sabato 2 ottobre 2010

La visione Misesiana della libera società

A causa di un problema "elettrico", Freedonia è rimasta inattiva per qualche giorno. Questo mi ha dato modo di riprendere la lettura assidua di alcuni libri. Tornando on-line mi sono imbattuto casualmente nell'introduzione proprio di un libro che mi era capitato sottomano ultimamente, Liberalism. Temi che vanno dalla proprietà privata alla guerra ed alla pace, dall'economia al ruolo dello Stato ecc. Un'analisi del liberalismo classico necessario per una libera società.
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di Thomas E. Woods, Jr.


Ogni filosofia politica deve concentrarsi su una domanda centrale: sotto quali condizioni l'inizio della violenza può essere considerata legittima? Una filosofia può appoggiare tale violenza a nome degli interessi della maggioranza razziale di un gruppo, come i Nazional Socialisti in Germania. Un altro potrebbe sostenerla a nome di una particolare classe economica, come i Bolscevichi nella Russia Sovietica. Un'altra ancora può preferire di evitare una posizione dogmatica in un modo o nell'altro, lasciando al buon giudizio di coloro che amministrano lo Stato decidere quando il bene comune chiede l'inizio della violenza e quando no. Questo è il caso delle democrazie sociali.

Il liberale fissa ad un'alta soglia l'inizio della violenza. Oltre la minima tassazione necessaria per mantenere servizi legali e difensivi -- ed alcuni liberali riducono anche ciò --, egli nega allo Stato il potere di iniziare la violenza e cerca solo rimedi pacifici per i disagi sociali percepiti. Si oppone alla violenza nell'interesse della redistribuzione della ricchezza, del miglioramento delle lobby influenti, o provando a migliorare la condizione morale dell'uomo. Le persone civili, dice il liberale, interagiscono tra di loro non secondo la legge della giungla, ma tramite la ragione e la discussione. L'uomo non deve essere reso buono dalla guardia carceraria e dal boia; se dovessero essere necessari per renderlo buono, la sua condizione morale sarebbe già oltre la salvezza. Come dice Ludwig von Mises in questo importante libro, l'uomo moderno "deve liberarsi dall'abitudine, proprio nel momento in cui qualcosa non lo aggrada, di chiamare la polizia".

C'è una sorta di rinascimento negli studi Misesiani sulla scia della crisi finanziaria che per prima ha fatto presa sul mondo nel 2007 e 2008, dal momento che sono stati i seguaci di Mises a dare le spiegazioni più convincenti per i fenomeni economici che hanno lasciato molti dei cosidetti esperti balbettanti. L'importanza degli apporti economici di Mises alla discussione dei giorni nostri, è appropriata per farci guardare verso i suoi contributi come un teorico sociale ed un filosofo politico. La riedizione di Liberalism aiuta a rettificare questa dimenticanza.

I liberalismo che Mises descrive qui non è, ovviamente, il "liberalismo" degli Stati Uniti di oggi, ma piuttosto un liberalismo classico, che è come il termine continua ad essere inteso in Europa. Il liberalismo classico sta per libertà individuale, proprietà privata, libero mercato e pace, principi fondamentali dai quali il resto del programma liberale può essere dedotto (quando la prima edizione inglese di Liberalism apparve nel 1962, Mises la pubblicò sotto il titolo di The Free and Prosperous Commonwealth, in modo da non confondere i lettori americani che associavano il liberalismo con un credo molto diverso da quello che lui difendeva).

