venerdì 13 giugno 2025

Come gli inglesi hanno inventato il personaggio di George Soros

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Il manoscritto fornisce un grimaldello al lettore, una chiave di lettura semplificata, del mondo finanziario e non che sembra essere andato "fuori controllo" negli ultimi quattro anni in particolare. Questa è una storia di cartelli, a livello sovrastatale e sovranazionale, la cui pianificazione centrale ha raggiunto un punto in cui deve essere riformata radicalmente e questa riforma radicale non può avvenire senza una dose di dolore economico che potrebbe mettere a repentaglio la loro autorità. Da qui la risposta al Grande Default attraverso il Grande Reset. Questa è la storia di un coyote, che quando non riesce a sfamarsi all'esterno ricorre all'autofagocitazione. Lo stesso è accaduto ai membri del G7, dove i sei membri restanti hanno iniziato a fagocitare il settimo: gli Stati Uniti.

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di Richard Poe

(Versione audio della traduzione disponibile qui: https://open.substack.com/pub/fsimoncelli/p/come-gli-inglesi-hanno-inventato-ba4)

Nel 1993 molti in Europa si sentirono traditi.

Alcuni si lamentarono di un “complotto anglosassone”.

La Gran Bretagna aveva respinto l'unione monetaria con l'Europa, affermando che avrebbe mantenuto la sterlina britannica.

Gli animi si infiammarono, le lingue si sciolsero, la retorica iniziava a farsi decisamente razzista.

“C'è una sorta di complotto”, disse il Ministro degli esteri belga, Willy Claes. “Nel mondo anglosassone esistono organizzazioni e personalità che preferiscono un'Europa divisa”.

“Le istituzioni finanziarie anglosassoni” stanno minando gli sforzi dell'Europa per unificare le valute, accusò Raymond Barré, ex-primo ministro francese.

Parlando davanti al Parlamento europeo, Jacques Delors, presidente della Commissione europea, si scagliò contro “gli anglosassoni”.

Da quando i corazzieri di Napoleone caricarono le linee britanniche a Waterloo, il mondo francofono non esplodeva con tanta furia contro la perfida Albione. Le tensioni stavano aumentando pericolosamente.

Ma niente paura.

I soccorsi stavano arrivando.


L'operazione psicologica di Soros

Nella breccia si inserì Roger Cohen, nato e cresciuto in Inghilterra, laureatosi a Oxford e in quel momento storico scrittore per il New York Times.

Cohen cambiò astutamente argomento.

Chiamò l'ufficio di Willy Claes e chiese al portavoce Ghislain D'Hoop di identificare i cospiratori “anglosassoni”.

Ce n'erano molti, rispose D'Hoop, ma uno era George Soros.

D'Hoop era caduto nella trappola.

Aveva dato a Cohen ciò che voleva.

In un articolo del 23 settembre 1993 sul New York Times, Cohen osservò ironicamente: “Ma il signor Soros non rientra certo nella definizione tradizionale di anglosassone. È un ebreo di origine ungherese che parla con un accento evidente”.

Cohen aveva abilmente cambiato argomento.

Invece di un “complotto anglosassone”, Cohen proponeva un complotto alla George Soros.

In un articolo di 900 parole che si proponeva di discutere la crisi monetaria europea, Cohen ne dedicò un terzo a Soros, riflettendo a lungo sull'ingiusto “disprezzo” che Soros aveva subito per aver venduto allo scoperto la sterlina inglese nel 1992 e il franco francese nel 1993.

Mentre Cohen fingeva di difendere Soros, il suo articolo ebbe l'effetto opposto.

Cohen attirò l'attenzione su Soros, rendendolo il fulcro di una storia che non lo riguardava affatto, o almeno non avrebbe dovuto esserlo.

Cohen aveva così schierato una delle armi più potenti nell'arsenale della guerra psicologica britannica.

Io la chiamo la “Soros Psyop”.


Fornire copertura

Nel mio precedente articolo, Come gli inglesi hanno inventato le rivoluzioni colorate, ho spiegato come gli agenti britannici esperti di guerra psicologica svilupparono colpi di stato incruenti e altre tecnologie comportamentali per manipolare i governi stranieri in modo silenzioso e discreto nell'era post-coloniale.

La strategia della Gran Bretagna dal 1945 è stata quella di fare finta di niente, nascondendosi e lasciando che fossero gli americani a fare il grosso del lavoro di polizia nel mondo.

Silenziosamente, sotto i radar, la Gran Bretagna è rimasta profondamente coinvolta negli intrighi imperiali.

Uno dei modi in cui la Gran Bretagna nasconde le sue operazioni è usare George Soros e altri come lui come copertura.


Cattivo designato

Quando gli agenti britannici si impegnano in interventi segreti come la destabilizzazione di governi o l'indebolimento delle valute, George Soros sembra sempre spuntare fuori come un pupazzo a molla, facendo smorfie per le telecamere, rilasciando dichiarazioni provocatorie e, in generale, facendo tutto il possibile per attirare l'attenzione su di sé.

È quella che i professionisti dell'intelligence chiamano un'operazione “rumorosa”.

Soros è il cattivo designato, il capro espiatorio.

Si assume deliberatamente la colpa di tutto, anche quando non ne ha.

È uno strano modo di guadagnarsi da vivere, ma sembra essere ben pagato.


“L'uomo che ha distrutto la Banca d'Inghilterra”

Fino al 1992 la maggior parte delle persone non aveva mai sentito parlare di Soros.

Poi i media britannici lo soprannominarono “L'uomo che ha distrutto la Banca d'Inghilterra”. Soros divenne una celebrità da un giorno all'altro.

Si racconta che abbia venduto allo scoperto la sterlina britannica, ne abbia forzato la svalutazione e se ne sia andato con un profitto di uno (o forse due) miliardi di dollari.

In realtà Soros fu solo uno dei tanti speculatori che scommisero contro la sterlina, forzandone una svalutazione del 20% il “Mercoledì Nero”, ovvero il 16 settembre 1992.

Alcune delle più grandi banche del mondo presero parte all'attacco, insieme a vari hedge fund e fondi pensione. Eppure i media britannici si concentrarono quasi esclusivamente su Soros, sostenendo che fosse stato lui a guidare l'attacco e a trarne i maggiori profitti.

In realtà queste affermazioni hanno ben poche basi, a parte le vanterie dello stesso Soros.


Soros diventa una celebrità

I trader di valute sono notoriamente reticenti, timorosi dell'indignazione pubblica e del controllo governativo.

Quasi sei settimane dopo il Mercoledì Nero, nessuno era veramente sicuro di chi avesse fatto crollare la sterlina britannica.

Poi accadde qualcosa di inaspettato.

Soros confessò!

Il 24 ottobre 1992 il Daily Mail britannico pubblicò un articolo in prima pagina con un Soros sorridente che teneva in mano un drink intitolato “Ho guadagnato un miliardo mentre la sterlina crollava”.

Il Mail era in qualche modo riuscito a ottenere un rendiconto trimestrale del Quantum Fund di Soros.

Quest'ultimo affermò di essere rimasto sorpreso e allarmato dalla fuga di notizie, ma aveva uno strano modo di dimostrarlo. Soros andò direttamente al Times di Londra e confermò quella versione della storia, vantandosi che fosse tutta vera.

Arrivò al punto di dire che “Noi [di Quantum] dovevamo essere il singolo fattore più importante del mercato [...]”.

E così la mattina del 26 ottobre 1992, un titolo di prima pagina del Times proclamò che Soros era “L'uomo che ha distrutto la Banca d'Inghilterra”.

Nei mesi successivi il Times avrebbe preso l'iniziativa e iniziò a promuovere la leggenda di Soros.


Protettori nascosti

In un articolo del 15 gennaio 1995 sul New Yorker, Connie Bruck ricordò lo stupore che travolse il mondo finanziario per la confessione pubblica di Soros: “I colleghi di Soros nella comunità finanziaria, inclusi alcuni amministratori e azionisti di Quantum, sono rimasti sbalorditi dalle sue rivelazioni pubbliche; ancora oggi molti esprimono sconcerto per la sua azione. Una persona nella comunità degli hedge fund mi ha detto: 'Perché portare luce su questo argomento? Perché attirare l'attenzione su di sé?'”.

Questi finanzieri non sono riusciti a cogliere il quadro generale. Non hanno capito che Soros giocava in un campionato diverso, stava giocando una partita diversa.

Non era solo uno speculatore.

Era un soldato in una guerra psicologica.


L'uomo che ha creato George Soros

L'uomo responsabile della promozione di Soros in quel periodo fu Lord William Rees-Mogg, un eminente giornalista e membro della Camera dei Lord.

Il Financial Times lo ha definito “uno dei nomi più grandi del giornalismo britannico”.

Lord Rees-Mogg è morto nel 2012.

Fu direttore del Times per 14 anni (1967-1981), poi vicepresidente della BBC.

Era amico e confidente della famiglia reale, amico intimo e socio in affari di Lord Jacob Rothschild e padre del politico britannico Jacob Rees-Mogg.

