venerdì 8 maggio 2015

Ora più che mai non c'è bisogno di ripetere gli errori di Keynes, parte #1





di Francesco Simoncelli


La pubblicazione di questo saggio sul keynesismo è stata stimolata dalla mole di sciocchezze che sovente mi tocca leggere in giro per il web. Là fuori ci sono ancora ferventi sostenitori di una teoria accademicamente accettata, ma scarsamente compresa. Forse perché mai letta. Forse perché l'autore è stato coscenziosamente opaco nell'esposizione delle sue idee ponendole ad un rischio prevedibile di distorsione. L'unico indizio a supporto di questa tesi sarebbe la sua volontà di "fare ammenda" nell'ultima parte della sua vita, come ci ricorda Hayek, ma l'eredità che ci ha lasciato è identificabile la sua opera del 1936, The General Theory.

Non lasciatevi ingannare, a causa della sua opacità e delle sue contraddizioni, negli anni in cui divenne presumibilmente famoso la sua era una semplice estensione delle strategie messe in campo da vari governi dell'epoca. La crisi degli anni '30 stava lasciando il segno e le politiche messe in campo dai politici dell'epoca erano controproducenti e sequenzialmente fallimentari. Keynes, in realtà, funse da spalla di Roosevelt andando a giustificare dal punto di vista accademico quanto finora messo in campo dalla sua amministrazione. Il keynesismo nasce dalle ceneri dei fallimenti e degli interventi degli stati nell'economia e nella vita dei loro sottoposti, una sorta di bollino di garanzia a tutta una serie di ricette che solo coloro facenti parte della classe dirigente potevano implementare. E' per questo che nel corso del tempo vari intellettuali si sono dovuti prendere la briga di "riproporre" le tesi keynesiane in chiave moderna.

A questo proposito Economics di Paul Samuelson è servito a questo scopo. L'attuale richiesta dei neo-keynesiani per un ritorno al Keynes "originale" è futile, nonché decisamente fuori luogo. Perché? Perché non hanno capito Keynes o non hanno letto la General Theory. Ignorano come quel manoscritto fosse stato ideato per quei tempi. Ignorano di come ci fosse la necessità di distaccare l'establishment accademico da quella che era una teoria economica orientata al liberalismo classico. Keynes e i neo-keynesiani non sono altro che la progenie deforme di uno strappo tra economia di mercato ed economia pianificata avvenuto precisamente nel 1913. In questo modo bisognava addolcire il passaggio tra i due guadi, c'era bisogno di qualcosa che giustificasse una sorta di interventismo soft nell'economia. C'era bisogno delle basi per questo interventismo soft.

Queste basi non esistevano nel 1921, quando la depressione più breve della storia economica statunitense post-1913 relegò ad un ruolo passivo la banca centrale americana. I successori di Keynes, sfruttando la sua opacità d'esposizione, hanno trasformato l'interventismo soft in un intervenstismo hard. Vorrebbero tornare ad un interventismo soft. Non è possibile. Ignorano cosa voglia dire fornire allo stato giustificazioni affinché possa espandere la propria influenza. Ce lo spiega la legge di Parkinson sulla burocrazia: lo stato amplierà il suo raggio d'azione in base al tempo che i burocrati dovranno impiegare per svolgere determinati lavori. Quanto ci vuole, al giorno d'oggi, per aggiustare le crisi economiche? "Tutto il tempo necessario", ci viene ripetuto. Questo significa che, al giorno d'oggi, la sfera d'azione dello stato è praticamente infinita. Non c'è modo di invertire questa situazione a meno di andare in bancarotta.

Ciò, alla fine, sarà inevitabile.

Sebbene sia ormai alquanto futile continuare ad attaccare Keynes, è giusto fornire al lettore il motivo per cui fu sbagliato in primo luogo dar retta alle sue tesi. Al giorno d'oggi i suoi dettami sono stati sottoposti a forti dosi di steroidi, ma non mancano ingenui dell'ultim'ora che decantano le lodi di questa figura accademica sbandierando la necessità di applicare le cosiddette "tesi originali". La maggior parte delle volte sono neo-laureati in economia, il cui compito è quello di difendere la gilda che li ha accreditati. E' comprensibile. Invece è fuorviante per quel lettore che si lascia raggirare dalle parole infuse di supponenza per via dell'accreditamento statale. Le loro, in realtà, sono solo chiacchiere e distintivo. Potete ignorarle.

