venerdì 29 dicembre 2023

Non farsi sfuggire di mano gli eventi durante una crisi

 

 

di Alasdair Macleod

Questo saggio si propone di sottolineare come l’attuale calo dei rendimenti obbligazionari sia parte di una continua manipolazione dei mercati a opera delle banche centrali in modo da ripristinare la fiducia nelle prospettive economiche mondiali.

Esiste una lunga storia d'interventi statali sui mercati: nel diciannovesimo secolo ciò avvenne attraverso norme legali, la più notevole delle quali fu il Bank Charter Act del 1844, che poi dovette essere sospeso nel 1847, 1857 e 1866.

Dall’inizio degli anni ’20 l’enfasi sull’interventismo cambiò con Benjamin Strong, il primo presidente della FED, il quale iniziò a espandere deliberatamente il credito della banca centrale per stimolare l’economia. Questo fatto, unito alla fase di espansione del ciclo creditizio delle banche commerciali, portò ai ruggenti Anni venti, al boom del mercato azionario e al suo crollo.

I presidenti Hoover e Roosevelt aggravarono gli errori con interventi economici che prolungarono la depressione degli anni ’30. Fu l’inizio della manipolazione economica e monetaria da parte dello stato, la quale indossò una nuova veste con il denaro totalmente scoperto negli anni ’70.

Mentre creano problemi attraverso i loro interventi, gli stati hanno perfezionato l’arte di gestire i mercati per ripristinare la fiducia e ciò è stato dimostrato in seguito al fallimento della Lehman.

Ma se l’intervento pubblico è alla base dell’attuale calo dei rendimenti obbligazionari e delle aspettative sui tassi d'interesse, si tratta solo di una soluzione temporanea alle trappole del debito pubblico nel G7, alla stretta sul credito bancario e al deterioramento delle prospettive economiche. Sono problemi rinviati, non risolti.


Introduzione

Sebbene le autorità siano motivate ​​contro il libero mercato e non riescano a smettere d'interferire nei nostri affari quotidiani quando infine arriva la crisi da loro stessi creata, si dimostrano abili nel risolverla. Il fatto che il denaro scoperto sia sopravvissuto a un ciclo ripetuto di crisi a partire dai primi anni ’70 ne è una prova.

All’insaputa della maggior parte di noi, esse lavorano dietro le quinte per neutralizzare le minacce allo status quo e questo era lo scopo originale dell’Exchange Stabilization Fund degli Stati Uniti, fondato come parte del Gold Stabilization Act del 1934. Il sito web del Tesoro degli Stati Uniti afferma quanto segue:

L'ESF può essere utilizzato per acquistare o vendere valute estere, per detenere titoli statunitensi, asset in valuta estera e in Diritti Speciali di Prelievo (DSP), e per fornire finanziamenti ai governi esteri. Tutte le operazioni dell'ESF richiedono l'autorizzazione esplicita del Segretario del Tesoro.

Il Segretario è responsabile della formulazione e dell'attuazione delle norme statunitensi, della politica monetaria e finanziaria internazionale, compresa la linea di politica d'intervento sui mercati dei cambi. L'ESF aiuta il Segretario a svolgere questi compiti. Per legge, il Segretario ha una notevole discrezionalità nell'uso delle risorse dell'ESF.

La Banca d’Inghilterra gestisce il conto di perequazione degli scambi del Regno Unito con obiettivi simili, ma l'ESF americano non è l’unico mezzo a sua disposizione per orientare i mercati. È ampiamente riconosciuto che la FED utilizza JPMorgan Chase come canale principale nel sistema bancario statunitense e si sospetta (la riservatezza bancaria nasconde opportunamente la verità) che JPM e altre grandi banche facciano operazioni di mercato per conto del Tesoro statunitense, dell'ESF e della FED stessa.

Un altro ambito d'intervento che orienta le nostre aspettative è quello statistico. In futuro, economisti e commentatori potrebbero guardare indietro con incredulità al modo in cui i mercati vengono mossi dalle statistiche governative come se fossero la verità, quando invece dimostrano tutto fuorché la verità. E la manipolazione più spudorata riguarda i dati sull’inflazione al consumo.