Più di chiunque altro, Lord Rees-Mogg è stato responsabile della trasformazione di George Soros in un'arma.


Soros, salvatore della Gran Bretagna

Quando il Daily Mail accusò Soros di aver fatto crollare la sterlina, il Times intervenne per spiegare che Soros era un eroe, che invece aveva effettivamente salvato la sovranità britannica.

In un articolo di prima pagina del 26 ottobre 1992, il Times spiegò che Soros aveva salvato il Paese dal collasso economico e dalla schiavitù dell'UE.

La svalutazione della sterlina aveva costretto la Gran Bretagna a ritirarsi dal Meccanismo Europeo di Cambio (SME), bloccando così i piani britannici di aderire all'unione monetaria europea, aggiunse il Times.

Lord William Rees-Mogg fu particolarmente esplicito nella difesa di Soros.

“La Gran Bretagna ha avuto la fortuna di essere costretta a uscire dallo SME”, scrisse Rees-Mogg nel suo articolo del 1° marzo 1993 sul Times. “La politica economica di George Soros, per un compenso modesto, ha corretto quella del [Primo Ministro] John Major”.

Negli articoli successivi Rees-Mogg si dimostrò sempre più entusiasta nel lodare Soros. Affermò che quest'ultimo aveva “salvato” il Regno Unito; che Soros era un “benefattore della Gran Bretagna”; anzi, che una sua statua avrebbe dovuto essere “eretta in Piazza del Parlamento, di fronte al Ministero del Tesoro”.


Agenda globalista

In realtà Rees-Mogg stava fuorviando i suoi lettori.

Non sosteneva la sovranità britannica. Rees-Mogg era un globalista, convinto che lo stato-nazione avesse esaurito la sua utilità.

Qualunque fossero le ragioni per opporsi all'unione monetaria con l'Europa, il patriottismo britannico non rientrava tra queste.

Rees-Mogg espresse le sue convinzioni globaliste in una serie di libri scritti a quattro mani con lo scrittore statunitense specializzato in investimenti James Dale Davidson.

In The Sovereign Individual (1997) gli autori profetizzarono che le “nazioni occidentali” si sarebbero presto “sgretolate come l'ex-Unione Sovietica, per essere sostituite da piccole giurisdizioni “simili a città-stato” che sarebbero “emerse dalle macerie delle nazioni”.

Gli autori prevedevano che “alcune di queste nuove entità, come i Cavalieri Templari e altri ordini religiosi e militari del Medioevo, avrebbero potuto controllare una considerevole ricchezza e un potere militare senza controllare alcun territorio fisso”.

Come ai tempi del “feudalesimo”, scrissero Rees-Mogg e Davidson, “le persone a basso reddito nei Paesi occidentali” sarebbero sopravvissute legandosi “alle famiglie benestanti come dipendenti”.

In altre parole, le classi inferiori sarebbero tornate alla servitù della gleba.

Tutto questo era per il meglio, scrissero gli autori, poiché avrebbe permesso alle “persone più abili” – ovvero il “cinque per cento più ricco” – di vivere dove volevano e fare ciò che volevano, libere da lealtà o obblighi verso una particolare nazione o governo.

“Mentre l'era dell'Individuo Sovrano prende forma”, conclusero gli autori, “molte delle persone più abili cesseranno di considerarsi parte di una nazione, come britanniche, americane o canadesi. Una nuova comprensione transnazionale o extranazionale del mondo, e un nuovo modo di identificare il proprio posto in esso, attendono di essere scoperti nel nuovo millennio”.

Queste non sono le parole di un patriota.


Il nuovo feudalesimo

Infatti non c'era nulla di nuovo nel “nuovo modo” promesso da Rees-Mogg nel suo libro.

Discendente da un'antica famiglia di proprietari terrieri, Rees-Mogg sapeva che il globalismo era sempre stato il credo delle classi abbienti, la cui unica vera lealtà era verso le proprie famiglie.

La saga di Harry Potter offre una metafora calzante per il mondo odierno, in cui le famiglie d'élite si muovono invisibili tra i “babbani” o la gente comune, gestendo silenziosamente le cose dietro le quinte, nascondendosi alla vista di tutti.

Negli anni '90 le famiglie privilegiate come quella di Rees-Mogg si erano stancate di nascondersi. Rimpiangevano i bei vecchi tempi, quando potevano vivere apertamente nei loro castelli e comandare i loro servi.

Il politologo di Oxford, Hedley Bull, si rivolse a questo pubblico quando nel suo libro del 1977, The Anarchical Society, predisse che “gli stati sovrani potrebbero scomparire ed essere sostituiti non da un governo mondiale, ma da un equivalente moderno e laico del... Medioevo”.

La previsione di Bull di un nuovo medioevo trovò eco nelle élite britanniche.

Con il crollo dell'Unione Sovietica, Rees-Mogg e altri della sua classe sociale iniziarono a celebrare apertamente la fine dello stato-nazione e l'ascesa di un nuovo feudalesimo.

Ripristinare l'ordine feudale è il vero obiettivo del globalismo.


A proposito di quel “complotto anglosassone”

Gli elogi esagerati di Rees-Mogg a George Soros suscitarono sospetti nel continente per un “complotto anglosassone”.

Ulteriori sospetti sorsero quando J. P. Morgan & Co. e la sua affiliata Morgan Stanley furono ritenute complici della rottura della sterlina.

Pur essendo nominalmente americane, queste banche avevano forti legami storici con la Gran Bretagna.

L'attività principale di J. P. Morgan era sempre stata quella di fungere da copertura per gli investitori britannici in America. Le ferrovie e altre industrie statunitensi si basavano in gran parte sul capitale britannico, erogato tramite le banche Morgan.

Junius S. Morgan, il padre di J. P., avviò l'azienda di famiglia nel 1854, trasferendosi negli uffici londinesi di Peabody, Morgan & Co. e rimanendo in Inghilterra per i successivi 23 anni.

I legami della famiglia Morgan con la Gran Bretagna sono profondi.

Nel periodo precedente al Mercoledì nero, J. P. Morgan & Co. vendette allo scoperto la sterlina britannica. Nel frattempo la sua banca gemella, Morgan Stanley, concesse ingenti prestiti a Soros, consentendogli di fare lo stesso.

Le accuse di un “complotto anglosassone” non sembrano inverosimili, alla luce di questi fatti.

È probabile che Soros e altri speculatori stranieri abbiano semplicemente fornito copertura a quella che era, di fatto, un'operazione di guerra economica britannica contro la propria banca centrale.


Come gli inglesi hanno reclutato Soros

Come sottolineò Roger Cohen sul New York Times, George Soros non è un “anglosassone”. Com'è finito coinvolto in quel complotto anglosassone?

Il giovane Soros era stato reclutato tramite la London School of Economics (LSE). Lì fu plasmato come arma del “soft power” britannico.

In un precedente articolo, Come gli inglesi hanno venduto il globalismo all'America, ho spiegato come la Gran Bretagna utilizzi il “soft power” (seduzione e cooptazione) per costruire reti di influenza in altri Paesi.

La Gran Bretagna si considera “il principale soft power al mondo”, secondo la Strategic Defence and Security Review del Regno Unito del 2015.

Gli inglesi devono il loro status di leader al loro incessante reclutamento di studenti stranieri nelle università del Regno Unito, un'iniziativa considerata una priorità per la sicurezza nazionale, supervisionata dal British Council, un'agenzia del Ministero degli esteri.

La Strategic Defence and Security Review del 2015 rilevava che “1,8 milioni di studenti stranieri ricevono un'istruzione britannica ogni anno” e che “più di un quarto degli attuali leader mondiali ha studiato nel Regno Unito”.

Dopo la laurea, questi ex-studenti britannici sono attentamente monitorati dal Ministero degli esteri britannico.

Secondo un documento del governo britannico del 2013, gli ex-studenti che sono destinati a posizioni di rilievo sono incoraggiati a cercare un “maggiore coinvolgimento” con i colleghi ex-studenti britannici, allo scopo di formare “una rete di persone in posizioni di influenza in tutto il mondo che possano promuovere gli obiettivi della politica estera britannica [...]”.


Modello di reclutamento

George Soros è un trionfo della strategia di soft power britannica.

Non solo ha raggiunto una “posizione di influenza” dopo la laurea, ma è rimasto vicino ai suoi mentori britannici e ne ha promosso gli insegnamenti.

In onore di Karl Popper, suo professore alla LSE, Soros diede alle sue ONG il nome di Open Society Foundation, la cui teoria della “società aperta” guida l'attivismo di Soros ancora oggi.

Il capolavoro di Popper del 1945, La società aperta e i suoi nemici, è una difesa filosofica dell'imperialismo, in particolare dell'imperialismo britannico, così come sostenuto dai fondatori della LSE.

I socialisti fabiani che fondarono la LSE credevano che l'espansione britannica fosse la più grande forza civilizzatrice in un mondo altrimenti barbaro.

Nel suo libro Popper difese espressamente la conquista imperiale come primo passo per cancellare le identità tribali e nazionali, per spianare la strada a un “Impero Universale dell'Uomo”.