Il keynesismo e le sue evoluzioni hanno gettato le basi affinché la classe dirigente potesse promettere la luna agli elettori. Ora quest'ultimi imporranno alla prima di mantenere le promesse. Il ritorno ad un interventismo soft non farà calmare le acque. Le promesse sono troppo onerose. La classe dirigente lo sa, quindi deve continuare a fingere. Gli elettori lo sanno, quindi ne chiedono di più visto che è l'unico modo affinché gli assegni mensili dello stato arrivino nella cassetta delle lettere. Gli unici ad ignorarlo sono coloro nel mondo accademico. Vivono in un mondo a parte. Credono che esista un freno da qualche parte che possa impedire alla legge di Parkinson di fare il suo corso. Si sbagliano. Sono ingenui. Il primo di questi ingenui è stato proprio Keynes.



IL BACKGROUND FILOSOFICO

Prima di analizzare criticamente le idee di Keynes, capiamo chi fosse realmente e come sviluppò le sue idee. In primo luogo, egli era un grande estimatore di Edmund Burke. Fu da quest'ultimo che pose le basi per generare i concetti politici che sarebbero stati inclusi nella General Theory. Da Burke ereditò il suo disprezzo per i principi astratti, in particolar modo i diritti individuali. Il filosofo irlandese credeva che i diritti individuali avessero un "difetto pratico", ovvero, quello di essere astratti e che in tal modo dovessero essere concessi da un ente più saggio.

[...] Lo stato non è creato in virtù dei diritti naturali, i quali possono esistere in totale indipendenza da esso e la loro esistenza è decisamente ricondubile ad una chiara e perfetta astrazione; ma tale astrazione perfetta è il loro difetto pratico. Avendo diritto su ogni cosa, vogliono ogni cosa. Lo stato è un artificio della saggezza umana affinché fornisca agli uomini ciò che vogliono. Gli uomini hanno il diritto che i loro desideri vengano soddisfatti attraverso suddetta saggezza.[1]

Burke, infatti, non credeva nell'azione dei singoli individui, poiché decisamente imprevedibile ai suoi occhi. La necessità di stabilità ed equilibrio erano costanti raggiungibili solamente tramite un dominio saggio e profondamente consapevole della natura umana, e tale dominio era esclusivamente appartenente allo stato. Affinché quest'ultimo potesse offrire i consigli più saggi, doveva fare affidamento su una schiera di esperti di vari settori. In questo scenario i diritti individuali erano una sorta di intralcio per lo stato, il quale attraverso la sua saggezza doveva dosarne la disponibilità affinché si potesse vivere nel migliore dei mondi possibile. Tale approccio favoriva l'aggregato piuttosto che la singola unità. Keynes, infatti, riprese da Burke anche questo feticismo per la classe dirigente. Per l'economista inglese, infatti, l'integrità della classe dirigente era il pre-requisito fondamentale affinché la saggezza burkiana potesse diffondersi al resto della società.

Infine, la denigrazione delle singole unità da parte di Burke, fondava le sue basi sulla presunta imprevedibilità delle azioni dei singoli. I diritti individuali erano una responsabilità troppo grande da poter essere lasciata nelle mani dei singoli individui, poiché in futuro non si poteva sapere a che rischi si sarebbe andati incontro. Di conseguenza la saggezza dello stato doveva ovviare a questa inconvenienza. E qui potete ben capire come Keynes sviluppò la sua predilezione per il breve termine rispetto al lungo termine, in cui lo stato avrebbe dovuto assicurare una certa stabilità della società nel breve termine senza dedicare un minimo pensiero ai rischi futuri.

Non solo Burke, in questa lista possiamo aggiungerci anche Thomas Malthus dal quale ereditò il suo disprezzo nei confronti della "classe borghese". Keynes ce l'aveva a morte con questa classe, soprattutto con la sua moralità. In questo caso particolare, Malthus sosteneva che la società necessitava di una ridistribuzione più equa della ricchezza affinché si potessero scongiurare stagnazioni e recessioni. E indovinate un po'? Egli predicava la necessità di lavori pubblici per la classe operaia in modo da alleviarne le sofferenze.

