Il manoscritto fornisce un grimaldello al lettore, una chiave di lettura semplificata, del mondo finanziario e non che sembra essere andato "fuori controllo" negli ultimi quattro anni in particolare. Questa è una storia di cartelli, a livello sovrastatale e sovranazionale, la cui pianificazione centrale ha raggiunto un punto in cui deve essere riformata radicalmente e questa riforma radicale non può avvenire senza una dose di dolore economico che potrebbe mettere a repentaglio la loro autorità. Da qui la risposta al Grande Default attraverso il Grande Reset. Questa è la storia di un coyote, che quando non riesce a sfamarsi all'esterno ricorre all'autofagocitazione. Lo stesso è accaduto ai membri del G7, dove i sei membri restanti hanno iniziato a fagocitare il settimo: gli Stati Uniti.
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(Versione audio della traduzione disponibile qui: https://open.substack.com/pub/fsimoncelli/p/la-battaglia-di-milei-contro-la-trappola)
Immaginate uno scenario in cui il governo federale decretasse quanti dollari possono essere acquisiti. Le aziende straniere non saprebbero con certezza quando, o addirittura se, i loro profitti verrebbero rimpatriati. Le persone avrebbero bisogno di un'autorizzazione governativa speciale per investire all'estero o acquisire dollari. Gli investimenti esteri ristagnerebbero e i dollari verrebbero commerciati sul mercato nero a prezzi gonfiati.
Questo scenario orwelliano e distopico per qualsiasi cittadino americano è stata la realtà per gli argentini dal 2011, quando la presidente Cristina Fernández de Kirchner introdusse il controllo monetario noto come cepo cambiario. La misura fu una risposta alla crescente fuga di capitali, al forte calo delle riserve internazionali e alla pressione sul peso argentino. In pratica, si trattò di una restrizione all'accesso al dollaro e di una delle maggiori distorsioni del tasso di cambio nel mondo moderno.
In quel periodo il governo argentino fece ciò che è altamente probabile che facciano gli stati: creò un problema e poi ne creò uno ancora più grande per cercare di risolverlo. L'amministrazione Kirchner, profondamente interventista, avviò un ciclo di nazionalizzazioni, controlli sui prezzi e politiche che logicamente indebolirono qualsiasi potenziale di crescita. L'Argentina non offriva più un ambiente attraente per gli investimenti.
Anche la fiducia dei cittadini venne naturalmente meno; perfino istituzioni come l'Istituto nazionale di statistica e censimento (INDEC) sono state accusate di aver manipolato la verità sui dati sull'inflazione, in un tentativo di preservare la narrazione ufficiale del governo argentino.
Com'è naturale, gli argentini iniziarono a scambiare i loro pesos con dollari come forma di protezione, portando al crollo delle riserve in dollari della banca centrale. Questo fenomeno spinse il governo argentino a decidere di fissare il tasso di cambio, anziché lasciare che il peso fluttuasse rispetto al dollaro, una linea di politica che generò una pressione significativa sulle riserve. Disperato, il governo argentino introdusse il cepo, il quale prevedeva controlli burocratici sulle importazioni, sugli acquisti di valuta estera e sulla possibilità di rimpatriare i profitti.
Il cepo divenne una presenza fissa in Argentina, presente attraverso una presidenza dopo l'altra. Anche quando il presidente di centro-destra, Macri, lo abrogò temporaneamente, lo reintrodusse dopo tre anni, a causa del deterioramento delle riserve internazionali, dei deficit di bilancio, dell'aumento dell'inflazione e della perdita di fiducia da parte dei mercati, i quali esercitavano pressioni sul tasso di cambio e sul sistema bancario. Il suo successore, Alberto Fernández, rafforzò i controlli monetari, trasformando l'accesso personale al dollaro in un assurdo processo burocratico, ma soprattutto in un intollerabile attacco alla libertà economica, che in ultima analisi è inscindibile dalla libertà individuale.