“Pregiudizi britannici”

Soros arrivò a Londra nel 1947, rifugiato dall'Ungheria occupata dai sovietici.

Visse in Inghilterra per nove anni, dai 17 ai 27 anni (dall'agosto 1947 al settembre 1956).

Laureatosi alla LSE nel 1953, Soros ottenne il suo primo lavoro in ambito finanziario presso la Singer & Friedlander, una banca d'affari londinese.

Soros ammette di essersi trasferito negli Stati Uniti solo per fare soldi.

Progettò di rimanerci cinque anni, per poi tornare in Inghilterra.

“Non mi piacevano gli Stati Uniti”, raccontò al suo biografo Michael Kaufman nel libro, Soros: The Life and Times of a Messianic Billionaire. “Avevo acquisito alcuni pregiudizi britannici di base; sapete, gli Stati Uniti erano, beh, commerciali, volgari e così via”.


Società aperta & società chiusa

Il disprezzo per l'America non fu l'unico “pregiudizio britannico” che Soros acquisì alla LSE. Sviluppò anche una forte avversione per i concetti di tribù e nazione, seguendo l'esempio di Karl Popper.

Nel libro, La società aperta e i suoi nemici, Popper insegnava che la razza umana si stava evolvendo da una società “chiusa” a una società “aperta”.

Il catalizzatore di questa trasformazione era l'imperialismo.

Le società chiuse sono tribali, interessate solo a ciò che è meglio per la tribù, mentre una società “aperta” cerca il meglio per tutta l'umanità.

Popper ammetteva che le società tribali sembrano attraenti in superficie, sono strettamente legate da “parentela, convivenza, condivisione di sforzi comuni, pericoli comuni, gioie comuni e sofferenze comuni”.

Tuttavia i popoli tribali non sono mai veramente liberi, sosteneva Popper. Le loro vite sono governate da “magia” e “superstizione”, dalle “leggi”, “costumi” e “tabù” dei loro antenati.

Sono intrappolati in una routine da cui non possono sfuggire.

Al contrario, una società “aperta” non ha tabù né costumi, né tribù né nazioni. È composta solo da “individui”, liberi di fare o pensare come desiderano.


“Impero universale dell'uomo”

Popper sosteneva che tutte le società nascono “chiuse”, ma in seguito diventano “aperte” attraverso l'imperialismo.

Quando una tribù diventa abbastanza forte da conquistarne altre, le società “chiuse” sono costrette ad “aprirsi” al conquistatore, mentre il conquistatore diventa a sua volta “aperto” alle vie dei conquistati.

“Credo sia necessario che l'esclusivismo e l'autosufficienza tribale possano essere superati solo da una qualche forma di imperialismo”, concluse Popper.

Gli imperi rendono tribù e nazioni obsolete, disse Popper. Forniscono un governo unico, con un unico insieme di regole per tutti.

Popper sognava un “Impero universale dell'uomo” che avrebbe diffuso la “società aperta” in ogni angolo del mondo.


Frutto Proibito

Per molti versi l'Impero è più “tollerante” della tribù, sostiene Popper. I popoli detribalizzati scoprono di essere liberi di fare e dire molte cose che un tempo consideravano “tabù”.

Ma c'è una cosa che l'Impero non può tollerare: il tribalismo stesso.

Popper avvertì che l'umanità può solo progredire, non regredire. Paragonò la “società aperta” al mangiare dall'Albero della Conoscenza. Una volta assaggiato il frutto proibito, le porte del Paradiso si chiudono.

Non si può mai tornare alla tribù; chi ci prova diventerà fascista.

“Non potremo mai tornare all'innocenza e alla bellezza della società chiusa [...]”, scrisse Popper. “Più ci proviamo [...] più sicuramente arriviamo alla [...] Polizia segreta e al [...] gangsterismo romanticizzato [...]. Non si può tornare a uno stato di natura armonioso. Se torniamo indietro, allora dobbiamo percorrere tutta la strada: dobbiamo tornare alle bestie”.


Impero Socialista

Le idee di Popper non erano originali: stava semplicemente sposando la dottrina dell'imperialismo liberale a cui era dedicata la London School of Economics.

La LSE fu fondata nel 1895 da quattro membri della Fabian Society, tra cui Sidney e Beatrice Webb, George Bernard Shaw e Graham Wallas.

Tutti erano ferventi imperialisti, oltre che socialisti, e non vedevano alcun conflitto tra i due. Anzi i Fabiani consideravano l'Impero britannico un ottimo veicolo per diffondere l'internazionalismo socialista.

In un opuscolo del 1901 intitolato, Twentieth Century Politics: A Policy of National Efficiency, Sidney Webb invocava la fine dei “diritti astratti basati sulle 'nazionalità'”. Respingendo quella che definiva la “fervida propaganda dell'Home Rule” irlandese, Webb condannava qualsiasi movimento che spingesse per l'autogoverno basato sulla “obsoleta nozione tribale” di “autonomia razziale”.

Webb sosteneva invece che il mondo dovesse essere diviso in “unità amministrative” basate esclusivamente sulla geografia, “qualunque fosse la mescolanza razziale”, come esemplificato da “quel grande commonwealth di popoli chiamato Impero Britannico” che comprendeva “membri di tutte le razze, di tutti i colori umani e di quasi tutte le lingue e religioni”.

Così Webb espose l'essenza della “società aperta” imperiale quasi 50 anni prima di Popper.


Socialismo invisibile

Non si sa se George Orwell fosse un Fabiano, ma condivideva il sogno di un Impero Britannico socialista.

Nel suo libro del 1941, Il leone e l'unicorno: il socialismo e il genio inglese, Orwell predisse la nascita di un “movimento socialista specificamente inglese” il quale avrebbe conservato molti “anacronismi” del passato.

Questi “anacronismi” avrebbero calmato e rassicurato l'anima inglese, proprio mentre la società britannica veniva sconvolta.

Un tale “anacronismo” sarebbe stata la Monarchia, che Orwell riteneva degna di essere preservata. Un altro era l'Impero, che sarebbe stato ribattezzato “una federazione di stati socialisti [...]”.

Orwell predisse che un vero socialismo inglese avrebbe “mostrato una capacità di assimilazione del passato che avrebbe sconvolto gli osservatori stranieri e talvolta fatto dubitare che si fosse verificata una rivoluzione”.

Nonostante le apparenze, la Rivoluzione sarebbe stata reale, in ogni suo aspetto “essenziale”, promise Orwell.


“Come una mummia insepolta”

In una strana eco di Orwell, Lord William Rees-Mogg suggerì anche che il suo nuovo feudalesimo avrebbe mantenuto molti degli aspetti esteriori della normale vita inglese, anche mentre la nazione britannica si disgregava.

Nel loro libro del 1987, Blood in the Streets, Rees-Mogg e Davidson predissero che, anche dopo che gli stati-nazione avessero perso il loro potere e la loro sovranità, “le loro forme sarebbero rimaste, come in Libano, come del resto la forma dell'Impero Romano, ovvero come una mummia insepolta, per tutto il Medioevo".

Nonostante la sua cupa visione del futuro della Gran Bretagna, Rees-Mogg continuò a spacciarsi per patriota britannico fino alla fine. Forse era questo il suo modo di salvare le apparenze, di contribuire a preservare la “forma” della Gran Bretagna, “come una mummia insepolta”, al fine di calmare e rassicurare l'anima inglese.

Vediamo quindi che il socialismo “specificamente inglese” di Orwell – in cui persino la monarchia sarebbe sopravvissuta – ha una strana somiglianza con il nuovo feudalesimo di Rees-Mogg.

Potrebbe persino essere opportuno chiedersi se siano la stessa cosa.


Soros, l'imperiale

Nel 1995 Soros dichiarò al New Yorker: “Non credo che si possa mai superare l'antisemitismo comportandosi come una tribù [...]. L'unico modo per superarlo è rinunciare al tribalismo”.

Non fu né la prima né l'ultima volta che Soros suscitò scalpore condannando il tribalismo ebraico come fattore che contribuisce all'antisemitismo. Quando Soros fece un commento simile nel 2003, ricevette un rimprovero da Elan Steinberg del Congresso Ebraico Mondiale, che replicò: “L'antisemitismo non è causato dagli ebrei; è causato dagli antisemiti”.

Per essere onesti, Soros stava solo ripetendo ciò che aveva imparato alla London School of Economics.

Le sue fondazioni, Open Society, sono espressamente dedicate agli insegnamenti di Popper, che si oppongono a qualsiasi tipo di tribalismo. Rifiutando il tribalismo del suo stesso popolo ebraico, Soros si limitava a essere intellettualmente coerente.

A livello personale, non posso certo condannare Soros per la sua critica al tribalismo ebraico, visto che mio padre, ebreo, aveva opinioni simili.

Uno dei modi in cui mio padre espresse la sua ribellione fu sposando mia madre, una bellezza esotica, metà messicana, metà coreana e cattolica di fede.

