineamento globale che si sta svolgendo davanti ai nostri occhi.

È incredibile ciò che i governi riescono a fare quando hanno a disposizione una stampante. Non ci libereremo presto del sistema bancario centrale, ma le illuse ambizioni di politica estera degli Stati Uniti possono ancora essere frenate. In fin dei conti, è una questione di volontà politica.

I policymaker dovrebbero considerare i costi delle loro avventure in politica estera prima di mandare i giovani a morire in una campagna sfortunata e far pagare il conto ai contribuenti, presenti e futuri.

Un reset geopolitico, che comporta il ridimensionamento degli interventi statunitensi e della loro presenza militare all'estero, promuoverà decisioni pragmatiche e la priorità delle politiche di difesa. Se i leader della politica estera americana abbandoneranno o meno la loro arroganza imperiale, è un'altra questione.

 

[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


martedì 10 dicembre 2019

L'Argentina ha votato per più inflazione, spesa pubblica ed instabilità economica

Le ultime elezioni in Argentina dimostrano ancora una volta che senza una teoria solida ed onesta non c'è modo di smettere di seguire la via verso la schiavitù. Senza basi di conoscenza profondamente radicate nella libertà e senza quest'ultima al centro dei propri ragionamenti, si finirà sempre in un modo o nell'altro a cadere preda dell'imbonitore di turno. nel caso dell'Argentina è bastato il termine "neoliberismo" a far ricadere nell'oblio della Kirchner gli elettori argentini creduloni. Questa tattica è figlia degli spacciatori di illusioni tra le fila dei progressisti, visto che se prendiamo in considerazione il Washington Consensus riguardo l'Argentina notiamo che il governo Macri non era poi così neoliberista" come è stato sventolato dalla propaganda della Kirchner (come si può vedere dalla tabella all'interno dell'articolo). Stendendo un velo pietoso sull'esperienza di quest'ultima (inflazione annuale in media al 30%, povertà crescente, crescita pro-capite pari a zero), il governo Macri ha cercato di barcamenarsi tra le rovine che aveva ereditato e ha tentato timidamente di orientare al mercato l'economia argentina (miglioramento dei diritti di proprietà, parziale rimozione di barriere economiche, eliminazione di alcuni sussidi). Ciononostante il tutto è stato fatto peggiorando il deficit di bilancio della nazione finché è diventato impossibile da finanziare. Quindi guai a definire "fallimento dei mercati" la situazione drammatica dell'economia argentina.
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di José Niño


La vittoria di Alberto Fernández e Cristina Fernández de Kirchner del 27 ottobre 2019 ha sollevato molte domande sul futuro economico dell'Argentina.

Ma il ritorno della Kirchener non è un grande cambiamento come molti presumono. Il presidente uscente Mauricio Macri non ha offerto molto al Paese, dal punto di vista economico: tipico governo del compromesso tra bastone e carota, infatti l'amministrazione Macri ha mantenuto politiche come controlli dei prezzi e ingenti spese pubbliche. Non c'era alcun desiderio reale di spezzare la mano pesante del governo sulla fragile economia argentina, cosa che molti invece si aspettavano che Macri avrebbe fatto quando è stato eletto nel 2015.

Ad essere onesti, il governo che ha preceduto Macri, che Fernández de Kirchner ha diretto dal 2007 al 2015, ha messo Macri in una posizione scomoda. Da consumata populista di sinistra, Fernández de Kirchner si è assicurata di sfruttare i prezzi elevati delle materie prime e l'ascesa della Cina nell'economia mondiale per dare impulso alle esportazioni argentine, mentre utilizzava questi proventi per finanziare una miriade di programmi di spesa pubblica. Inoltre ha messo in atto vari controlli economici per "correggere" gli errori del presunto periodo di libero mercato degli anni '90. Come Hugo Chávez, molti credevano che Fernández de Kirchner trovasse una "Terza Via" che avrebbe rimesso in sesto l'Argentina.