[...] Per assistere le classi operaie del nostro periodo, è desiderabile impiegarle in lavori improduttivi, o metterle comunque a lavoro, i cui risoltati non sono prodotti che si possono vendere, come strade o altri lavori pubblici.[2]

Queste sono le figure che influenzarono più di tutte il pensiero e la filosofia alla base del keynesismo. Noterete quindi il forte spicco verso una tendenza all'intervento attivo nel mercato da parte di persone presumibilmente "superiori" in integrità morale e mentale; e Keynes si considerava tra di esse, per di più la plausibilità di questa tesi lo portò ad affermare la famosa frase "il gold standard è una reliquia barbarica". Perché avere questo artefatto del passato quando ci si poteva affidare a persone in carne ed ossa capaci di traghettare la società verso gli stessi lidi, se non superiori, che fino a quel momento erano stati raggiunti grazie ad una prosperità senza precedenti nella storia umana? Tutto ciò di cui c'era bisogno era un gruppo di persone degne di fiducia. Affidabili. In realtà Keynes era solamente un arrogante e un bugiardo. Pensate che una volta disse ad Hayek che se il ciclo economico fosse andato troppo oltre tra inflazione e debito pubblico, gli sarebbe bastato schioccare le dita per far cambiare le cose.

Purtroppo Keynes è morto, o forse non è riuscito a schioccare le dita in tempo, lasciandoci in eredità il suo lungo termine. Tra l'altro, recensì il libro di Mises, The Theory of Money and Credit, dicendo che sebbene il libro fosse interessante conteneva solamente idee datate. Poi, in Treatise on Money, ammise con leggerezza di non saper leggere il tedesco e quindi non comprendere se fosse stata pubblicata qualche nuova idea in campo economico. Ma l'apice della sua presuntuosità la raggiunse nella General Theory, in cui ammise candidamente che nessun economista prima di lui si adoperò per analizzare il problema della disoccupazione e quindi trovarne cause, rimedi e soluzioni.



UNA BREVE PANORAMICA SULLA GENERAL THEORY: LA DISOCCUPAZIONE

[...] È ovvio tuttavia che se la teoria classica è applicabile soltanto al caso di occupazione piena, è errato applicarla ai problemi della disoccupazione involontaria – ammesso che questa esista, cosa che nessuno vorrà negare. I teorici classici assomigliano a geometri euclidei in un mondo non-euclideo, i quali, scoprendo che nell’esperienza due rette apparentemente parallele spesso si incontrano, rimproverassero alle linee di non mantenersi diritte, come unico rimedio alle disgraziate collisioni che si verificano; mentre in realtà non vi è altro rimedio che respingere l’assioma delle parallele e costruire una geometria non-euclidea. In economia occorre oggi qualcosa di simile: dobbiamo respingere il secondo postulato della dottrina classica ed elaborare il comportamento di un sistema in cui è possibile la disoccupazione involontaria in senso stretto.[3]

Iniziamo, quindi, con il punto più importante riportato nella Teoria Generale di Keynes: la disoccupazione. Il problema principale quando uscì il suo manoscritto era proprio la disoccupazione, soprattutto negli Stati Uniti. Nella sua ricostruzione, Keynes vuole trovare possibili falle nella teoria della disoccupazione classica in modo da proporne una nuova con la quale curare i malanni in cui erano finite le economie mondiali. Ma non ci riesce. Anzi, ci riesce travisando la realtà. Infatti egli afferma che la teoria classica fallisce nel comprendere come una disoccupazione involontaria sia in realtà possibile in un ambiente di libero mercato. E' da questo errore di fondo che egli elabora tutta la sua teoria dell'occupazione, presupponendo che un mercato non ostacolato possa contenere al suo interno sacche di disoccupazione involontarie e ciononostante raggiungere "un equilibrio".

In realtà, quello di Keynes è un controsenso. E' un escamotage. E' un presupposto affinché si possa dare licenza ad uno stato "illuminato" di riempire quelle aree del mercato afflitte dalla "piaga" della disoccupazione. Inoltre, avendo una repulsione per i diritti individuali, Keynes non si preoccupa dei desideri insiti nei vari attori di mercato. E' come se le persone fossero solamente dei robot che agiscono mosse dai sapienti fili di persone presumibilmente superiori dal punto di vista intellettuale. Cerchiamo quindi di capire cosa voglia dire disoccupazione volontaria e involontaria.

In un mercato non ostacolato, gli attori di mercato entrano in contatto con altri attori di mercato e in modo volontario concludono degli accordi. Che si tratti di beni scambiati o prestazioni lavorative, esiste ogni giorno una grande asta nella quale siamo immersi e nella quale operiamo degli scambi. Per quanto riguarda le prestazioni lavorative, abbiamo a che fare con domanda e offerta. Inoltre bisogna anche tenere conto delle preferenze individuali di ogni singolo attore di mercato, il quale pondera la situazione che gli si presenta davanti e decide come comportarsi di conseguenza. Nel caso di un lavoro deve scegliere, principalmente, tra essere occupato ad un determinato salario oppure continuare a consumare la disutilità del lavoro. Anche quest'ultimo è un bene di consumo e possiamo dire che diventa preferibile all'aumentare del benessere all'interno della società. Gli imprenditori, dal loro canto, offriranno salari in base al valore marginale dei prodotti sfornati dai lavoratori. Maggiore sarà il valore, maggiore saranno i salari.