Comprendo pienamente il difficile rapporto di Soros con la sua identità ebraica.

Tuttavia nelle parole di Soros percepisco un'eco inquietante dell'ideologia imperialista di Sidney Webb, un'influenza che pervade e definisce la rete Open Society a ogni livello.


Effetto pifferaio magico

Nei mesi successivi al Mercoledì Nero, i media britannici promossero Soros come una star del cinema, costruendo la sua leggenda come il più grande genio finanziario dell'epoca.

Lord William Rees-Mogg fu il capofila.

Rees-Mogg e i suoi soci sapevano che, se un numero sufficiente di piccoli investitori fosse stato indotto a credere alla leggenda di Soros, se un numero sufficiente fosse stato manipolato per imitarne le mosse, comprando e vendendo secondo i suoi consigli, allora Soros avrebbe comandato l'ondata.

Avrebbe potuto fare la differenza sui mercati, semplicemente parlando.

Nel suo articolo sul Times del 26 aprile 1993, Rees-Mogg gettò un'aura mistica su Soros, dipingendolo come un Nostradamus dei giorni nostri in grado di vedere attraverso le “illusioni pubbliche” la “realtà” sottostante.

Altri giornalisti si allinearono, ripetendo i punti di vista di Rees-Mogg come sonnambuli.

“Perché siamo così stregati da questo moderno Re Mida?”, chiese il Daily Mail, con il tono svenevole di un innamorato disperato.

Non tutti credettero al mito di Soros.

Leon Richardson, editorialista finanziario australiano, accusò Rees-Mogg di aver cercato di trasformare Soros in un pifferaio magico, per sviare gli investitori.

“Lord Rees-Mogg ha elogiato Soros, definendolo l'investitore più brillante del mondo”, affermò Richardson nella sua rubrica del 9 maggio 1993, “di conseguenza la gente ha iniziato a seguirlo e a fare quello che fa per fare soldi”.


La truffa dell'oro

Chi teneva d'occhio Soros dopo il Mercoledì Nero non dovette aspettare a lungo per il suo successivo consiglio di investimento.

“Soros ha rivolto la sua attenzione all'oro”, annunciò Rees-Mogg il 26 aprile 1993.

Newmont Mining era il più grande produttore di oro del Nord America. Soros aveva appena acquistato 10 milioni di azioni da Sir James Goldsmith e Lord Jacob Rothschild.

Se Soros stava comprando oro, forse dovremmo farlo anche noi, insinuò Rees-Mogg.

Non tutti accolsero con entusiasmo il suggerimento di Rees-Mogg. Alcuni commentatori notarono che, mentre Soros acquistava azioni Newmont, Goldsmith e Rothschild le stavano svendendo – un segnale di acquisto tutt'altro che chiaro.

“Normalmente quando un insider vende azioni della propria azienda cerca di non farsi notare”, commentò Leon Richardson. “Questo è stato uno strano caso in cui l'insider stava cercando di ottenere un'ampia copertura mediatica sulla sua vendita”.

Ciononostante l'effetto pifferaio magico funzionò: il 2 agosto il prezzo dell'oro era schizzato da $340 a $406 l'oncia, con un aumento del 19%.


“Un nuovo modo di fare soldi”

Molti nella stampa finanziaria mormorarono dell'insolito livello di coordinamento tra il Times, Soros, Goldsmith e Rothschild.

“Soros è un enigma [...]” scrisse il London Evening Standard. “Non ha mai parlato bene dell'oro, ma d'altronde non ce n'era bisogno. La stampa lo ha fatto per lui, con il sostenitore di Goldsmith, Lord Rees-Mogg, che ha lanciato l'appello sul Times”.

“Non si può che ammirare la tempistica di Goldsmith/Soros e l'aura ben orchestrata del loro spettacolo per l'oro”, commentò EuroBusiness Magazine nel settembre del 1993. “Avevano anche un cast di supporto impressionante: una stampa che ha suonato come un coro greco al loro canto da sirene per l'oro”.

David C. Roche, stratega londinese di Morgan Stanley, concluse: “È un nuovo modo di fare soldi, una combinazione di investimenti giudiziosi al minimo di un mercato e di un colpo di scena pubblicitario”.


Gioco di squadra

Nonostante tutto il clamore, la bolla dell'oro è scoppiata a settembre di quell'anno, facendo crollare i prezzi dell'oro.

Molti persero... tanto.

Ma Goldsmith e Rothschild fecero un sacco di soldi, vendendo al picco.

Alcuni sospettavano che lo scopo dell'operazione fosse quello di aiutare Goldsmith e Rothschild a realizzare un profitto sulle loro partecipazioni in Newmont, precedentemente stagnanti.

Soros, d'altra parte, subì un duro colpo: quando vendette le sue azioni Newmont, dovette farlo a un prezzo inferiore.

Perché lo fece? Perché Soros avrebbe dovuto guidare un piano di propaganda dell'oro che gli portò pochi o nessun profitto?

Alcuni sospettavano che Soros potesse aver subito un colpo per la squadra.

Forse non era poi così anticonformista, dopotutto.

Forse il pifferaio magico era solo uno che segue gli ordini...


Profeta o pedina?

Come minimo, la mossa dell'oro dimostrò che Soros lavorava di squadra.

La sua immagine di lupo solitario era solo un mito.

Quando i riflettori della celebrità si posarono per la prima volta su Soros, lo trovarono a lavorare con una ristretta cerchia di investitori britannici, tra cui alcuni dei nomi più famosi della finanza globale.

Gli investitori di quel livello non si limitano a “speculare” sui mercati, quanto piuttosto a controllarli.

La truffa dell'oro rivelò che Rees-Mogg, Soros, Goldsmith e Rothschild erano legati da una intricata rete di relazioni commerciali.

Goldsmith, ad esempio, era un direttore della St. James Place Capital di Rothschild. Un altro direttore della St. James Place, Nils Taube, era contemporaneamente direttore del Quantum Fund di Soros.

Lo stesso Rees-Mogg era un caro amico di Lord Rothschild, nonché membro del consiglio di amministrazione di J. Rothschild Investment Management e direttore di St. James Place Capital.

Nel frattempo il giornalista del Times, Ivan Fallon – che contribuì a far uscire la notizia dell'acquisto dell'oro da parte di Soros sul Sunday Times, co-autore della relazione originale del 25 aprile – era il biografo di Goldsmith, autore di Billionaire: The Life and Times of Sir James Goldsmith.

Era tutto molto intimo.


“Una banda di insider”

“Questo tipo di connessioni, questa impressione di una banda di insider, è ciò che fa sì che gli investitori più tradizionali a volte sollevino un sopracciglio quando si tratta di Soros”, brontolò The Observer con disapprovazione.

The Observer aveva ragione. Soros era un “insider” che lavorava con altri insider e non c'era alcuna indicazione che fosse minimamente vicino a essere un socio senior del gruppo.

Soros era un servitore, non un profeta; un seguace, non un leader.

Ecco perché gridò allo scandalo quando fu condannato per insider trading nel 2002, in relazione allo scandalo francese Société Générale.

“È bizzarro che io sia stato l'unico dichiarato colpevole quando era coinvolto l'intero establishment francese”, si lamentò Soros alla CNN.

Soros riteneva chiaramente che i francesi avessero infranto le regole.

Secondo lui, quando “l'intero [...] establishment” di un Paese cospira per manipolare i mercati, è ingiusto individuare un singolo cospiratore e sottoporlo a processo.

Dopotutto, Soros stava semplicemente facendo quello che facevano gli altri.


Rivoluzioni colorate

Mentre Rees-Mogg stava raffinando l'immagine di Soros come il più grande guru degli investimenti al mondo, ne promuoveva anche le attività politiche.

“Ammiro il modo in cui ha speso i suoi soldi”, affermò Rees-Mogg nella sua rubrica sul Times del 26 aprile 1993. “Niente è più importante della sopravvivenza economica degli ex-Paesi comunisti dell'Europa orientale”.

Rees-Mogg si riferiva al lavoro della fondazione di Soros negli ex-stati sovietici, dove divenne rapidamente famoso come finanziatore e organizzatore di colpi di stato incruenti noti come “rivoluzioni colorate”.

Come per le sue transazioni monetarie, Soros non agì da solo quando si impegnò in operazioni di cambio di governo. Faceva parte di una squadra.


Soros e gli “atlantisti”

In una serie di articoli su Revolver News, Darren Beattie ha smascherato una cricca di agenti della sicurezza nazionale statunitense specializzati nel rovesciare governi attraverso “rivoluzioni colorate”.

Operano attraverso una rete di ONG sponsorizzate dallo stato, tra cui il National Endowment for Democracy (NED) e le sue due filiali, l'International Republican Institute (IRI) e il National Democratic Institute (NDI).

Beattie accusa questi gruppi “pro-democrazia” di aver organizzato un ammutinamento contro il presidente Trump.

Secondo Beattie, questi agenti “pro-democrazia” hanno avuto un ruolo centrale nell'intralcio delle nostre elezioni nel 2020, e i loro piani sono culminati nella cosiddetta “insurrezione” del Campidoglio, che Revolver ha ora smascherato come un'operazione interna orchestrata da provocatori dell'FBI.