Nel 2014 il treno della Kirchner ha deragliato, quando l'Argentina è andata in default sul suo debito ed è tornata al suo stato apparentemente perenne stato di instabilità economica. L'inflazione è risalita a doppia cifra, al 40% nel 2014. Macri ha fatto leva sull'incertezza economica per arrivare alla presidenza nel 2015, che molti credevano avrebbe segnato un nuovo inizio per l'Argentina. Con grande fastidio degli ottimisti in America Latina, il governo di Macri non ha mantenuto fede alle sue promesse.

Macri non è riuscito ad affrontare nessuna delle questioni fondamentali dell'economia argentina, di conseguenza gli elettori il mese scorso lo hanno mandato a casa. Ora gli argentini dovranno sopportare un governo di sinistra che probabilmente si impegnerà nell'ennesima serie di interventi che riporteranno l'economia sulla strada del collasso.


Una delle principali sfide che l'Argentina dovrà affrontare nei prossimi anni è il fantasma sempre presente dell'inflazione, che dovrebbe raggiungere il 53% entro la fine dell'anno. Come col Venezuela, che dal 1983 non ha più visto un'inflazione inferiore al 10%, l'Argentina sembra essere in una battaglia perenne contro di essa. Il Venezuela è diventato lo scenario da incubo che tutti i Paesi dell'America Latina si stanno sforzando di evitare. Ma se c'è un Paese in grado di raggiungere uno stato tanto derelitto come quello venezuelano, è l'Argentina.

L'economista Ivan Carrino ha fornito una panoramica che fa riflettere sui guai inflazionistici dell'Argentina. Usando il 2018 come anno di riferimento per il confronto, gli argentini di 23 anni hanno trascorso il 65% della vita con un'inflazione a doppia cifra. I nati nei primi anni '80 hanno vissuto due turbolenti casi di iperinflazione: nel 1985 e nel 1989.

L'unico periodo in cui c'è stato un certo grado di sanità mentale in Argentina fu con l'amministrazione del presidente Carlos Menem dal 1989 al 1999. Sebbene le sue riforme non fossero radicali, Menem portò un po' di stabilità all'economia argentina passando al sistema di Convertibilidad (Convertibilità) che ancorò il peso argentino al dollaro USA dal 1991 al 2002. Il passaggio a questo sistema tenne sotto controllo l'inflazione.

Tuttavia questa architettura monetaria era costruita su un castello di carte. L'economista Daniel Lacalle ha sottolineato come l'Argentina durante suddetto decennio "abbia effettuato un sotterfugio agganciando il Peso al dollaro USA ad un tasso di cambio completamente gonfiato che ha portato all'accumulo di squilibri".

Secondo Lacalle: "l'Argentina non aveva dollari, aveva Pesos sotto mentite spoglie". L'economista Steve Hanke gli ha fatto eco commentando che il piano di convertibilità si comportava "più come una banca centrale" piuttosto che come un vero e proprio comitato valutario, dove il governo poteva semplicemente stampare denaro con facilità. A sua volta, poteva solo prendere in prestito e tassare per soddisfare i propri obblighi di spesa.

Quando la Banca Centrale Argentina ha iniziato ad impegnarsi in una politica monetaria discrezionale e il governo ha lasciato che i disavanzi fiscali sfuggissero al controllo e il debito sovrano iniziasse ad aumentare durante la fine degli anni '90, la strana stabilità argentina si sarebbe presto arrestata all'inizio del XXI secolo. Dopo aver abbandonato il piano di convertibilità nel 2002, l'Argentina è tornata al suo solito stato di agitazione economica.

Molti cercheranno di spiegare l'elevata inflazione argentina come fenomeni casuali, o cercheranno di collegarla a vaghe spiegazioni sui prezzi fluttuanti delle materie prime o alla "corruzione".

Queste spiegazioni lasciano il tempo che trovano e non smascherano il vero colpevole: l'espansione monetaria. Quest'ultima è il grande promotore della spesa pubblica sconsiderata e di altri schemi che aumentano le dimensioni dello stato. Dopotutto, l'imposizione fiscale diretta non è sempre politicamente popolare, specialmente quando la classe media e quella inferiore iniziano a sostenere il peso della tassazione. La tassa furtiva dell'inflazione confonderà ed addomesticherà la popolazione, mentre i politici finanzieranno il loro tesoro fatto di clientelisti.