Oltre al consumo della disutilità del lavoro, o per meglio dire, la rinuncia volontaria a svolgere un particolare lavoro, esiste anche la possibilità che l'attore di mercato diventi "impiegato di sé stesso". Ovvero, scelga di intraprendere un'attività munito solamente delle sue capacità senza l'utilizzo di ulteriore aiuto umano. In entrambi i casi, quindi, stiamo parlando di disoccupazione volontaria. E questa è l'unica disoccupazione che può esistere in un mercato non ostacolato, dal momento che le scelte individuali contano enormemente nella decisione ultima di essere impiegati alle dipendenze di qualcuno oppure avviare un'attività in proprio oppure rimanere inattivi per scelta. Ovviamente potremmo parlare di disoccupazione "involontaria" se dall'oggi al domani mi mettessi in testa di voler fare a tutti i costi l'astronauta senza aver mai aperto un libro di fisica. Mi rendo conto che è un esempio al limite, ma è necessario per far notare come non stiamo parlando di forze avulse dalla realtà, bensì di scelte ponderate e ragionate in base alle quali si concludono determinati scambi.

La disoccupazione che aveva in mente Keynes, invece, e per la quale vuole trovare una soluzione attraverso l'enunciazione di una teoria che si distacchi da quella classica, riguarda un perturbamento del mercato: non più un mercato NON ostacolato, bensì un mercato ostacolato. Un esempio in tal senso lo ritroviamo nei controlli dei prezzi emanati dagli stati, più in particolare i cosiddetti salari minimi. In questo modo si impedisce agli attori di mercato di concludere le proprie transazioni in base ad accordi volontari, impedendo ai lavoratori meno capaci di poter accedere al mondo del lavoro. Quale fu quel corpus di leggi che negli anni '30 rappresentò un'enorme intrusione dello stato nella vita degli attori di mercato? Il New Deal.

[...] Non c'è alcun dubbio che Roosevelt cambiò in peggio il carattere del governo americano. Molte delle riforme degli anni '30 sono in vigore ancora oggi: ripartizione degli acri di terreno, supporto dei prezzi e controllo del marketing nell'agricoltura, ampia regolamentazione dei titoli di proprietà privata, intrusione federale nelle relazioni sindacali, prestiti e assicurazioni statali, salario minimo, indennità di disoccupazione nazionale, Previdenza Sociale, assegni provenienti dai programmi di welfare, produzione e vendita di energia elettrica da parte del governo federale, denaro fiat -- l'elenco va avanti.[4]

Qui non stiamo più parlando di un pinco pallino qualunque che vorrebbe fare l'astronauta senza aver aperto un libro di fisica, ma, ad esempio, delle nuove leve nel mercato del lavoro che richiederebbero un salario inferiore rispetto a quello imposto sul mercato per contribuire con la loro utilità marginale alla produzione. Durante un ciclo economico, infatti, viene liquidata quella domanda di lavoro basata su investimenti improduttivi, di conseguenza la struttura economica ha bisogno di tempo per riallocare secondo i desideri più urgenti degli individui tutte le risorse inattive che vengono a generarsi nel processo. Il New Deal aveva lo scopo di impedire questa liquidazione della domanda, creando un mercato artificiale per lavoratori la cui utilità marginale sarebbe stata meglio utilizzata in altri campi.

E' questa intromissione che crea disoccupazione involontaria, non un presunto fallimento del mercato di re-indirizzare la forza lavoro altrove. Infatti Keynes lo sapeva bene. Sapeva che quella che lui chiamava disoccupazione "involontaria" altro non era che un effetto del ciclo economico ripulente degli errori economici del passato. Ma nel suo delirio di onniscienza era convinto di poter ideare un modello economico "nuovo" col quale rendere sostenibile un'intromissione dello politiche pianificatrici nelle transazioni volontarie degli attori di mercato. In poche parole voleva ribaltare la realtà e modellarla a suo piacimento. Il tentativo di Keynes mirava a produrre un ambiente economico in linea con quello ideato dalla classe dirigente la quale, si presumeva, avesse a cure il bene della società.