Non sarebbe un'offesa per Mises descrivere la sua difesa del liberalismo come parsimoniosa, nel senso che, seguendo il rasoio di Occam non impiega a suo favore nessun concetto che non sia strettamente necessario al suo discorso. Così Mises non fa nessun riferimento ai diritti naturali, un concetto che gioca un ruolo centrale in molte altre esposizioni del liberalismo. Si concentra principalmente sulla necessità di una cooperazione sociale su larga scala. Questa cooperazione sociale, con la quale le complesse catene di produzione funzionano per migliorare lo standard di vita generale, può scaturire solo da un sistema economico basato sulla proprietà privata. La proprietà privata dei mezzi di produzione, raddoppiata con la progressiva estensione della divisione del lavoro, ha aiutato a liberare l'umanità dalle orribili afflizioni che un tempo si presentavano davanti la razza umana: malattia, povertà opprimente, tassi sconvolgenti di mortalità infantile, squallore generale e sudiciume ed insicurezza economica radicale, con le persone che spesso soffrivano di fame a causa di un pessimo raccolto. Finchè l'economia di mercato illustrava le possibilità di creazione di ricchezza dalla divisione del lavoro, era dato per scontato che queste caratteristiche grottesche della condizione umana erano i rigidi dettami di una natura fredda e senza pietà, così improbabile da essere sostanzialmente alleviata, e molto meno da essere conquistata per intero, dallo sforzo umano.

Agli studenti è stato insegnato per molte generazioni a pensare che la proprietà fosse una brutta parola, la vera impersonificazione dell'avidità. Mises non lo farà. "Se la storia potesse provare in qualsiasi modo questa questione, potrebbe farlo solo mostrando che in nessun luogo ed in nessun tempo c'è mai stata una persona che abbia migliorato se stessa al di sopra di una condizione di miseria opprimente e barbarie scarsamente distinguibile da quella animale, senza la proprietà privata". La cooperazione sociale, mostra Mises, è impossibile in assenza di proprietà privata e qualsiasi tentativo di ridurre tale diritto mina il pilastro centrale della civiltà moderna.

Infatti Mises ancora saldamente il liberalismo alla proprietà privata. E' fin troppo consapevole che elogiare la proprietà sarebbe come aprire la porta alle accuse secondo cui il liberalismo è solamente una velata apologia per il capitale. "I nemici del liberalismo l'hanno marchiata come parte degli interessi speciali dei capitalisti", osserva Mises. "Ciò è caratteristico della loro mentalità. Non capiscono semplicemente un'ideologia politica, come se fosse nient'altro che l'invocazione di certi speciali privilegi opposti al benessere generale". Mises mostra nel suo libro ed in tutti i suoi lavori che il sistema della proprietà privata dei mezzi di produzione torna a beneficio non solamente ai diretti proprietari, ma difatti a tutta la società.

Non c'è, infatti, nessuna particolare ragione per cui le persone in possesso di grande ricchezza dovrebbero favorire il sistema liberale di libera concorrenza, in cui un continuo sforzo deve essere esercitato a nome dei desideri dei consumatori se non si vuole ridurre quella ricchezza. Coloro che posseggono una grande ricchezza -- specialmente coloro che l'hanno ereditata -- possono difatti preferire di abitare in un sistema interventista, il quale più probabilmente mantiene il modello esistente di riccehzza stabilita. Non c'è da meravigliarsi che le riviste finanziarie americane durante l'Era Progressiva sono riempite da appelli per un rimpiazzo del laissez-faire, un sistema in cui i profitti di nessuno sono protetti, a favore del cartello regolato dal governo e tecniche di collusione.

Naturalmente, data l'enfasi di Mises sulla centralità della divisione del lavoro e sul mantenimento e progresso della civiltà, egli è particolarmente schietto riguardo i mali della guerra, la quale oltre al suo alto prezzo di vite umane causa anche il progressivo impoverimento dell'umanità tramite il suo radicale sconvolgimento dell'armoniosa struttura della produzione che attraversa l'intero globo. Mises, che raramente spezzetta le parole ma la cui prosa è generalmente elegante e controllata, parla con indignazione e scandalo quando il soggetto diventa l'imperialismo europeo, una causa in nome della quale egli non ammette nessuna giustificazione. Proprio come suo il studente, Murray Rothbard, successivamente identificherà guerra e pace come la questione fondamentale dell'intero programma liberale, allo stesso modo Mises insiste che queste questioni non possono essere trascurate -- come lo sono spesso dai liberali classici del nostro tempo -- in favore di argomenti più sicuri, ma politicamente meno delicati.