Nel Regno Unito l’indice collegato ai titoli sovrani usa l’indice dei prezzi al dettaglio come base per la compensazione dell’inflazione, il quale è risultato più elevato rispetto ad altri indici, come l’IPC. Il governo inglese è riuscito a rimuovere l'IPD da molte altre forme di compensazione dell’inflazione, ma finora i passi per modificare la base di compensazione per i titoli sovrani sono un lavoro in corso, cambiando l’IPD in IPCA dal 2030, che, secondo le stime dell’Ufficio per la gestione del debito, in futuro potrebbe far risparmiare al governo miliardi di sterline.

Negli Stati Uniti armeggiare con le stime dell’inflazione ha creato un’attività alternativa per John Williams su Shadowstats.com, che calcola l’inflazione sulla base del 1980 prima che gli statistici governativi iniziassero ad armeggiare per ridurre il costo della compensazione dell’inflazione. Il grafico qui sotto proviene dal sito web di Williams e dice tutto.

Utilizzando la metodologia del 1980, Williams stima che i prezzi al consumo stiano aumentando a un tasso di circa il 12%, rispetto alle stime del governo che invece registrano dati inferiori al 5%. Ciò che dà agli statistici governativi flessibilità nel calcolo è che i cambiamenti nel livello generale dei prezzi sono un concetto non misurabile, consentendo loro di presentare qualsiasi ipotesi vogliano. Eppure, nonostante questa frode, quasi tutti nel settore finanziario accettano il mito dell’inflazione misurata dal governo come vangelo, soffocando voci dissenzienti come quella di Williams. Un altro esempio sono le statistiche sulla disoccupazione, che Williams attualmente stima essere pari a circa il 25%, compresi i lavoratori scoraggiati a lungo termine “che sono stati tagliati fuori dalle statistiche ufficiali nel 1994”.

Sorpresa, sorpresa: ogni cambiamento che i governi apportano alle statistiche riduce i loro costi, o li abbellisce, o entrambe le cose. Il risultato è un’irrealtà, che a un certo punto viene riportata coi piedi a terra. Ma forse non dovremmo preoccuparci di questo, data l’impeccabile esperienza delle autorità nel salvarci dalle loro follie.

L'intervento continuo e la manipolazione dei mercati sono vivi e vegeti ancora oggi. I tassi d'interesse e i rendimenti obbligazionari che riflettono la perdita reale di potere d’acquisto sarebbero considerevolmente più alti se la verità dietro di essi guidasse i valori degli asset finanziari. Invece il rendimento del decennale statunitense è sceso dal 5% al ​​4,37% in un mese e l’indice del dollaro è sceso di circa il 3% per alleviare la pressione sulle obbligazioni estere e sui mercati azionari, facendo sfogare un crescente senso di crisi.

Il grafico seguente mostra perché questa mossa era necessaria.

Il grafico mette a confronto la correlazione negativa tra l’indice S&P 500 e il rendimento delle obbligazioni a lungo termine. La teoria alla base di ciò è che i mercati azionari riferiscono i loro valori in modo inverso ai rendimenti obbligazionari: in altre parole, rendimenti obbligazionari in aumento indeboliscono i mercati azionari, mentre gli stessi rendimenti, ma in calo, portano a valori azionari in aumento. Si tratta di uno dei pilastri a sostegno delle linee di politica ufficiali sui tassi d'interesse, sulla base del fatto che mercati azionari sani incoraggiano la fiducia economica generale. Alan Greenspan, quando era presidente, lo affermò chiaramente.

Per illustrare il punto, il grafico mostra la disparità di valutazione tra i rendimenti obbligazionari in aumento e l’indice S&P 500, e, a parte quando i primi sono stati abbassati fino all’1,2% durante la crisi sanitaria, stiamo parlando della più grande disparità di valutazione dei tempi moderni – forse mai vista prima. Se i rendimenti dei titoli del Tesoro non fossero scesi, il mercato azionario avrebbe dovuto affrontare un bagno di sangue, riportandolo potenzialmente ai livelli post-crisi Lehman, con l’indice S&P in calo verso quota 1000.