Sono disposto a concedere la possibilità della benevolenza, ma ciò non toglie che la disoccupazione involontaria come proposta da Keynes era un ribaltamento della realtà. A meno di non voler concepire campi di lavoro forzati, la piena occupazione è un'utopia. Perché? Perché in un mercato non ostacolato qualsiasi sia il livello di occupazione è sempre quello ottimale. Keynes parlava di equilibri nella disoccupazione, ma continuava ad insistere nel voler travisare la realtà e modellarla a suo piacimento. In un mercato non ostacolato non esistono equilibri, questo è un concetto utilizzato dalla propaganda di coloro che vorrebbero spacciare la favola di un'economia gestibile centralmente; esistono flussi dinamici che informano gli attori di mercato su quali siano i parametri migliori con cui concludere un affare.

Quindi, a differenza dell'esposizione di Keynes, la disoccupazione è un fenomeno sempre volontario... in un mercato non ostacolato. Se invece abbiamo a che fare, ad esempio, con un salario minimo o un'indennità di disoccupazione parliamo di mercato ostacolato, e di conseguenza la disoccupazione risultante non sarà affatto volontaria. Mises la chiamava disoccupazione "istituzionale", poiché gli individui vengono incentivati artificialmente dalle istituzioni a preferire la disutilità del lavoro rispetto al lavoro. L'obiettivo di Keynes, quindi, era quello di fornire una teoria "nuova" in base alle nuove disposizioni intromissive statali, andandole a giustificare.

In conclusione, la cosiddetta disoccupazione involontaria è possibile quando un libero mercato viene distorto da un'istituzione che esercita il controllo su una serie di scambi volontari. Imponendo un salario minimo superiore al valore della produzione marginale, l'istituzione centrale proibisce il buon fine di uno scambio tra un lavoratore e un datore di lavoro. In questo modo il lavoratore diviene disoccupato involontariamente e il datore di lavoro deve disporre i fattori di produzione in usi meno produttivi. Presupporre, inoltre, come fa Keynes, di poter agognare ad una sorta di "equilibrio", significa assenza di ulteriori cambiamenti nell'ambiente di mercato; significa che tutte le azioni degli attori di mercato sono ininfluenti; significa che tutti i fattori di produzione, incluso il lavoro, sono impiegati nell'uso migliore possibile per fare le stesse cose. Credere una cosa del genere vuol dire l'annullamento delle facoltà cognitive e celebrali degli attori di mercato. Una contraddizione in termini.



UNA BREVE PANORAMICA SULLA GENERAL THEORY: IL DENARO

[...] Perciò l’importanza della moneta deriva essenzialmente dal fatto che essa è un anello fra il presente e il futuro. Possiamo considerare quale distribuzione di risorse fra diversi impieghi sarà compatibile con l’equilibrio sotto l’influenza dei moventi economici normali in un mondo nel quale le nostre opinioni riguardo al futuro siano fisse e diano affidamento sotto ogni aspetto; forse con un’ulteriore divisione fra un’economia che non cambia ed un’economia soggetta a variazioni, ma nella quale ogni cosa sia prevista fin dall’inizio. Oppure possiamo passare da questa propedeutica semplificata ai problemi del mondo reale, nel quale le nostre aspettative precedenti sono passibili di andar deluse e le aspettative concernenti il futuro influiscono su quello che facciamo oggi. È quando abbiamo compiuto questa transizione che devono entrare nei nostri calcoli le proprietà peculiari della moneta come anello fra il presente e il futuro. Ma sebbene la teoria dell’equilibrio mobile debba essere necessariamente sviluppata in termini di un’economia monetaria, essa rimane una teoria del valore e della distribuzione e non una «teoria della moneta» separata. La moneta, nei suoi attributi significativi, è soprattutto un sottile espediente per legare il presente al futuro; e non possiamo nemmeno cominciare a discutere l’effetto di aspettative mutevoli sulle attività correnti se non in termini monetari.[5]