Beattie definisce i cospiratori “atlantisti”, un eufemismo comunemente applicato agli anglofili del Dipartimento di stato che antepongono gli interessi britannici a quelli americani.

Uno di questi cospiratori “atlantisti” era George Soros, secondo Beattie.


La bocca che ruggì

Normalmente quando Soros si impegna in operazioni di cambio di governo, fa di tutto per rivendicarne il merito, proprio come fece per il fallimento della Banca d'Inghilterra nel 1992.

Ad esempio, nel suo libro del 2003, La bolla della supremazia americana, Soros confessò apertamente: “Le mie fondamenta hanno contribuito al cambio di governo in Slovacchia nel 1998, in Croazia nel 1999 e in Jugoslavia nel 2000, mobilitando la società civile per sbarazzarsi rispettivamente di Vladimir Meciar, Franjo Tudjman e Slobodan Milosevic”.

Quello stesso anno, in una conferenza stampa a Mosca, Soros minacciò pubblicamente di deporre il presidente georgiano Eduard Shevardnadze, affermando: “Questo è ciò che abbiamo fatto in Slovacchia al tempo di Meciar, in Croazia al tempo di Tudjman e in Jugoslavia al tempo di Milosevic”.

Quando Shevardnadze fu successivamente rovesciato durante una rivolta del novembre 2003, Soros ne rivendicò pubblicamente il merito.

“Sono felicissimo di quanto accaduto in Georgia e sono molto orgoglioso di avervi contribuito”, si vantò Soros sul Los Angeles Times il 5 luglio 2004.


La rete del Regno Unito

Soros non si affrettò a rivendicare il merito della Rivoluzione arancione del 2004 in Ucraina, ma fu un suo collega, Michael McFaul, a farlo per lui.

“Gli americani si sono intromessi negli affari interni dell'Ucraina? Sì”, scrisse McFaul sul Washington Post del 21 dicembre 2004.

McFaul – che all'epoca era professore associato a Stanford, ma che in seguito fu ambasciatore in Russia sotto Obama – proseguì elencando vari “agenti d'influenza americani” che, a suo dire, avevano preso parte alla Rivoluzione arancione, tra cui l'International Renaissance Foundation, che McFaul descrisse in particolare come “finanziata da Soros”.

L'Ucraina è un Paese pericoloso e violento, dove gli agenti stranieri corrono rischi. È difficile capire perché McFaul abbia deliberatamente messo in pericolo Soros e una serie di agenti americani implicandoli pubblicamente in ingerenze elettorali, a meno che non stesse cercando di distogliere l'attenzione da altri partecipanti non americani.

Uno di questi partecipanti non americani era la Westminster Foundation for Democracy (WFD), un gruppo britannico “pro-democrazia” finanziato dal Ministero degli esteri britannico. La WFD ha avuto un ruolo cruciale nella Rivoluzione arancione.

McFaul ha forse messo a rischio i suoi connazionali americani per fornire copertura agli inglesi?

Come Rhodes Scholar e laureato a Oxford, McFaul è un ex-studente britannico che ha raggiunto una “posizione di influenza”, esattamente il tipo di persona a cui il Ministero degli esteri britannico si rivolge abitualmente per contribuire a promuovere “gli obiettivi della politica estera britannica”.


La mano nascosta della Gran Bretagna

Uno dei cosiddetti “agenti d'influenza americani” smascherati da McFaul sul Washington Post era Freedom House.

Come rivelato nel mio precedente articolo, Come gli inglesi hanno inventato le rivoluzioni colorate, Freedom House fu fondata nel 1941 come corpo di spionaggio britannico, il cui scopo era quello di spingere gli Stati Uniti a entrare nella Seconda guerra mondiale e di aiutare la Gran Bretagna a condurre operazioni segrete contro i pacifisti statunitensi.

Non c'è motivo di credere che Freedom House abbia cambiato schieramento da allora.

Descrivere Freedom House come un “agente d'influenza americano” mette un po' a dura prova il termine “americano”.

Freedom House esemplifica perfettamente quel tipo di fronte anglofilo che Darren Beattie definisce “atlantista”.


Dov'è Soros?

Sospetto che il vero ruolo di Soros tra gli operatori delle “rivoluzioni colorate” sia simile al suo ruolo nel mondo finanziario.

Distoglie l'attenzione dalle operazioni britanniche rivendicandone a gran voce il merito.

Allora, dov'è Soros adesso?

Perché non si vanta della figura decaduta del presidente Trump, come fece con Meciar, Tudjman, Milosevic, Shevardnadze e tanti altri?

Forse Soros ha ricevuto una chiamata da Londra.

Forse i suoi superiori lo hanno avvertito che la situazione si stava facendo un po' rischiosa con queste rivelazioni su Revolver.

Forse hanno detto a Soros di tenere la bocca chiusa.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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giovedì 12 giugno 2025

Bitcoin risucchia quell'energia in eccesso e bloccata

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Il manoscritto fornisce un grimaldello al lettore, una chiave di lettura semplificata, del mondo finanziario e non che sembra essere andato "fuori controllo" negli ultimi quattro anni in particolare. Questa è una storia di cartelli, a livello sovrastatale e sovranazionale, la cui pianificazione centrale ha raggiunto un punto in cui deve essere riformata radicalmente e questa riforma radicale non può avvenire senza una dose di dolore economico che potrebbe mettere a repentaglio la loro autorità. Da qui la risposta al Grande Default attraverso il Grande Reset. Questa è la storia di un coyote, che quando non riesce a sfamarsi all'esterno ricorre all'autofagocitazione. Lo stesso è accaduto ai membri del G7, dove i sei membri restanti hanno iniziato a fagocitare il settimo: gli Stati Uniti.

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di Joakim Book

(Versione audio della traduzione disponibile qui: https://open.substack.com/pub/fsimoncelli/p/bitcoin-risucchia-quellenergia-in)

L'elettricità ha la difficile caratteristica di dover essere consumata quando viene prodotta. In altre parole: poiché ci aspettiamo che le luci si accendano ogni volta che premiamo un interruttore, l'elettricità deve essere prodotta ogni volta che i consumatori lo desiderano.

Per gran parte dei suoi 150 anni di storia, le reti elettriche hanno avuto un buon controllo sulla propria fornitura – alzando i quadranti, bruciando più carburante, azionando più turbine – ma hanno dovuto prevedere la domanda, anticipando e gestendo in dettaglio anche le più piccole variazioni di utilizzo. Oggi abbiamo sempre più produttori di energia rinnovabile sulla rete, il che ha reso la fornitura stessa più inaffidabile, dipendente non tanto dalle decisioni umane quanto dai capricci del meteo. Se si riempie il paesaggio di torri eoliche e parchi fotovoltaici che producono troppa elettricità quando non ne abbiamo bisogno e quasi nulla quando ne abbiamo davvero bisogno, si ottiene la tragica ricetta per reti instabili.

Ci aspettiamo sempre che la rete fornisca energia, quindi i gestori devono assicurarsi che ci sia sufficiente capacità extra pronta a soddisfare la domanda di picco, indipendentemente dalle condizioni meteorologiche. Ciò significa che alcune turbine funzionano senza carico e che molte altre sono pronte ad aumentarlo quando le previsioni del tempo indicano condizioni avverse.

Avere tutta questa capacità extra è costoso e dispendioso, intenzionalmente. Risultato? Funzionano in modo inefficiente, il termine tecnico è “sovradimensionato”, spesso di oltre il 50%, poiché ci aspettiamo che la rete copra non solo il consumo medio, ma anche i picchi estremi. Qualcuno deve sostenere il costo finanziario di tutta questa capacità e dello stoccaggio di combustibile, che, compresso dalle politiche energetiche locali, si riflette in tariffe che i consumatori pagano. È troppo tardi per iniziare a costruire parchi eolici, centrali a gas o progettare linee di trasmissione oggi se è previsto un picco di domanda di elettricità per il fine settimana.

Quando aggiungiamo grandi quantità di energia eolica e solare alla rete, inondandola occasionalmente con talmente tanta elettricità in abbondanza che i prezzi dell'energia diventano negativi, la somma totale diventa un'elettricità più costosa, non meno costosa, anche se i loro input ci vengono forniti gratuitamente dalla natura.

Ciò di cui abbiamo bisogno è un consumatore di elettricità, un consumatore di ultima istanza, in grado di recuperare l'elettricità in eccesso, disconnettersi all'istante e di ripristinare la produzione in caso di occasionali carenze o ondate di freddo. Un consumatore che possa co-localizzarsi con le centrali elettriche ed evitare così la presenza di ulteriori linee di trasmissione che si intersecano nel paesaggio per i suoi scopi di produzione su larga scala.