Fare i conti con il sistema bancario

La causa principale degli errori economici dell’interventismo moderno è stata la depressione degli anni ’30; la causa principale della depressione furono gli errori nella gestione del ciclo del credito bancario, che ancora oggi porta a crisi finanziarie periodiche.

Il boom che alimentò la crisi degli anni ’30 fu la prima grande incursione nella manipolazione monetaria da parte della FED sotto la presidenza di Benjamin Strong. Quest'ultimo era un sostenitore dello stimolo del credito e il suo contributo fece leva ulteriormente sugli effetti dell’espansione del credito da parte delle banche commerciali; insieme alimentarono i ruggenti anni Venti e con essi la speculazione sui mercati azionari. La bolla scoppiò facendo crollare Wall Street e in seguito circa 9.000 banche fallirono.

Sfortunatamente per l’America, il successore del presidente Coolidge (che, per inciso, sembrava beatamente inconsapevole di ciò che stava accadendo alla FED – ma del resto Silent Cal non era un uomo d’affari) fu Herbert Hoover, di cui Coolidge disse: “Quell’uomo non mi ha dato altro che consigli, e tutti pessimi”. Il successore di Hoover, Roosevelt, ficcanasò in ogni cosa cercando di migliorarla, riuscendo solo a peggiorarle. Inventò il New Deal, che sebbene catturò l'immaginazione del pubblico, non fece altro che prolungare la depressione.

Stimolò l’immaginazione degli economisti statalisti, come Irving Fisher e Keynes, nel consigliare l’uso del credito per stimolare l’economia quando il libero mercato falliva: nessuna lezione era stata appresa dalle disastrose politiche creditizie di Benjamin Strong. Non furono i mercati a fallire, bensì l’espansione del credito da parte della FED a mettere il turbo all’espansione del credito delle banche commerciali, ad amplificare la bolla e la crisi successiva; senza tale intervento, il ciclo del credito bancario non sarebbe stato così distruttivo. Keynes e colleghi non capivano il credito, quindi, a beneficio dei suoi seguaci e della loro analisi difettosa, dobbiamo riscrivere la storia del credito e le sue varie crisi nel tentativo di capire se l’attuale calo dei rendimenti obbligazionari sia stato architettato dalle autorità.


Scuola valutaria & Scuola bancaria

L’intervento statale ha una lunga storia alle spalle, ma nel diciannovesimo secolo non si trattava di un’ingerenza diretta nell’economia, bensì di errori nella definizione giuridica dei mezzi di pagamento.

Ci fu un lungo dibattito se il denaro dovesse essere controllato secondo un approccio basato su regole, o se le banche dovessero essere libere di concedere prestiti in conformità con le esigenze commerciali. Il primo approccio era quello della Scuola valutaria, che si rifà a David Ricardo e che nel 1823 scrisse un libro intitolato Piano per l’istituzione di una banca nazionale che fu pubblicato postumo. In esso Ricardo scrisse:

La Banca d'Inghilterra compie due operazioni bancarie, ben distinte e non necessariamente collegate tra loro: emette una moneta cartacea in sostituzione di quella metallica e anticipa denaro sotto forma di prestiti a commercianti e altri. Da ciò risulterà evidente che queste due operazioni bancarie non hanno alcun nesso necessario: esse potrebbero essere esercitate da due enti distinti, senza la minima perdita di vantaggio, né per il Paese, né per i commercianti che ricevono accomodamento da tali prestiti.

L'approccio di Ricardo faceva rima con il successivo Piano di Chicago del 1933, che cercava di limitare rigorosamente il processo di creazione dei prestiti, e ancora oggi i precetti della Scuola valutaria trovano il sostegno degli economisti della Scuola Austriaca e dei monetaristi. La teoria quantitativa della moneta di Ricardo, la base del suo approccio, è sopravvissuta.