Qui Keynes, perseguendo la sua idolatria per Burke, tenta di collegare il denaro ad una prospettiva temporale. Così facendo sta cercando di convincere il lettore che attraverso la moneta si possono in qualche modo controllare le azioni presenti degli individui in modo da permettere al solito bacino di sapienti nel governo di trovare soluzioni ai malanni economici. Ma è inconcepibile l'affermazione proposta da Keynes, perché significherebbe che la moneta sia una sorta di essere vivente. Gli attori di mercato, infatti, quando devono impegnarsi in uno scambio lo fanno attraverso una serie di azioni. Il concetto di azione presuppone, infatti, un suo inizio nel presente e una sua conclusione nel futuro. L'attore di mercato agente, attraverso la propositività delle sue azioni, non fa altro che affermare la propria vita e la continuità della stessa ogni qual volta ricorre all'azione. L'anello, in realtà, che lega l'inizio della sua azione nel presente e ne permette la conclusione nel futuro è la preferenza temporale. Attraverso i suoi bisogni e i suoi desideri egli stila un elenco di priorità a cui deve far fronte per permettere alla propria vita di continuare e di migliorarne le condizioni. Presente e futuro in quest'ottica rappresentano una catena di eventi e azioni che lo porteranno a soddisfare progressivamente le sue necessità secondo le sue priorità. Anche se dovessimo supporre che il fine ultimo di un determinato attore di mercato sia quello di arrivare un giorno ad avere enormi quantitativi di denaro, anche così il denaro non sarebbe affatto classificabile nel modo in cui Keynes lo classificò. Il fine ultimo di questo presunto attore di mercato, infatti, sarebbe il miglioramento finale della sua esistenza, raggiungibile attraverso investimenti oculati e produttivi.

Il denaro, infatti, non è altro che un mezzo di scambio. Serve solamente come merce intermedia per entrare in possesso di quei beni posseduti da altri che ci fanno gola. Non possiamo nemmeno dire che il denaro serve a combattere l'incertezza del futuro, perché, in realtà, essa è possibile scongiurarla solo attraverso una produzione di beni e servizi superiore. E' stata la specializzazione e una divisione del lavoro più ramificata che hanno permesso agli attori di mercato di produrre una quantità sempre crescente di beni e servizi con cui soddisfare i desideri di tutti gli altri attori di mercato. Il denaro è servito solamente come "facilitatore" degli scambi, andando ad eliminare uno dei limiti più fastidiosi dello scambio indiretto.[6] Infatti non è stata la quantità di una particolare merce a farla diventare "denaro", bensì la sua commerciabilità. Il valore d'uso viene acquisito da una particolare merce attraverso lo storico delle sue transazioni. La frequenza con cui viene scambiata all'interno della società segnala al mercato un'utilità nascosta di tale merce che può essere sfruttata per velocizzare gli scambi tra attori che dovrebbero passare per altre merci prima di soddisfare il loro bisogno di entrare in possesso degli oggetti che vogliono a vicenda. All'apparenza sembra che in questo modo la merce più commerciata abbia una sorta di valore intrinseco, ma così non è.

Più velocizza gli scambi, più la produttività aumenta all'interno di un determinato tessuto economico. Fin qui di questioni temporali non ne abbiamo trovate. Abbiamo solo compreso come il denaro non sia altro che un mezzo di scambio capace di permettere agli attori di mercato di velocizzare i propri scambi. In questo modo possono dedicare più risorse temporali e materiali alla produzione di beni e servizi, aumentandone la varietà e la prestigiosità. Infatti sarà la preferenza temporale degli attori di mercato e i loro set di valori che fungeranno da sestanti per investimenti e consumi.

Ciononostante il denaro rimane pur sempre una merce di mercato, e questo significa essere soggetta alle stesse leggi che la influenzavano prima della sua "nomina" a denaro. Ad esempio, domanda e offerta.

[...] I beni sono utili e scarsi, e ogni loro incremento rappresenta un beneficio sociale. Ma il denaro è utile non direttamente, solo negli scambi [...]. Quando c'è poco denaro, sale il valore di scambio dell'unità monetaria; quando c'è troppo denaro, scende il valore di scambio dell'unità monetaria. Possiamo concludere che non esiste qualcosa come "troppo" o "troppo poco" denaro, qualunque sia lo stock di moneta i benefici del denaro sono sempre utilizzati alla loro massima estensione.[7]
Sembrerebbe che le ragioni comunemente avanzate come prova che la quantità del mezzo di scambio in circolazione dovrebbe variare al variare della produzione (se aumenta o diminuisce) siano interamente infondate. Sembrerebbe anche che la caduta dei prezzi proporzionale all'aumento della produttività, che necessariamente accade quando la quantità di denaro rimane la stessa e la produzione aumenta, non sia interamente pericolosa, ma infatti il solo mezzo per evitare maldirezionamenti della produzione.[8]

Queste due citazioni ci informano che una volta che una merce diviene denaro, qualunque sia la sua offerta affronterà sempre al meglio il suo ruolo di mezzo di scambio. Questo, ovviamente, non vuol dire "importunare" artificialmente l'offerta di denaro in qualsiasi momento. Keynes infatti, sebbene sostenitore della teoria quantitativa della moneta enunciata da Irving Fisher,[9] riteneva che il solito gruppo di "sapienti" potesse essere in grado nel breve termine di controllare a piacimento la quantità di moneta in modo da alleviare i malanni legati all'occupazione.