Lo strumento principale del liberalismo, sosteneva Mises, era la ragione. Ciò non vuol dire che Mises pensava che il suo intero programma doveva essere attraversato da densi ed elaborati trattati accademici. Ammirava enormemente coloro che portavano le proprie idee in scena, sul grande schermo e nel mondo delle pubblicazioni narrative. Ma non significava che la causa doveva rimanere radicata nella discussione razionale, un fondamento più sensato rispetto all'incostante irrazionalismo dell'emozione e dell'isterismo con cui le altre ideologie cercavano di scuotere le masse. "Il liberalismo non ha niente a che fare con tutto ciò", insiste Mises. "Non ha fiori o colori, musiche o idoli, simboli o slogan. Ha la sostanza e gli argomenti. Sono queste cose che devono condurre alla vittoria".

Infine una piccola parentesi sulla traduzione. L'elegante resa di Ralph Raico delle parole di Mises non solo trasmette le idee dell'autore con precisione e cura, ma preserva anche il suo stile di prosa unico ed affascinante. I lettori degli ultimi lavori di Mises, molti dei quali sono apparsi originariamente in inglese piuttosto che in forma tradotta, saranno colpiti da quanto abilmente Raico abbia catturato la voce che loro scoprono in quei libri.

Dovremmo rallegrarci per la pubblicazione da parte del Mises Institute della nuova edizione di questo vecchio classico, particolarmente in un periodo così pericoloso della storia. Con le crisi fiscali e le conseguenti dure scelte che minacciavano un'ondata di fermenti popolari in Europa, le impossibili promesse fatte da Stati a corto di denaro divennero crescentemente ovvie. Come Mises argomentò, non c'è nessun stabile ed a lungo termine sostituto per la libera economia. L'interventismo, anche in nome di un'apparente buona causa come il welfare, crea più problemi di quanti ne risolva, portando così ad ancora più interventi finchè il sistema non diviene totalmente socializzato, se il collasso non arriva prima.

La posizione di Mises va contro quelli che sostengono che il mercato era difatto un posto di rivalità e conflitto in cui il guadagno di qualcuno implicava perdite per qualcun'altro. Uno può pensare, ad esempio, a David Ricardo e la sua opinione secondo cui i salari ed i profitti necessariamente si muovono in opposte direzioni. Thomas Malthus avvisò di una catastrofe legata alla popolazione, che implicava un conflitto tra alcuni individui (quelli già nati) ed altri (cioè i presunti eccessi che sarebbero venuti in seguito). Poi, ovviamente, c'era tutta la tradizione mercantilista, che vedeva il commercio e lo scambio come un tipo di battaglia di bassa intensità che produceva una serie definita di vincitori e perdenti. Karl Marx sottolineò quella dichiarazione classica inerente l'antagonismo di classe nel Manifesto Comunista. Anche più vecchio rispetto a queste figure era Michel de Montaigne (1533-1592), che disse nel suo saggio "la triste condizione di un uomo è il beneficio di un altro" ovvero "il profitto può possibilmente essere fatto ma solo a speso di un altro". Mises chiamò in seguito questo punto di vista "la fallacia di Montaigne".

Per il bene della stessa civiltà, Mises ci sprona ad abbandonare i miti mercantilisti che affossano la prosperità di una persona rispetto ad un'altra, i miti socialisti che descrivono le varie classi sociali come nemici mortali ed i miti dell'interventismo che cercano prosperità tramine il saccheggio reciproco. Al posto di questi infantili e distruttivi malintesi Mises avanza un'importante argomento per il liberalismo classico, che vede "le economie in armonia" -- prendendo in prestito la formulazione di Frédéric Bastiat -- dove gli altri vedeno antagonismo e conflitto. Il liberalismo classico, così abilmente difeso qui da Mises, non cerca nessun vantaggio coercitivo per nessuno, e per questa ragione causa i più soddisfacenti risultati a lungo termine per tutti.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


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