L’approccio della Scuola bancaria era più flessibile per quanto riguarda la creazione di prestiti, a sostegno di una posizione più evolutiva e meno statica in base alla quale le banche dovevano essere libere di rispondere alle condizioni di mercato e alle opportunità che presentavano. Il problema di questo approccio era che non faceva nulla per affrontare la ciclicità dell’espansione del credito bancario che periodicamente portava a crisi bancarie e recessioni economiche.

La legislazione bancaria più importante del diciannovesimo secolo fu il Bank Charter Act del 1844, il quale stabiliva i termini in base ai quali veniva rinnovato lo statuto della Banca d'Inghilterra per agire come banca dello stato. Quella legge fu un trionfo per la Scuola valutaria, dividendo la BoE in due funzioni separate: un dipartimento di emissione e un dipartimento bancario, come sostenuto da Ricardo nel 1823.

Come previsto dalla Scuola bancaria, il Bank Charter Act dovette essere sospeso in tre occasioni: nel 1847, solo tre anni dopo essere diventato legge, nel 1857 e nel 1866 quando si verificò il fallimento dell'Overend Gurney. È il rimedio a quelle crisi che ci interessa.

Nell'ottobre 1847 la BoE cercò di fermare una crisi finanziaria mettendo grandi quantità di credito a disposizione delle banche commerciali di Londra, al punto che la sua capacità di sostenere l'intero sistema finanziario si esaurì. All’inizio di quell’anno si era verificato un drenaggio delle riserve auree che limitava gravemente lo spazio di manovra della BoE stessa, perché la legge le richiedeva di mantenere una copertura in oro 1:1 per tutte le banconote emesse. Per paura che la crisi bancaria potesse far crollare l'intero sistema, il governo inglese autorizzò temporaneamente la Banca d'Inghilterra a emettere banconote a discrezione, ignorando i requisiti della legge. Il panico finanziario si placò immediatamente e la domanda frenetica di banconote e sovrane in oro scomparve.

Problema risolto. Nel novembre 1857 ci fu una corsa ai danni della stessa Banca d'Inghilterra, quando le sue riserve auree ammontavano a sole £274.000 contro passività di £5.460.000, una condizione che avrebbe impedito a una banca commerciale di operare. Anche in questo caso il governo inglese fu costretto ad autorizzare la Banca d'Inghilterra a emettere banconote a discrezione, ma le richiese anche di aumentare il tasso di sconto oltre il 10%. Il giorno dopo questo permesso, il panico si calmò. E nel 1866 il fallimento dell’Overend Gurney, di gran lunga il peggiore dei tre casi qui citati, fu risolto dal governo inglese autorizzando nuovamente la Banca d'Inghilterra a procedere in termini simili a quelli indicati per domare il panico del 1857.

La nostra ragione per ricordare i fallimenti dell’approccio della Scuola valutaria non è tanto quella di resuscitare il dibattito dell’inizio del XIX secolo, ma di sottolineare che un approccio rigorosamente basato su regole non garantisce la stabilità bancaria, e per aggiungere che le crisi bancarie periodiche si possono risolvere solo abbandonando le regole. Ma c’è un’ulteriore lezione: una crisi bancaria non richiede un calo dei tassi d'interesse per essere risolta. La soluzione si trova nel garantire che sia disponibile liquidità sufficiente e che il livello dei tassi d'interesse sia impostato dal solo dipartimento di emissione al fine di garantire che ci siano riserve auree adeguate per sostenere la valuta.

Le teorie della Scuola valutaria hanno oggi poco credito, ironicamente sostituite da un approccio della Scuola bancaria sempre più regolamentato; anche questo, però, non ha impedito l’insorgere di crisi. In quest’era di valute fiat il caso più notevole è stato il crollo del mercato azionario nel 1974. L’indice S&P 500 si era all’incirca dimezzato dal gennaio 1973 e l'indice FT30 del Regno Unito era crollato a 146 il 6 gennaio 1975, il 73% in meno rispetto al suo massimo del 1972. L’intero settore immobiliare era diventato più o meno privo di valore, a seguito del precedente crollo del novembre 1973 che mandò in bancarotta numerose piccole banche. Si vociferava che anche le banche per azioni fossero in bancarotta e il sentiment del mercato era al minimo livello possibile.