[...] Una prima conclusione molto importante è che «l’inflazione è ingiusta e la deflazione è dannosa. Delle due […] la deflazione è forse la peggiore perché, in un mondo impoverito, è peggio provocare la disoccupazione che disilludere i rentiers». L’inflazione non risana, se non a prezzo di gravi iniquità, le finanze pubbliche; per tale scopo è meglio utilizzare un’imposta sui capitali. Non è opportuno far troppo affidamento su quanto sembra affermare la teoria quantitativa, cioè che per avere prezzi stabili basta tenere ferma la quantità di moneta. Ciò è probabilmente vero per il lungo periodo. Ma, dice Keynes, «nel lungo periodo siamo tutti morti». Piuttosto che limitarsi a tenere ferma la quantità di moneta, è molto più sensato regolarla in funzione degli andamenti di breve periodo del credito e dell’attività produttiva.[10]

Keynes, quindi, confonde la neutralità dell'offerta di moneta quando lasciata alle forze di mercato (es. domanda/offerta) con la presunta neutralità di aggiungere nuove unità di moneta nel breve periodo da parte di un gruppo di sapienti. In realtà, in questo modo avrebbe fornito la giustificazione per le azioni compiute dalla FED allo scoppio della crisi del '29, la quale cercò di sostenere una parte del settore bancario commerciale nello sforzo di renderlo solvibile agli occhi del mercato. Era questo il suo compito: contorcere la realtà per farle assumere l'aspetto desiderato dai pianificatori centrali. Ma non si distacca marcatamente dal pensiero classico, conservandone ancora alcune vestigia. Il suo è un tentativo di giustificare l'operato dello stato nei casi "d'emergenza", affermando di come potesse essere in grado di attuare una strategia d'uscita soddisfacente da situazioni critiche. Problema: se allo stato viene dato un dito, finisce per prendersi tutto il braccio. Voglio pensare che Keynes lo ignorasse. Questo fu un grosso errore da parte sua. Diversamente da lui, però, non possono essere giustificati i suoi successori che non fecero altro che rincarare la dose: giustificarono un'interferenza maggiore dello stato nell'economia. I risultati di queste giustificazioni sequenziali possiamo saggiarle osservando il caos economico odierno.

Se, infatti, l'offerta di moneta viene perturbata artificialmente, ad esempio, viene aumentata artificialmente, avremo un aumento di prezzi e salari. Non subito, ma dopo un certo lasso di tempo e in modo scomposto, non lineare. Pertanto un aumento artificiale dell'offerta di moneta cambia sempre i prezzi relativi e altera la ditribuzione dei redditi e della ricchezza, quindi non c'è nulla di neutrale qui. Inoltre, se tale espansione artificiale avviene attraverso il credito bancario, si innescherà un processo ciclico che prima avvierà un boom artificiale e poi darà vita ad un bust. Quindi neanche in questo caso c'è alcuna neutralità nel processo, perché attraverso un'elargizione di credito a buon mercato si incentiva a percorrere investimenti improduttivi che non sarebbero stati percorribili in un ambiente privo di manipolazioni. La deturpazione del calcolo economico degli attori economici porta, quindi, all'emersione di attività apparentemente proficue, ma in realtà sperperatrici di ricchezza reale. L'inevitabilità di una pulizia di mercato pone fine a questa baldoria. Ciò abbasserà quei prezzi gonfiati dall'euforia del boom e liquiderà quelle imprese quei lavori superfluei per il processo produttivo, creando di conseguenza un bacino di disoccupati che nel tempo verranno riallocati verso percorsi produttivi in linea con segnali genuini di mercato.