In pratica, il cepo significava che la banca centrale vendeva dollari a un tasso ufficiale ben al di sotto del tasso di libero mercato. Fino a poco tempo fa vendeva dollari a 400 pesos, mentre il mercato parallelo, il “dollaro blu”, li vendeva a circa 1.000 pesos. Ciò creava una distorsione e un evidente incentivo all'arbitraggio.
Se la banca centrale avesse avuto riserve sufficienti a soddisfare tutta la domanda al tasso di cambio ufficiale, il mercato si sarebbe naturalmente adeguato, ma le riserve si sarebbero esaurite. In quella situazione lo stato argentino aveva solo due opzioni: svalutare il peso aumentando il tasso di cambio ufficiale o razionare i dollari, limitando chi poteva acquistare e quanto, mantenendo così il cepo.
Negli ultimi anni l'Argentina ha fatto entrambe le cose: svalutando la moneta e mantenendo i controlli sui cambi.
La vittoria di Milei ha rappresentato un cambiamento radicale e senza precedenti: da una società fortemente interventista a un approccio liberale classico. Naturalmente Javier Milei ha promesso di eliminare il cepo.
La sua abrogazione, tuttavia, non è stata così immediata come alcuni dei suoi sostenitori avrebbero auspicato. Personaggi come Gabriel Zanotti e Larry White, legati alla Scuola Austriaca, hanno criticato quello che considerano un eccesso di gradualismo.
Milei, tuttavia, aveva motivo di essere cauto. Temeva che le fragili finanze della banca centrale e l'elevata inflazione del peso potessero innescare una corsa agli sportelli. Di conseguenza ha mantenuto la maggior parte dei controlli del cepo, riconoscendo che il passaggio da un modello interventista a uno liberale doveva essere graduale.
Lunedì la lunga corsa di Milei si è conclusa con l'annuncio da parte dell'amministrazione dell'abrogazione del cepo. L'annuncio è arrivato subito dopo gli accordi che hanno visto l'Argentina rafforzare le riserve attraverso accordi con il Fondo monetario internazionale, la Cina (uno swap da $5 miliardi) e altre istituzioni internazionali, per un totale di circa $28 miliardi. Ciò ha permesso l'eliminazione del cepo per i privati e l'attuazione di un sistema di cambio fluttuante, con una fascia di oscillazione tra 1.000 e 1.400 pesos per dollaro.
Con pazienza, Milei è sfuggito alla trappola monetaria dell'Argentina. Non è un'impresa da poco.
Milei ha ereditato una situazione macroeconomica di gran lunga peggiore di quella dei suoi predecessori, una situazione che richiedeva un approccio graduale nonostante la pressione ideologica. Prima di eliminare il cepo, Milei ha dovuto svalutare il peso, fissare il sistema di passività e di emissione monetaria della banca centrale, attuare deregolamentazioni e tagliare la spesa pubblica, altrimenti avrebbe avuto la stessa miserabile sorte dell'ex-presidente Macri. Solo una volta che le riserve fossero state sufficienti a impedire una corsa agli sportelli, i controlli sulla valuta avrebbero potuto essere revocati.
È anche importante tenere presente che Milei governa con una base parlamentare fragile e frammentata. Il Presidente argentino ha dovuto affrontare la sfida di bilanciare la coerenza ideologica con la responsabilità istituzionale e le dure, ma necessarie, realtà del negoziato politico.
Il successo di Milei ci ricorda che il gradualismo non è incompatibile con la responsabilità istituzionale. Da una gestione attenta di queste forze, la via verso la libertà economica emergerà non come un ideale retorico, ma come l'unica via credibile verso una prosperità e una stabilità durature.
La situazione difficile di Milei è necessaria solo dopo che il Paese, un tempo considerato uno dei più ricchi al mondo, è sprofondato in una profonda instabilità economica, povertà e decadenza, un monito per gli americani. La ricchezza si crea, non è garantita e può essere distrutta da cattive politiche economiche.
Una guerra commerciale derivante da protezionismo, spesa eccessiva e cattiva gestione della massa monetaria sono tutte strade che portano allo stesso destino precedente dell'Argentina.
[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/
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