Fu a quel punto che, a porte chiuse, la Banca d’Inghilterra ordinò ai principali fondi pensione e compagnie assicurative, che avevano accumulato livelli significativi di liquidità a breve termine, di acquistare azioni indiscriminatamente. Di conseguenza il mercato salì vertiginosamente, la pressione dei ribassisti diminuì e la fiducia degli investitori ritornò rapidamente. Il discorso sulle banche per azioni in difficoltà fu dimenticato con il recupero dei valori delle garanzie.

Anche se la Banca d’Inghilterra aveva rimosso tutte le restrizioni sulla sua valuta e sulla creazione di credito in conformità con le teorie della Scuola bancaria, non solo il ciclo del credito continuò, ma fu risolte in modo simile alle precedenti sospensioni delle Bank Charter Act con una giudiziosa svolta nel sentiment. Questo è stato anche il caso quando la crisi della Lehman ci è esplosa in faccia nel 2008, quando la FED e le altre banche centrali hanno agito rapidamente per impedire che la fiducia nel sistema creditizio implodesse.

La lezione per noi oggi è che le banche centrali hanno imparato come ripristinare abilmente la fiducia. Come nel 2007, prima del fallimento della Lehman, stava diventando ovvio che le condizioni per una crisi stavano crescendo a dismisura, ma ancora non si riflettevano in una perdita di fiducia nell’enorme struttura globale del credito scoperto. La domanda che bisogna porsi ora è se le autorità stiano già intervenendo per prevenire la crisi incombente calciando il barattolo ancora una volta.


Lo sfondo della crisi di oggi

Sin dagli anni ’70, quando il credito fu svincolato dall’oro, è aumentata la necessità di una gestione dietro le quinte delle aspettative del mercato. Tutto è iniziato con i tentativi infruttuosi da parte del Tesoro americano di sopprimere il prezzo dell’oro vendendolo sul mercato. La propaganda anti-oro continuò senza successo finché, all’inizio degli anni ’80, il presidente della FED, Paul Volcker, non rialzò i tassi d'interesse in misura sufficiente a invertire la tendenza a favore del dollaro. Il fatto che il tasso dei Fed Fund dovesse essere rialzato oltre il 19% indicava il fallimento dello sforzo di propaganda anti-oro degli anni ’70, aprendo le porte alla risoluzione di quella crisi.

Oggi coloro che capiscono che l’oro è denaro e tutto il resto è credito sono una percentuale estremamente piccola di economisti e professionisti nel mondo degli investimenti. In quanto principale valuta di riserva, si ritiene ora che il dollaro abbia completamente sostituito l’oro come ancoraggio del credito globale; tuttavia esso è intrinsecamente instabile ed è necessario uno sforzo più deciso per la gestione continua delle aspettative, e ciò è avvenuto con la finanziarizzazione delle economie del G7 a metà degli anni ottanta.

Il vantaggio della finanziarizzazione è che dà alla banca centrale un maggiore controllo sui risultati economici rispetto a un’economia dipendente dal settore manifatturiero. Le banche centrali e i loro regolatori stabiliscono l’agenda su come utilizzare il credito in un modo che è impossibile per il settore manifatturiero. Il big bang finanziario di Londra ha portato all’abrogazione del Glass Stegall Act in America e ha reindirizzato il capitale mondiale dal settore manifatturiero ai mercati finanziari. L’espansione dei mercati dei derivati ​​ha assorbito la domanda speculativa di materie prime, compreso l’oro, e, insieme alla manipolazione statistica, è diventata una parte importante della repressione dell’inflazione.

L’espansione del credito rivolto ai mercati finanziari ha funzionato particolarmente bene fino alla fine del secolo, quando poi ha portato alla bolla delle dot-com, al suo scoppio e alla riduzione dei tassi al minimo storico. Alla fine si è sparsa la voce che la ripresa era in arrivo e si è verificato uno slancio crescente, riflesso nei mercati immobiliari. Probabilmente non sapremo mai se questa ripresa è stata avviata dalla Fed, come fece la Banca d’Inghilterra nel gennaio 1975, ma Alan Greenspan comprendeva i mercati, il loro sentiment e i loro tempi.