Nei momenti di bust cresce anche ala domanda di moneta in riflesso al panorama incerto che devono affrontare gli attori economici. Non si tratta, ovviamente, di risparmio reale ma della semplice volontà da parte degli individui di fare ordine nelle priorità che fino a quel momento si erano rivelate sbagliate poiché influenzate da segnali economici distorti. Pungolarli come suggerisce Keynes attraverso ulteriori misure monetarie e fiscali, rappresenta un ritardo degli aggiustamenti necessari per permettere alla struttura produttivi di recuperare dagli errori passati. "Fintanto che c'è disoccupazione, l'occupazione cambierà nella stessa proporzione della quantità di denaro," con questa affermazione Keynes non fa altro che aizzare lo stato affinché entri in gioco e continui a distorcere il tessuto economico nonostante quest'ultimo stia tentando di lasciarsi alle spalle gli eccessi del passato. Keynes, in conclusione, dimostra di non comprendere l'importanza della struttura temporale nella produzione e nelle scelte degli attori di mercato, condensando entrambi questi aspetti nel denaro e rendendolo la panacea ultima per "curare" le depressioni.

Preoccupandosi del breve termine, Keynes dimostra la sua noncuranza ignobile per ciò che accadrà ai posteri.


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Note

[1] Edmund Burke, Reflections on the Revolution in France, (Indianapolis: Hackett, 1987), p. 52.

[2] T.R. Malthus, Principles of Political Economy, (1820), p. 392.

[3] J.M. Keynes, Teoria Generale dell'Occupazione, dell'Interesse e della Moneta (Novara: De Agostini Libri - UTET, 2013), Libro I, Cap. 2, Sez. IV.

[4] Robert Higgs, How FDR Made the Depression Worse, The Free Market 13, no. 2 (Febbraio 1995).

[5] J.M. Keynes, Teoria Generale dell'Occupazione, dell'Interesse e della Moneta (Novara: De Agostini Libri - UTET, 2013), Libro V, Cap. 21, Sez. I.

[6] Lo scambio indiretto non presuppone automaticamente la presenza di denaro. Presuppone invece la presenza di una merce intermedia che viene usata come mezzo di scambio per convincere la nostra controparte a cedere il bene in suo possesso da noi desiderato. La ricerca di questa merce intermedia potrebbe richiedere all'attore di mercato una serie numerosa di scambi per entrarrne in possesso. Sarebbe decisamente un ammontare di tempo considerevole dedicato a tali opeazioni. Il denaro permette di ridurre tali tempi, fornendo ad uno degli attori di mercato la merce intermedia con cui entrare in possesso del bene desiderato e consegnando nelle mani del secondo attori di mercato una merce da lui o desiderata o scambiabile con un altro bene.

[7] Murray N. Rothbard, Man Economy, and State (New York: Van Nostrand, 1962), p. 669-71.

[8] F. A. Hayek, Prices and Production (New York: Kelly Publishers, 1931).

[9] La velocità di circolazione, Henry Hazlitt, Mises Italia, 21 giugno 2013.

[10] J.M. Keynes, Teoria Generale dell'Occupazione, dell'Interesse e della Moneta (Novara: De Agostini Libri - UTET, 2013), p. 74.

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3 commenti:

  1. ieri sono andato ad un bel convegno su reagan, ovviamente si è parlato di burke, ed in termini positivi. qui se ne mostra un altro aspetto. ma il discorso è assai spinoso, e le parole di burke vanno viste nel contesto in cui le ha dette. che non padroneggio come si dovrebbe per esprimermi compiutamente. sta che il diritto soggettivo è la giuridicizzazione della volontà di potenza in azione. pochi diritti, poca volonta di potenza. nell era dei diritti, lo stato è tenuto a garantire ogni desiderio. c è la tecnologia. la modernità dalla rivoluzione francese non pone più limiti. ora non non siamo qui a fare catastrofico millenario. né a filosofeggiare sul demone della crescita o per invocare il ritorno all ubris. tanto meno ad invocare la decrescita. ma solo, io penso, per un buon senso, una crescita non dopata ed una dialettica tra dei ed antidei. l unica religione ammessa è quella della liberta.

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  2. io credo che siamo qui perché più sensibili di altri alla discrepanza tra realtà e propaganda. per innata diffidenza verso pensieri e comportamenti conformisti. per cultura del dubbio.
    perché il nostro buon senso non è il senso comune.
    e così siamo al margine di un cambiamento. una rivoluzione liberale?

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  3. Non so come fosse Keynes caratterialmente ma devo dire per esperienza che i keynesiani che conosco io sono tutti degli arroganti supponenti. La loro religione è quella della "domanda aggregata", se solo poni una critica a questo dogma ti prendono per ignorante o per "sguattero in malafede", così come si è premunito di apostrofarmi uno di questi signori, auto-decantati protettori dell'umanità.

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