martedì 11 luglio 2023

Le auto-correzioni del mercato durante le recessioni del 1819 e 1919-1921

 

 

di Vibhu Vikramaditya

Mentre i primi segnali di una tempesta economica attraversano gli Stati Uniti — un allarmante aumento dei fallimenti bancari, un aumento delle indennità di disoccupazione e un preoccupante calo delle vendite al dettaglio — ci troviamo sull'orlo di una profonda recessione. Fissando questo incerto abisso, gli autoproclamati guardiani del nostro destino finanziario, la Federal Reserve e il governo degli Stati Uniti, si trovano di fronte a un compito colossale: quando suoneranno le campane della recessione, come risponderanno?

La Federal Reserve e l'amministrazione Biden interromperanno nuovamente i ritmi naturali del mercato attraverso rapidi tagli dei tassi d'interesse, quantitative easing e spesa pubblica? Queste misure interventiste, sebbene progettate per attenuare le recessioni economiche, distorcono i segnali di mercato, portando a un'allocazione errata delle risorse e alla perpetuazione di strutture insostenibili. Questo approccio ostacola i meccanismi autocorrettivi del mercato, impedendo il ritorno a un equilibrio naturale. Lasciare che le recessioni facciano il loro corso consente, invece, una ripresa organica.

L'approccio non interventista, riconoscendo il dolore a breve termine come una componente necessaria della salute economica a lungo termine, rispetta la capacità di autocorrezione del mercato; comprende che il dolore economico a breve termine per imprese, aziende e banche è una componente necessaria della sostenibilità economica a lungo termine. Nella nostra ricerca di stabilità economica, dobbiamo rivolgere lo sguardo ai meccanismi autocorrettivi insiti nel mercato stesso. Gli annali della storia economica sono pieni di casi in cui consentire il dispiegarsi di questi naturali processi di guarigione ha catalizzato un ritorno alla prosperità, come le recessioni del 1819 e del 1919-21.

L'approccio non interventista è un approccio sfumato e vincolato, che richiede pazienza e fiducia nella capacità innata del mercato di riequilibrarsi e riprendersi. Il percorso da una recessione a una forte ripresa passa attraverso la deflazione dei prezzi degli asset, gonfiati artificialmente, e la liquidazione degli investimenti improduttivi, che liberano capitale da utilizzare in settori redditizi, fino alla ripresa.

Ciononostante questa idea non è priva di critiche. Gli economisti keynesiani e monetaristi, che promuovono una linea di  politica interventista, un aumento della spesa e un abbassamento dei tassi d'interesse, sostengono che suddetta liquidazione potrebbe esacerbare una recessione riducendo ulteriormente la domanda e creando disoccupazione. Secondo John Maynard Keynes, nel suo The General Theory of Employment, Interest and Money del 1936: “Il rimedio per il boom non è un tasso d'interesse più alto, ma un tasso d'interesse più basso!”. La sua teoria suggerisce che stimolare la domanda attraverso tassi d'interesse più bassi e spesa pubblica consentirebbe una correzione più graduale degli investimenti improduttivi.

Anche i monetaristi, come Milton Friedman, si oppongono alla liquidazione diretta dal mercato. Nel suo Capitalism and Freedom del 1962, Friedman afferma: “Crediamo che il Federal Reserve System [...] dovrebbe mirare a mitigare, e, idealmente, a prevenire, gravi cambiamenti nella quantità totale di denaro”. Questa prospettiva suggerisce che il mantenimento della stabilità dell'offerta di denaro può prevenire gravi recessioni e rappresenta per esse una cura migliore rispetto al processo di liquidazione potenzialmente distruttivo. Queste misure, tuttavia, rischiano di prolungare il processo di aggiustamento e creare una maggiore instabilità economica a lungo termine.