Tuttavia le conseguenze inflazionistiche hanno portato poi alla crisi del 2007-2009 e alla necessità da parte della FED di salvare l’intero sistema finanziario.

Gli elementi costitutivi di una crisi oggi sono sotto gli occhi di tutti e molti fattori sono simili alle crisi del passato. Il sistema bancario commerciale è colto alla sprovvista dalla ripresa dell’inflazione dei prezzi e dei tassi d'interesse, i quali stanno restringendo il credito; con la difficoltà del sistema bancario nel contrarre le sue passività aggregate, esso sta spostando le sue attività verso asset a basso rischio come i titoli di stato a breve termine. Inoltre le banche commerciali sono presiedute da banche centrali i cui bilanci sono stati distrutti dai precedenti quantitative easing, tassi d'interesse più alti e crollo dei valori degli attivi di bilancio.

Con il sentiment nei mercati obbligazionari ai minimi storici, ci sono ora le condizioni per innescare una stretta ribassista sui mercati obbligazionari, con banche e fondi d'investimento che hanno aumentato i loro asset quasi liquidi.


Perché ora?

Per le banche centrali si profilano due grossi problemi: il primo è come finanziare i crescenti deficit di bilancio dei rispettivi governi, quando i costi degli interessi rappresentano già la componente maggiore degli impegni di spesa; il secondo riguarda le tensioni nel sistema monetario del G7 imposte da un dollaro forte. Sembra che l’IPC nelle varie giurisdizioni si stia attenuando abbastanza da escludere ulteriori rialzi dei tassi d'interesse e che potrebbe addirittura scendere prima di quanto previsto in precedenza. Ciò crea l’opportunità di allontanare le aspettative di una crisi e, si spera, di guadagnare qualche anno di tempo.

Non c’è dubbio che la crescente fiducia in queste condizioni abbia giustificato i tagli fiscali annunciati dal Cancelliere britannico nella Dichiarazione d’autunno. La guerra in Ucraina è in una fase di calma e, a parte le manifestazioni a sostegno dei palestinesi, una politica generale da parte dell’America e dei suoi alleati d'intervento non militare su Gaza ha alleviato le tensioni geopolitiche nei mercati obbligazionari. Di conseguenza il rendimento del decennale statunitense è sceso dal 5% al ​​4,37% e il TWI del dollaro è sceso da 107 a 103,9, allentando la pressione sugli altri mercati obbligazionari, in particolare quello giapponese dove il rendimento del decennale è sceso dallo 0,96% allo 0,7%.

Con l’attenuarsi del senso di crisi, forse i rendimenti dei titoli del Tesoro USA diminuiranno ulteriormente. Sarà necessario per evitare un calo significativo dei mercati azionari e dovrebbe anche innescare un riflusso dai titoli di stato a breve termine e simili verso quelli a lungo termine, nella speranza che consentano al governo degli Stati Uniti di progredire con i suoi finanziamenti.


Per quanto tempo funzionerà ancora?

La crescente evidenza che le autorità stanno sfruttando il loro acuto senso del market timing per allontanare i mercati da una crisi dei finanziamenti e per promuovere la fiducia negli asset finanziari in generale, non dovrebbe essere confusa con la gestione di una crisi bancaria di per sé. Al meglio è come un cerotto su una ferita aperta. Al centro di tutto ciò c’è una crisi dei debiti pubblici che non si risolverà sulla scia di una stretta sui ribassisti nei mercati obbligazionari.

Quella odierna è una situazione molto diversa da quella degli anni ’70, con la quale si può paragonare questi tempi di ripresa dell’inflazione dei prezzi. Tra il 1971 e il 1980 la somma dei deficit di bilancio del governo statunitense fu di $421.823 milioni, il 15% del PIL del 1980. Al contrario, il deficit di bilancio totale negli ultimi dieci anni è stato pari a $12.918 miliardi, il 47% del PIL del 2023. Inoltre nel 1970 il rapporto debito/PIL degli Stati Uniti era pari al 34%, mentre oggi è pari al 122%.