Ludwig von Mises fece un ulteriore passo in avanti osservando: “L'inflazione è il complemento fiscale dello statalismo e del governo arbitrario. È un ingranaggio nel complesso di politiche e istituzioni che portano gradualmente al totalitarismo”. Ciò è particolarmente vero per l'Argentina, a causa della sua economia politica sulle montagne russe. L'Argentina non fa eccezione alla tendenza dello statalismo globale nel secolo scorso che si è diffuso in tutto il mondo come un virus.

C'è del positivo però in tutta questa storia, perché gli argentini ora hanno alternative interessanti come Bitcoin che potrebbero alleviare le loro diatribe monetarie. Tuttavia, per sconfiggere veramente il flagello dell'inflazione, l'Argentina deve essere disposta a riconoscere la radice dei suoi mali economici, la politica monetaria espansiva, ed a sradicarla spostandosi verso una valuta solida che non sia più soggetta ai capricci dei politici.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


giovedì 14 marzo 2019

I benefici di una Brexit





di José Niño


Il 23 giugno 2016 l'elettorato britannico ha votato al 51,9%-48,1% a favore di un Regno Unito che lascia l'Unione Europea. Il referendum è stato uno dei più grandi terremoti politici che hanno preceduto l'elezione di Donald Trump il 6 novembre 2016.

Le ragioni dell'uscita sono molteplici: politiche d'immigrazione discutibili, preoccupazioni su Bruxelles che gestisce gli affari britannici e se rimanere nell'UE fosse nei migliori interessi economici del Regno Unito. Attualmente se il governo di Theresa May non riuscirà a raggiungere un accordo con l'UE prima del 29 marzo, il Regno Unito lascerà l'UE, accordo o non accordo.

Ci sono tre vantaggi di una Brexit dal punto di vista della liberalizzazione politica ed economica.



Decentrare il potere politico europeo

L'UE originariamente era nata come unione doganale, smantellando le barriere commerciali tra le nazioni dopo la seconda guerra mondiale. Questa fu una risposta logica alla guerra commerciale degli anni '30 che ebbe un ruolo significativo nell'accensione della seconda guerra mondiale.

Sfortunatamente i funzionari dell'UE avevano in mente altre cose una volta consolidata la politica commerciale dell'UE. Come sottolinea Ron Paul, la corruzione e l'ambizione politica hanno preso il sopravvento nell'UE, trasformandola in "un governo non eletto a Bruxelles, dove i ben collegati sono ben compensati e soprattutto isolati dai voti dei cittadini".

L'UE ha sostanzialmente sovvertito ciò che ha fatto prosperare l'Europa: la competizione giurisdizionale tra Paesi. Il sistema federalista europeo era in chiaro contrasto con gli imperi in Oriente, come la Cina e l'Impero Ottomano. Gli imperi orientali si estendevano su vaste regioni geografiche, richiedendo un massiccio apparato burocratico e la mano pesante per mantenere una qualsiasi parvenza di ordine politico. Per questa ragione l'Europa si arricchì, mentre gli ultimi imperi diventavano stagnanti e oppressivi fino al XIX secolo. Tuttavia l'Europa ha rapidamente abbandonato il suo modello federalista di successo e l'ha sostituito con una "superpotenza centralizzata politica, economica e finanziaria a Bruxelles".

Infatti l'uscita del Regno Unito dall'Unione Europea non rappresenta uno schema per arricchirsi. Al centro della sovranità nazionale c'è il diritto dei Paesi di fallire. L'ex-deputato al Parlamento europeo Daniel Hannan ha centrato il bersaglio in un'intervista per l'Austrian Economics Center:
La libertà include anche la libertà di fallire. Potremmo diventare Singapore, o potremmo diventare un Venezuela, o potremmo diventare una via di mezzo tra i due, e questa sarà la nostra decisione. Questo è il bello della responsabilità come elettorato. Vorrei vivere in un Paese in cui le persone sono libere di commettere errori piuttosto che vivere in un Paese in cui funzionari che sono immuni all'opinione pubblica mi dicono cosa posso scegliere.