Le recessioni del 1819 e del 1919-1921

La recessione del 1919-21, nota anche come depressione del 1920-21, fu un periodo significativo nella storia dell'economia degli Stati Uniti. È di particolare importanza perché è stata completamente ignorata dalla maggior parte della comunità accademica, in quanto non si adatta alla narrativa keynesiana della viscosità dei prezzi, come dimostra l'opera fondamentale di James Grant, The Forgotten Depression: 1921: The Crash That Cured Itself.

La liquidazione diretta dal mercato si riferisce alla bancarotta delle imprese, alla vendita di beni e all'utilizzo dei proventi per estinguere i debiti. Quando un'impresa non può far fronte ai propri obblighi finanziari o è insolvente, la liquidazione diventa un processo inevitabile. Durante la recessione del 1919-1921, l'alto tasso di liquidazioni aziendali contribuì alla profondità e alla durata della recessione economica.

Grant esamina in particolare il ruolo della politica monetaria della Federal Reserve. Fondata nel 1913, era relativamente giovane durante la recessione del 1919-21. Grant sostiene che la politica monetaria della FED, alti tassi d'interesse e contrazione dell'offerta di denaro, contribuirono in modo significativo alla profondità della recessione e all'alto tasso di liquidazioni aziendali.

La Federal Reserve lasciò salire i tassi d'interesse alla fine del 1919 per combattere le pressioni inflazionistiche che si erano accumulate durante e dopo la prima guerra mondiale. Come documentato dai dati della Federal Reserve, il tasso di riferimento salì dal 4% nel 1919 al 7% nel 1920. Questa contrazione, pur causando inizialmente difficoltà economiche, portò alla liquidazione degli investimenti improduttivi.

Questa linea di politica portò a una contrazione del credito, cosa che rese più costoso per le imprese prendere in prestito denaro. Di conseguenza le aziende che erano fortemente indebitate, o con flussi di cassa deboli, furono spinte verso l'insolvenza, portando quindi a un'impennata delle liquidazioni. L'indice dei prezzi al consumo scese del 10,8% nel 1921, il più grande calo in un solo anno nella storia dell'indice. Questa deflazione rifletteva la liquidazione degli investimenti improduttivi, cosa che abbassò i prezzi sopravvalutati del capitale e lo liberò per essere poi utilizzato in iniziative redditizie e stabili. Il processo di liquidazione facilitò anche la riallocazione nel mondo del lavoro: la disoccupazione salì dal 3,0% nel 1919 all'11,7% nel 1921.

Nonostante queste dure condizioni, l'economia si riprese molto rapidamente. Nel 1922 la disoccupazione era scesa al 6,7% e nel 1923 al 2,4%. Il prodotto interno lordo, che si era contratto del 2,4% nel 1921, crebbe del 3,8% nel 1922 e del 4,7% nel 1923.

Questa incredibile ripresa, osserva Grant, fu generata da una curiosa svolta del destino che impedì al governo degli Stati Uniti e alla giovane e insicura Federal Reserve d'intervenire. L'unico ruolo cruciale svolto dal governo federale nella recessione del 1920-21 fu quello di consentire la liquidazione diretta dal mercato. Grant cita l'allora segretario al Tesoro, Andrew Mellon, il quale spalleggiò un approccio senza interventi: “Liquidare il lavoro, le azioni, gli agricoltori, gli immobili”. Nel 1922, appena tre anni dopo l'inizio della recessione, l'economia era di nuovo in crescita, segnando una ripresa relativamente rapida.


Il panico del 1819

Il panico del 1819 fu la prima grande crisi economica in tempo di pace negli Stati Uniti. Come mostra Murray Rothbard nel suo The Panic of 1819: Reactions and Policies del 1962, quella recessione venne accelerata da un brusco crollo dei prezzi delle materie prime e da una significativa contrazione dell'offerta di denaro. Dopo la guerra del 1812, la Seconda Banca degli Stati Uniti tentò di frenare l'inflazione richiamando i propri prestiti, provocando quindi una forte contrazione del credito. Ne seguì un'ondata di fallimenti tra imprese e istituzioni finanziarie. Nonostante queste gravi condizioni, l'economia si adattò in modo naturale, senza alcun intervento statale significativo.