Bitcoin è una tecnologia monetaria straordinaria, che sta rivoluzionando il mondo del denaro, degli asset e del risparmio, un scettico alla volta. Sulla sua scia troviamo ogni sorta di effetti benefici di secondo ordine: il miglioramento della rete elettrica e il recupero dell'energia globale inutilizzata sono solo gli ultimi esempi. “I miner sono i consumatori di elettricità economicamente perfetti”, conclude Lee Bratcher su Bitcoin Magazine, “il loro consumo costante incentiva lo sviluppo di una generazione aggiuntiva”.

Durante la tempesta invernale Finn, più di un quarto dell'hashrate di Bitcoin è andato offline, poiché gran parte dell'hashpower globale risiede ora in Texas ed è coinvolto in vari programmi di riduzione del carico e di risposta alla domanda con l'operatore di rete ERCOT.

Prima di Bitcoin, i programmi di domanda-risposta erano piccole idee geniali che sembravano non funzionare mai. Come conclude Meredith Angwin nel suo libro, Shorting the Grid: “Si può offrire ai clienti di rinunciare all'elettricità nelle giornate molto fredde. Tuttavia pochissimi accetteranno la vostra offerta”. Il motivo per cui la rete è sotto sforzo durante un'ondata di freddo è lo stesso motivo per cui gli utenti di energia elettrica attribuiscono un valore molto elevato al loro consumo di elettricità. L'offerta viene compressa proprio nel momento in cui la domanda dei consumatori diventa anelastica al prezzo, con il riscaldamento e l'illuminazione delle case che diventano quasi infinitamente preziosi in situazioni difficili.

James McAvity di Cormint, un'azienda di mining basata sulle energie rinnovabili nel Texas occidentale, afferma: “Un carico di base che non contribuisce ai picchi è letteralmente il partecipante ideale al mercato di una rete elettrica. Questo è particolarmente vero per le reti con un'elevata penetrazione delle energie rinnovabili”.

L'hashing, il processo crittografico ad alto consumo di energia elettrica utilizzato dalle apparecchiature di mining per trovare e confermare nuovi blocchi Bitcoin, è un processo competitivo e casuale tra chi vuole indovinare il nonce. Ciò significa che l'accensione e lo spegnimento dei miner non danneggerà i loro progressi come farebbero tali spegnimenti improvvisi nei data center o in altri utenti su larga scala come la produzione manifatturiera ad alto consumo energetico. Una rete sovradimensionata con una generazione di elettricità di riserva può vendere l'eccesso ai miner di Bitcoin invece di ridurre la sovrapproduzione o lasciare gli impianti inattivi. I miner pagano gli impianti per l'elettricità che altrimenti andrebbe sprecata. In condizioni estreme, come un aumento del consumo di energia o ondate di freddo come quelle sperimentate in gran parte del sud degli Stati Uniti a gennaio, i miner possono facilmente spegnere e restituire alla rete la capacità di generazione di elettricità. Quando le condizioni si normalizzano, i miner possono riprendere l'hashing senza perdere nulla se non il tempo di manutenzione, per il quale i programmi di risposta alla domanda li rimborsano direttamente o si riflette nel prezzo negoziato tra miner e centrali elettriche.

I miner di Bitcoin ricavano i loro profitti dalle commissioni di transazione e dalle conferme dei blocchi su un mercato globale, completamente indipendente dalla domanda di elettricità locale a breve termine e dalle condizioni meteorologiche. Interrompere l'erogazione di energia – di fatto restituendola alla rete quando questa diventa temporaneamente più preziosa per altri usi altrove – è un processo semplice ed economicamente vantaggioso. Una situazione vincente per le reti, i consumatori, i miner e i sostenitori dell'energia verde.

Questi ricavi aggiuntivi potrebbero anche rendere la costruzione di centrali elettriche economicamente sostenibile, dove la sovraccapacità non rappresenta più una spesa pura e semplice dato che i miner, sparsi lungo tutta la rete, sono fortemente incentivati ​​a trovare la fonte di energia più economica e prontamente disponibile.

Con il mining di Bitcoin a supporto della rete elettrica, potremmo utilizzare meglio la capacità installata, sprecare meno risorse ed eliminare parte della necessità per i consumatori di sostenere spese in conto capitale costose, necessarie solo in caso di eventi estremi. Questo consumatore di ultima istanza potrebbe proteggere le reti elettriche e monetizzarne la resilienza.

Il mining di Bitcoin, lungi dall'essere un fattore superfluo nel cambiamento climatico, è il tassello mancante del puzzle che stabilizza l'energia verde volatile e rende le reti elettriche adatte al ventunesimo secolo.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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mercoledì 11 giugno 2025

La battaglia di Milei contro la trappola monetaria dell'Argentina

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di Skot Sheller

(Versione audio della traduzione disponibile qui: https://open.substack.com/pub/fsimoncelli/p/la-battaglia-di-milei-contro-la-trappola)

Immaginate uno scenario in cui il governo federale decretasse quanti dollari possono essere acquisiti. Le aziende straniere non saprebbero con certezza quando, o addirittura se, i loro profitti verrebbero rimpatriati. Le persone avrebbero bisogno di un'autorizzazione governativa speciale per investire all'estero o acquisire dollari. Gli investimenti esteri ristagnerebbero e i dollari verrebbero commerciati sul mercato nero a prezzi gonfiati.

Questo scenario orwelliano e distopico per qualsiasi cittadino americano è stata la realtà per gli argentini dal 2011, quando la presidente Cristina Fernández de Kirchner introdusse il controllo monetario noto come cepo cambiario. La misura fu una risposta alla crescente fuga di capitali, al forte calo delle riserve internazionali e alla pressione sul peso argentino. In pratica, si trattò di una restrizione all'accesso al dollaro e di una delle maggiori distorsioni del tasso di cambio nel mondo moderno.

In quel periodo il governo argentino fece ciò che è altamente probabile che facciano gli stati: creò un problema e poi ne creò uno ancora più grande per cercare di risolverlo. L'amministrazione Kirchner, profondamente interventista, avviò un ciclo di nazionalizzazioni, controlli sui prezzi e politiche che logicamente indebolirono qualsiasi potenziale di crescita. L'Argentina non offriva più un ambiente attraente per gli investimenti.

Anche la fiducia dei cittadini venne naturalmente meno; perfino istituzioni come l'Istituto nazionale di statistica e censimento (INDEC) sono state accusate di aver manipolato la verità sui dati sull'inflazione, in un tentativo di preservare la narrazione ufficiale del governo argentino.

Com'è naturale, gli argentini iniziarono a scambiare i loro pesos con dollari come forma di protezione, portando al crollo delle riserve in dollari della banca centrale. Questo fenomeno spinse il governo argentino a decidere di fissare il tasso di cambio, anziché lasciare che il peso fluttuasse rispetto al dollaro, una linea di politica che generò una pressione significativa sulle riserve. Disperato, il governo argentino introdusse il cepo, il quale prevedeva controlli burocratici sulle importazioni, sugli acquisti di valuta estera e sulla possibilità di rimpatriare i profitti.

Il cepo divenne una presenza fissa in Argentina, presente attraverso una presidenza dopo l'altra. Anche quando il presidente di centro-destra, Macri, lo abrogò temporaneamente, lo reintrodusse dopo tre anni, a causa del deterioramento delle riserve internazionali, dei deficit di bilancio, dell'aumento dell'inflazione e della perdita di fiducia da parte dei mercati, i quali esercitavano pressioni sul tasso di cambio e sul sistema bancario. Il suo successore, Alberto Fernández, rafforzò i controlli monetari, trasformando l'accesso personale al dollaro in un assurdo processo burocratico, ma soprattutto in un intollerabile attacco alla libertà economica, che in ultima analisi è inscindibile dalla libertà individuale.

In pratica, il cepo significava che la banca centrale vendeva dollari a un tasso ufficiale ben al di sotto del tasso di libero mercato. Fino a poco tempo fa vendeva dollari a 400 pesos, mentre il mercato parallelo, il “dollaro blu”, li vendeva a circa 1.000 pesos. Ciò creava una distorsione e un evidente incentivo all'arbitraggio.

Se la banca centrale avesse avuto riserve sufficienti a soddisfare tutta la domanda al tasso di cambio ufficiale, il mercato si sarebbe naturalmente adeguato, ma le riserve si sarebbero esaurite. In quella situazione lo stato argentino aveva solo due opzioni: svalutare il peso aumentando il tasso di cambio ufficiale o razionare i dollari, limitando chi poteva acquistare e quanto, mantenendo così il cepo.

Negli ultimi anni l'Argentina ha fatto entrambe le cose: svalutando la moneta e mantenendo i controlli sui cambi.

La vittoria di Milei ha rappresentato un cambiamento radicale e senza precedenti: da una società fortemente interventista a un approccio liberale classico. Naturalmente Javier Milei ha promesso di eliminare il cepo.

La sua abrogazione, tuttavia, non è stata così immediata come alcuni dei suoi sostenitori avrebbero auspicato. Personaggi come Gabriel Zanotti e Larry White, legati alla Scuola Austriaca, hanno criticato quello che considerano un eccesso di gradualismo.