Scappare da valori illiberali

Non è un segreto che l'UE disapprova concetti come il decentramento. Per le istituzioni "progressiste" come l'UE, i concetti del liberalismo classico come un governo limitato ed unità politiche più piccole che controllano unità più grandi, sono idee tossiche che impediscono di realizzare la loro visione universalista. Le isole britanniche sono state storicamente la culla di concetti del liberalismo classico come il federalismo, la libertà di espressione e i diritti di proprietà.

I recenti sviluppi hanno indicato che l'UE è decisa a sopprimere le libertà civili di base. Tanto per cominciare, la Corte europea dei diritti umani ha multato e perseguito le persone per aver fatto osservazioni sgradevoli su certe figure religiose. Il politico olandese controverso, Geert Wilders, è stato trascinato in tribunale e processato per "incitamento all'odio e discriminazione per le sue osservazioni anti-islamiche sui media tra il 2006 e il 2008". Wilder poi è stato assolto da tutte le accuse.

Allo stesso modo, l'articolo 13 della direttiva sul diritto d'autore dell'UE ha sollevato preoccupazioni a causa delle sue implicazioni in termini di libertà di parola. Alcuni sostengono che questa disposizione sui diritti d'autore minaccerebbe l'esistenza dei meme. Etichettato come "meme killer", l'articolo 13 imporrebbe ai "giganti del web di filtrare automaticamente il materiale protetto da copyright (canzoni, immagini, video) caricato sulle loro piattaforme, a meno che non sia stato concesso in licenza specifica". Praticamente l'articolo 13 metterebbe un potenziale bavaglio alla possibilità di condividere contenuti protetti da copyright, inclusi i meme.

La libertà di espressione è stata parte integrante delle tradizioni anglosassoni, le quali sono state tramandate da generazioni e trapiantate nelle ex-colonie britanniche in Australia, Canada e Stati Uniti. Per conservare una delle libertà civili, come la libertà di espressione, lasciare l'UE sarebbe una mossa saggia per il Regno Unito.



Aumento del libero scambio

Dal momento che gli elettori hanno votato a favore della Brexit, i catastrofismi sono stati all'ordine del giorno tra le élite ed i commentatori sui media. Molti hanno sostenuto che lasciare l'UE sarebbe un disastro per il commercio britannico. Tuttavia la ricerca dimostra che l'Unione Europea sta gradualmente diventando meno prioritaria per la Gran Bretagna.

Circa il 44% delle esportazioni britanniche di beni e servizi è andato ai Paesi membri dell'UE nel 2017. Si tratta di circa £274 miliardi su £616 miliardi in esportazioni totali. Inoltre la predominanza dell'UE nell'economia mondiale è diminuita nonostante la crescita della sua produzione economica totale. In altre parole, il resto dell'economia mondiale sta crescendo più velocemente rispetto all'economia dell'UE.

Fonte: World Economic Outlook del FMI

Ciò potrebbe in parte spiegare perché negli ultimi tempi il commercio del Regno Unito verso Paesi al di fuori dell'UE è cresciuto molto più velocemente. Data la sua geografia, il Regno Unito è posizionato in modo ottimale per commerciare con molti altri Paesi al di fuori dell'UE.

Fonte: ONS Balance of Payments Datasets. "Exports: European Union" & "Exports: Total Trade in Goods and Services."

Anche se Theresa May non raggiungerà un accordo con l'UE, dovrebbe considerare un'alternativa più audace: il libero scambio. Ciò significa zero dazi e zero quote di importazione per merci provenienti dai Paesi dell'UE e dal resto del mondo.

In un tale contesto di libero scambio, il Regno Unito potrebbe rinegoziare accordi commerciali con membri del Commonwealth come Australia, Canada, Nuova Zelanda e Singapore, i quali condividono una cultura, una lingua e un sistema legale comuni. Il libero scambio non farà altro che rafforzare questi legami. Nonostante il tormentone della folla pro-UE, il Regno Unito ha molte più opportunità di prosperare al di fuori della giurisdizione dell'UE.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/