Un meccanismo cardine che facilitò questa autocorrezione fu la deflazione. La riduzione dell'offerta di denaro portò a una sostanziale diminuzione dei prezzi, abbassando il costo delle merci e innescando una ripresa della domanda. Secondo Rothbard, i prezzi del cotone, ad esempio, scesero da trentadue centesimi per libbra all'inizio del 1819 a soli quattordici centesimi entro la fine di quell'anno, stimolandone le esportazioni e contribuendo a ristabilire l'equilibrio nell'economia.

Rothbard osserva che questa contrazione portò a pignoramenti e fallimenti, i quali a loro volta portarono a una significativa liquidazione degli investimenti improduttivi. Sfortunatamente questo processo non fu completato: “È stato un peccato che venne permesso alla liquidazione dei valori gonfiati dei terreni di seguire il suo corso benefico”.

Tuttavia quella recessione fu relativamente breve, con l'economia che iniziò a riprendersi già nel 1821. L'approccio laissez-faire, come suggerisce Rothbard, consentì il verificarsi di questo processo di liquidazione e, nonostante le difficoltà iniziali, l'economia iniziò a riprendersi. Tale liquidazione permise di riallocare capitale e lavoro verso usi più produttivi, facilitando quindi la ripresa economica.


Conclusione

Le recessioni del 1819 e del 1919-21 sottolineano il valore della pazienza, della comprensione e della fiducia nella capacità del mercato di riequilibrarsi e riprendersi. Il percorso verso una forte ripresa, come testimoniato in quei periodi, passa attraverso i dolorosi ma necessari processi di deflazione e di liquidazione degli investimenti improduttivi. Questi processi, sebbene difficili nel breve periodo, liberano capitale per iniziative più redditizie, avviando così una ripresa organica e autonoma.

Questi episodi storici servono a ricordarci la profonda resilienza dei mercati; sottolineano la necessità di politiche economiche che resistano alla tentazione d'intervenire e consentano invece alla mano invisibile del mercato di orchestrare la ripresa. A lungo termine questa linea di politica porta a un quadro economico più solido, resiliente e sostenibile che è meglio preparato a resistere alle tempeste economiche future.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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1 commento:

  1. L'unica cosa che non va col libero mercato è che nell'attuale società non esiste. È stato incatenato da tante leggi e regolamenti ed è incredibile che possa in qualche modo concedere prosperità attraverso piccoli spillover. Ecco perché le piccole imprese hanno difficoltà a rimanere in attività: non possono permettersi un dipartimento del personale composto da avvocati specializzati, o un ufficio contabile pieno di esperti fiscali. Le piccole imprese non hanno lobbisti che si prendono cura dei loro interessi, né possono prendere in prestito denaro al tasso di riferimento della BCE, o pagare i loro conti emettendo più azioni. Invece pagano salari reali a lavoratori reali e forniscono beni e servizi reali a clienti reali e paganti. Rappresentano le ossa di una società prospera e libera.

    I pianificatori centrali hanno truccato l'intera economia a danno della classe media: hanno spinto verso l'alto i prezzi degli asset con denaro fasullo prestato a tassi fasulli; hanno causato inflazione dei prezzi, tanto che ora le case ordinarie sono così costose che la gente comune non può permettersele; hanno abbassato i tassi di crescita e la produttività scoraggiando il risparmio reale e gli investimenti; hanno caricato i vari governi con debito pubblico irripagabile.

    Ma rallegratevi, cari lettori, perché i pianificatori centrali stanno lavorando alacremente per liberarci definitivamente dal peso gravante di pensare sempre alla libertà e alla prosperità. Si sta aprendo sempre di più un nuovo fronte sulla via verso il comando/controllo: la lotta alla "disinformazione". Ed essa si assicurerà un tale esito. Un impero senile e degenerato è incompatibile con la libertà e la prosperità e i pianificatori centrali ci stanno liberando da entrambi.

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