Milei, tuttavia, aveva motivo di essere cauto. Temeva che le fragili finanze della banca centrale e l'elevata inflazione del peso potessero innescare una corsa agli sportelli. Di conseguenza ha mantenuto la maggior parte dei controlli del cepo, riconoscendo che il passaggio da un modello interventista a uno liberale doveva essere graduale.

Lunedì la lunga corsa di Milei si è conclusa con l'annuncio da parte dell'amministrazione dell'abrogazione del cepo. L'annuncio è arrivato subito dopo gli accordi che hanno visto l'Argentina rafforzare le riserve attraverso accordi con il Fondo monetario internazionale, la Cina (uno swap da $5 miliardi) e altre istituzioni internazionali, per un totale di circa $28 miliardi. Ciò ha permesso l'eliminazione del cepo per i privati ​​e l'attuazione di un sistema di cambio fluttuante, con una fascia di oscillazione tra 1.000 e 1.400 pesos per dollaro.

Con pazienza, Milei è sfuggito alla trappola monetaria dell'Argentina. Non è un'impresa da poco.

Milei ha ereditato una situazione macroeconomica di gran lunga peggiore di quella dei suoi predecessori, una situazione che richiedeva un approccio graduale nonostante la pressione ideologica. Prima di eliminare il cepo, Milei ha dovuto svalutare il peso, fissare il sistema di passività e di emissione monetaria della banca centrale, attuare deregolamentazioni e tagliare la spesa pubblica, altrimenti avrebbe avuto la stessa miserabile sorte dell'ex-presidente Macri. Solo una volta che le riserve fossero state sufficienti a impedire una corsa agli sportelli, i controlli sulla valuta avrebbero potuto essere revocati.

È anche importante tenere presente che Milei governa con una base parlamentare fragile e frammentata. Il Presidente argentino ha dovuto affrontare la sfida di bilanciare la coerenza ideologica con la responsabilità istituzionale e le dure, ma necessarie, realtà del negoziato politico.

Il successo di Milei ci ricorda che il gradualismo non è incompatibile con la responsabilità istituzionale. Da una gestione attenta di queste forze, la via verso la libertà economica emergerà non come un ideale retorico, ma come l'unica via credibile verso una prosperità e una stabilità durature.

La situazione difficile di Milei è necessaria solo dopo che il Paese, un tempo considerato uno dei più ricchi al mondo, è sprofondato in una profonda instabilità economica, povertà e decadenza, un monito per gli americani. La ricchezza si crea, non è garantita e può essere distrutta da cattive politiche economiche.

Una guerra commerciale derivante da protezionismo, spesa eccessiva e cattiva gestione della massa monetaria sono tutte strade che portano allo stesso destino precedente dell'Argentina.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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martedì 10 giugno 2025

Freedonia celebra 15 anni di buone letture

 

 

di Francesco Simoncelli

(Versione audio dell'articolo disponibile qui: https://open.substack.com/pub/fsimoncelli/p/freedonia-celebra-15-anni-di-buone)

Come ogni 10 giugno questo spazio divulgativo si ferma un attimo e parla di sé stesso. In particolar modo oggi, che sono passati esattamente 15 anni dalla sua nascita. Era il 10 giugno 2010 e Francesco Simoncelli's Freedonia ha una storia che per i tempi del web possiamo definire molto lunga, o perlomeno non so quante attività come la mia sono nate nel 2010 e sono sopravvissute fino a oggi... temo molto poche, pochissime. Il mio blog è uno di questi e oltre a essere sopravvissuto alla prova del tempo ha goduto anche di un relativo successo. Inutile dire che ha dovuto anche evolversi: nato come esercizio didattico e di semplificazione delle dinamiche economiche, ha integrato nella sua esposizione sempre più temi per offrire una panoramica più ampia degli accadimenti del mondo. L'esordio su carta stampata ha segnato questo passaggio, quando nel 2015 ho pubblicato il mio primo manoscritto: L'economia è un gioco da ragazzi. Ci sarebbero voluti altri 5 anni prima che pubblicassi il seguito di questo percorso incentrato sulla condensazione della teoria alla base delle pubblicazioni giornaliere del blog, ma infine avrebbe visto la luce con La fine delle fallacie economiche. Infine, quella che potremmo definire maturazione del progetto, è arrivata l'anno scorso quando ho pubblicato l'ultimo tassello di quella che è diventata a tutti gli effetti una trilogia: Il Grande Default. Nel mezzo, però, ci sono stati altri testi che hanno rispecchiato la caratteristica fondante della mia opera divulgativa: tradurre quegli articoli che tra di loro intessono un fil rouge e guidano il lettore lungo la via migliore per comprendere i fenomeni del mondo economico/geopolitico, eliminando quanto più possibile il rumore di fondo. Ed è così che hanno preso vita traduzioni di libri come L'economia cristiana in una lezione, Avanzamento e declino della società e La radice di tutti i mali economici.

Ma non mi sono fermato solo alla teoria, perché sapevo che con la crescita della mia esperienza “sul campo” e della consapevolezza acquisita potevo allargare la mia proposta di valore anche dal lato pratico. Ed è così che è nato il servizio di consulenza del blog, grazie al quale coloro che ne hanno usufruito hanno potuto accedere a una serie di consigli strategici in materia di asset allocation e diversificazione di portafoglio. Analizzando i mercati o i singoli asset, chi prenota una consulenza può accedere a informazioni aggiuntive con le quali migliorare il proprio processo decisionale nella navigazione di mercati volatili e, nel futuro prossimo, alquanto turbolenti. In fin dei conti è quanto ci suggeriva Hayek quando scrisse il suo meraviglioso saggio The Use of Knowledge in Society: il processo imprenditoriale aumenta la sua capacità di successo grazie a un maggiore accesso a input d'informazione di qualità, sta poi all'imprenditore (essere umano agente) ricostruire un mosaico coerente e chiaro in base al proprio set di valori ed esigenze. Infatti il vantaggio competitivo che una persona può avere su un'altra è esattamente questo: l'accesso a un bacino di informazioni di qualità superiore con cui migliorare il proprio benessere in anticipo sugli altri.

Infine, la novità più fresca che ha caratterizzato l'offerta di servizi del blog è rappresentata dai cosiddetti “Audioarticoli”. Dall'anno scorso, infatti, è possibile ascoltare le varie pubblicazioni giornaliere sottoscrivendo un abbonamento alla mia pagina su Substack e, di conseguenza, efficientare il proprio tempo. Oltre a una serie di privilegi per i 3 livelli di abbonamento proposti, il principio grazie al quale ho deciso di avviare questa attività collaterale è esattamente quello di far risparmiare tempo ai lettori. L'efficienza di quest'ultimo è uno dei cardini degli insegnamenti della Scuola Austriaca e comprenderne l'importanza come stock di capitale è un esercizio tanto facile (all'apparenza) quanto difficile (nella pratica). E non è un caso che la scuola non insegni niente del genere in merito al tempo. I benefici del risparmio sono imprescindibili nella costruzione di una società prospera e solida, al contempo il beneficio del risparmio del tempo è imprescindibile nella costruzione di un benessere individuale duraturo e proficuo. Ascoltando i suggerimenti che nel corso degli anni sono arrivati dai lettori, lo sviluppo della tecnologia ha permesso l'accesso a questo tipo di soluzione per tutti coloro che non hanno spazio nella loro vita per la lettura e vogliono ricorrere all'economia di scala se possono: ovvero, viaggiare e al contempo ascoltare un podcast ad esempio.

Una cosa ha sempre accompagnato Freedonia, che è rimasto un luogo, per quanto sia cambiato nel tempo, sempre e comunque fedele a sé stesso: esso è e sarà sempre il mio punto di vista sul mondo, con quello che io vedo nel mondo e come io lo vedo rispetto alla realtà circostante. Ed è stato questo, sostanzialmente, il motore che ha fatto e fa ancora girare la macchina Freedonia: finché quello che mi piace fare mi permette di avere un sufficiente numero di sostenitori, abbonati e filantropi da mandarlo avanti, io resterò ancora qui.

Se poi volete usare altri metodi per contribuire attivamente al sostegno di Freedonia, ecco altre soluzioni:

Paypal: paypal.me/FrancescoSimoncelli

• BTC:   3MEeiTcYNMxJJVCo1zNu5DCxWeSgDauA1D

• BCH:  3KkfrKTRqVSFUHJbz5MUNaPRsb1geWDAc7

• LTC:   MG4X6Qn3tFvBsrzangaiZBR9Rg7GqoxXqu 


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lunedì 9 giugno 2025

Il problema col globalismo forzato

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di Jeffrey Tucker

(Versione audio della traduzione disponibile qui: https://open.substack.com/pub/fsimoncelli/p/il-problema-col-globalismo-forzato)

Per anni ho continuato a usare il termine globalismo con approvazione, perché la cooperazione internazionale è una cosa positiva. Viaggiare è meraviglioso, così come lo è la libertà di commerciare e migrare. Come ha fatto la pratica della libertà, che si estende oltre i confini giuridici nazionali, a essere così detestata e denigrata?