In altre parole c’è una crisi del debito pubblico che non potrà che peggiorare e non sarà risolta da un calo di sessanta punti base nei rendimenti dei titoli a lungo termine. Inoltre le banche sovraindebitate si trovano ancora a fronteggiare un aumento dei prestiti in sofferenza nel settore privato e sta entrando in una fase di recessione, il che le scoraggia dal riprendere l’espansione dei loro bilanci. Il credito sarà ancora limitato e i debiti elevati.

Resta il fatto che per le banche sono pochissimi gli acquirenti delle garanzie detenute a fronte dei prestiti. Il grafico sopra, relativo al divario di valutazione tra rendimenti obbligazionari e mercati azionari, si applica anche ad altri asset, in particolare agli immobili. I dirigenti bancari sono tenuti a considerare questo calo dei rendimenti obbligazionari e quasi certamente concluderanno che le prospettive economiche e il modo in cui influiscono sui margini di credito rispetto al rischio sono ancora sfavorevoli.

Nel Regno Unito il Cancelliere ha deciso che le prospettive sono sufficientemente migliorate per alcuni tagli fiscali minori. Le cifre rilevanti parlano di un deficit di bilancio di £123,9 miliardi nell’anno fiscale in corso fino al prossimo aprile, con interessi sul debito di £116,2 miliardi. In altre parole, se non fosse stato per gli interessi sul debito, il bilancio sarebbe più o meno in pareggio. Parte degli interessi sul debito è dovuta al costo del rinnovo di quello in scadenza e all’aumento dei pagamenti degli interessi sui Gilt indicizzati. Anche la Gran Bretagna è in una trappola del debito e l’aritmetica ufficiale è troppo ottimista per una serie di motivi:

• Secondo le stime del governo inglese, la crescita del PIL misurata dai consumi sarà maggiore nel settore pubblico che in quello privato. Si prevede che il settore privato ristagnerà ad appena lo 0,5% reale, con un’inflazione in calo al 3,6%. Le aspettative per il 2024/25 si riveleranno quasi certamente ottimistiche, date le prospettive economiche globali prone a una recessione significativa. Invece l’Office for Budget Responsibility prevede una continua crescita economica nei prossimi anni.

• Le previsioni sulle entrate sono destinate a essere troppo ottimistiche date le prospettive di recessione globale, con anche i costi del welfare in aumento. Al netto dei costi degli interessi, il fabbisogno finanziario sarà sicuramente ampliato. I costi degli interessi sono destinati a muoversi in linea con i tassi del dollaro che quasi certamente aumenteranno, non diminuiranno.

• Le ipotesi sull’inflazione (IPC) presuppongono un ritorno al 2% nel 2025. Le prospettive di inflazione monetaria nei Paesi del G7 rendono questo risultato estremamente improbabile.

Anche se i dati del Regno Unito sono apparentemente buoni, la sterlina presenta un problema di credibilità rispetto al dollaro. Man mano che il potere d’acquisto del dollaro diminuirà, è probabile che lo stesso accada, ma in misura maggiore, alla sterlina.


Conclusione

L’attuale calo dei rendimenti obbligazionari statunitensi e del TWI del dollaro allevia un’enorme pressione sia sui mercati finanziari che sulle valute. A meno che gli eventi geopolitici non sconvolgano questa ritrovata fiducia, l’abile tempismo da parte delle autorità ha ridato fiducia nei mercati e quindi negli Stati Uniti e in altre economie.

Ripercorrendo la storia e i retroscena degli interventi volti a ripristinare la fiducia nei mercati, questo saggio ha mostrato che esistono forti prove circostanziali che l’attuale calo dei tassi d'interesse porti il segno di un certo grado di manipolazione top-down.

Di conseguenza i problemi di fondo rimangono: finanziamento pubblico, la progressione del ciclo del credito bancario e le prospettive economiche in deterioramento in tutti i governi sovraindebitati del G7. Le condizioni che hanno portato all'instabilità generale dei valori creditizi non sono state affrontate, quindi col tempo tutti i problemi che potrebbero sembrare in regressione si ripresenteranno con rinnovato vigore.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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