Dietro c'è una storia complessa che parla di intrecci tra stati, industria, finanza, strutture governative sovranazionali e del controllo di un gruppo di persone sopra i sistemi.

L'esperienza del Covid ha rivelato tutto. La risposta è stata globale: quasi tutte le nazioni hanno adottato misure di lockdown allo stesso modo, più o meno nello stesso periodo, applicando gli stessi protocolli e adottando le stesse misure (più o meno).

L'Organizzazione mondiale della sanità sembrava dettare legge, con le agenzie sanitarie pubbliche nazionali che si sono disinteressate di ogni questione. Il virus stesso sembrava essere emerso dall'interno di una struttura di ricerca multilaterale sui patogeni e sulle possibili contromisure farmaceutiche.

Inoltre le banche centrali di tutto il mondo hanno collaborato per finanziare la risposta politica, stampando moneta come mai prima per fermare il collasso economico dovuto alle chiusure forzate. Nazioni come Svezia e Nicaragua, che hanno seguito la propria strada, sono state demonizzate dai media di tutto il mondo esattamente allo stesso modo.

I legislatori nazionali non hanno avuto alcun ruolo nei lockdown iniziali; sono stati esclusi dal processo decisionale. Ciò significa che anche i cittadini che li avevano eletti sono stati privati ​​del loro diritto di voto. Nessuno ha votato per la distanza di sicurezza, la chiusura delle attività commerciali e gli obblighi di vaccinazione. Sono stati imposti da editti amministrativi e i sistemi giudiziari non li hanno fermati.

La democrazia come idea, così come lo stato di diritto, sono morti in quei mesi e anni, rimettendosi sempre alle istituzioni globali e ai sistemi finanziari che hanno assunto di fatto il controllo del pianeta. È stata la più sorprendente dimostrazione di potere universale nella storia.

Visti i risultati, non sorprende affatto vedere la reazione negativa, che si è concentrata sulla riaffermazione dei diritti delle nazioni e dei loro cittadini.

Molti difensori della libertà (di destra e di sinistra) sono spesso a disagio con l'ethos di questa reazione e si chiedono se e in quale misura esista un valido precedente storico per rivendicare la sovranità in nome della libertà.

Sono qui per affermare che un tale precedente esiste, un episodio storico quasi completamente dimenticato.

È noto che l'accordo di Bretton Woods del 1944 includeva parti che riguardavano il saldo monetario internazionale (il gold exchange standard) e il sistema bancario (Fondo monetario internazionale e Banca mondiale). Molti conoscono anche l'Accordo generale sulle tariffe doganali e il commercio (1948).

Quello che non è noto è che il GATT era una posizione di ripiego. La bozza originale di Bretton Woods includeva un'Organizzazione internazionale per il commercio (OIC) che avrebbe dovuto essere autorizzata a gestire tutti i flussi commerciali globali. Fu redatto nel 1944 e codificato nella Carta dell'Avana del 1948. All'epoca i principali governi e le grandi aziende si impegnarono a ratificare questo accordo come trattato.

L'Organizzazione internazionale per il commercio avrebbe dovuto governare il mondo, con gli oligarchi che ne avrebbero preso il controllo in nome della globalizzazione.

Fu messo da parte... perché? Non a causa dell'opposizione di protezionisti e mercantilisti. I principali oppositori dell'Organizzazione internazionale per il commercio erano infatti liberisti e libertari. La campagna per smantellare il trattato fu guidata dall'economista franco-americano Philip Cortney e dal suo libro di grande successo intitolato The Economic Munich (1949).

“La Carta dell'Organizzazione internazionale per il commercio è un monumento alle illusioni”, scrisse, “un sogno burocratico che ignora la dura realtà delle economie nazionali. Promette il libero scambio ma impone vincoli, costringendo le nazioni a regole che non possono piegarsi alle tempeste dell'inflazione o della scarsità”.

Lui e altri nella sua orbita potevano individuare in quella Carta non la mano della libertà, bensì la pianificazione centralizzata, il corporativismo, l'inflazionismo, la pianificazione fiscale, la politica industriale e il commercio controllato – in breve, quello che oggi viene chiamato globalismo. Era fermamente contrario, proprio perché credeva che avrebbe fatto arretrare la legittima causa del libero scambio e avrebbe sommerso la sovranità nazionale sotto una palude burocratica.

Le obiezioni che aveva erano molte, ma tra queste c'erano quelle incentrate su questioni di saldo monetario. Le nazioni sarebbero state vincolate a un sistema tariffario senza alcuna flessibilità per adeguare i valori delle valute in base ai flussi commerciali. Credeva che l'Organizzazione internazionale per il commercio comportasse un rischio reale, che le nazioni non avessero la capacità di adattarsi alle variazioni dei tassi di cambio o ad altre specificità di tempo e luogo. Sebbene la Carta sembrasse promuovere il libero scambio, Cortney credeva che alla fine lo avrebbe indebolito.

Riteneva inoltre che se le nazioni avessero aperto le loro economie alla concorrenza internazionale da ogni angolo del mondo, ciò avrebbe dovuto essere fatto in modo coerente con la governance democratica e i plebisciti nazionali. Un governo globale dal pugno di ferro che imponesse un tale regime avrebbe contraddetto l'intera storia delle posizioni contrarie al mercantilismo e probabilmente sarebbe stato sfruttato dalle grandi aziende e dalla finanza per manipolare il sistema a proprio vantaggio.

Ciò che colpisce di questa argomentazione è che proveniva da un punto di vista liberale/libertario che favoriva i metodi tradizionali per ottenere il libero scambio, opponendosi a quelli che oggi verrebbero definiti mezzi globalisti per ottenerlo.

Infatti Ludwig von Mises disse di quel libro: “La sua brillante critica espone spietatamente le fallacie delle dottrine e delle politiche economiche ufficiali contemporanee. Le tesi principali nel suo saggio sono inconfutabili. Sopravviverà a quest'epoca di futilità politica e sarà letto e riletto come un classico della libertà economica, al pari delle opere di Cobden e Bastiat”.

Fu Cortney, insieme ai suoi compatrioti ideologici nel mondo degli affari e della scrittura editoriale, a silurare la Carta dell'Avana e a gettare l'Organizzazione internazionale per il commercio nel dimenticatoio della storia.

Per essere chiari, il rifiuto nei confronti di tale organizzazione non fu il risultato dell'attivismo di reazionari, socialisti, protezionisti o persino nazionalisti economici. Fu respinta da convinti sostenitori del liberalismo economico, del libero scambio e degli interessi commerciali dominati dalle piccole e medie imprese che temevano di essere inghiottite dal pantano globalista.

Queste persone diffidavano della burocrazia in generale e della burocrazia globale in particolare. Quella era una generazione di principi, e all'epoca erano ben consapevoli di come qualcosa potesse sembrare fantastico a parole ma essere orribile nella realtà. Non si fidavano della banda al potere in quei giorni affinché elaborasse un accordo commerciale sostenibile per il mondo.

Il rifiuto dell'Organizzazione internazionale per il commercio è il motivo per cui siamo arrivati ​​all'Accordo Generale sulle Tariffe e il Commercio. Era generale, nel senso che non era una legge consolidata; era un accordo, il che significava che nessuna nazione sarebbe stata costretta a violare i propri interessi; riguardava i dazi, ma non tentava una grande strategia per livellare tutte le valutazioni monetarie; era informale e non formale, decentralizzato e non centralizzato.

Il GATT prevalse fino al 1995, quando l'Organizzazione mondiale del commercio fu imposta sotto un'enorme pressione da parte dei media e delle grandi aziende. Fu una rinascita della vecchia Organizzazione internazionale per il commercio. A quel punto i sostenitori del libero mercato avevano perso la loro sofisticatezza e si erano schierati a favore della nuova agenzia globale. Quasi a confermare la previsione di Cortney, l'Organizzazione mondiale del commercio è ormai diventata obsoleta, capro espiatorio per la stagnazione economica, la deindustrializzazione, gli squilibri monetari e i conti esteri instabili, coperti da riserve estere di asset denominati in dollari.

Ora ci troviamo di fronte a una reazione violenta, sotto forma di politiche mercantiliste grossolane che si stanno abbattendo con furia. L'America è stata la destinazione di enormi quantità di prodotti provenienti dalla Cina, ora bloccate da dazi elevati. Con straordinaria ironia, il New York Times avverte che un dirottamento delle merci dagli Stati Uniti all'Europa potrebbe “portare a uno scenario rischioso per i Paesi europei: il dumping di prodotti artificialmente a basso costo che potrebbe minare le industrie locali”.

Immaginate un po'!

L'equilibrio tra sovranità nazionale e libertà stessa è delicato. Generazioni di intellettuali lo sapevano e si sono guardati bene dal rovesciare l'una per sostenere l'altra. Separare definitivamente le strutture di governo dal controllo dei cittadini, anche solo attraverso un plebiscito periodico, rischia il disastro persino su temi come il commercio, per non parlare della ricerca sulle malattie infettive e sui virus.

Così è arrivata la rivolta, esattamente come aveva previsto Philip Cortney.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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