lunedì 7 febbraio 2022

I fondamentali indicano che l'inflazione è molto più che “transitoria”

 

 

di Ali Mecklai

Paul Krugman è di nuovo all'opera, questa volta con una serie di tweet che ignorano la realtà dell'inflazione dei prezzi e delle sue cause. Diamo un'occhiata più da vicino:

Viviamo davvero in un'era di superlativi statistici. Tra record pluriennali di debito, massimi di mercato e spesa pubblica, ora abbiamo anche l'inflazione, che ha raggiunto il massimo da trent'anni a questa parte.

La linea di pensiero di un'inflazione transitoria è stata ampiamente ripresa dai responsabili delle politiche fiscali e monetarie. Naturalmente è stata propugnata anche da Paul Krugman, che in una serie di tweet ammette di non essere riuscito a prevedere l'attuale impennata dei prezzi, ma continua a seguire la sua logica errata suggerendo che un'inflazione dei prezzi più alta non avrà un lungo impatto negativo e duraturo.

Mentre Krugman inizialmente affermava che l'inflazione come risultato di strategie di risposta al Covid, insieme a massicci sforzi di allentamento quantitativo (QE), non esisterebbe nemmeno, ora siamo bombardati da affermazioni secondo cui è temporanea o addirittura positiva. Entrambe le affermazioni derivano da un fondamentale fraintendimento dell'essenza dell'inflazione. Per questo facciamo riferimento a Mises, il quale descrisse il fenomeno nel modo seguente: "L'inflazione è un aumento della quantità di denaro senza un corrispondente aumento della domanda di denaro".

Per Krugman, l'inflazione deriva dall'interazione di due fonti:

  1. ritorno della domanda dei consumatori catalizzata dallo stimolo fiscale;
  2. problemi nelle supply chain esacerbati da un'uscita in massa di lavoratori dalla forza lavoro, definita la "grande rassegnazione".

La sua analisi è tecnicamente corretta, ma grossolanamente fuorviante. Krugman non menziona come il suo primo punto sia causale del secondo. Il forte stimolo fiscale e gli effetti dei lockdown hanno contribuito a riduzioni drammatiche della partecipazione alla forza lavoro, che sin da allora non si è ripresa.

I consumatori statunitensi lavorano meno e spendono di più, effetti di lockdown e stimoli. Ciò si riflette fortemente nel disavanzo commerciale delle merci degli Stati Uniti, che ha raggiunto il massimo storico di $96,3 miliardi a settembre dello scorso anno. Tuttavia, nonostante i massicci incentivi al lavoro, la partecipazione alla forza lavoro rimane di quasi il 3% inferiore rispetto a gennaio 2020. Infatti i dati attuali suggeriscono che il tasso di partecipazione alla forza lavoro si è stabilizzato ben al di sotto dei livelli pre-Covid. Si noti inoltre che la politica monetaria non è menzionata da nessuna parte nell'analisi di Krugman.

In un mondo normale salari più alti, massicci incentivi al lavoro e picchi di mercato giustificherebbero l'aumento dei tassi d'interesse. Tuttavia, per la Federal Reserve, che continua ad inondare i mercati di liquidità, l'attuale nozione di un aumento dei tassi d'interesse è inverosimile.

I mercati obbligazionari prezzano il prossimo rialzo dei tassi d'interesse una volta che i programmi di allentamento quantitativo saranno completamente eliminati. I programmi di QE verranno ridotti ad un ritmo di $15 miliardi al mese dall'attuale livello mensile di $120 miliardi ($80 miliardi per titoli del Tesoro USA e $40 miliardi per titoli garantiti da ipoteca). A tal ritmo i programma di QE verrebbero completamente eliminati in otto mesi. Tuttavia non ci sono prove che questa eliminazione del QE sia certa.

Nel 2008 la FED fece osservazioni simili sulla liquidazione degli acquisti di asset e indipendentemente da ciò tra novembre 2008 e settembre 2012 vennero intrapresi quattro giri di QE prima che si concludessero definitivamente. In realtà quest'ultimo giro di QE è molto più forte che mai, poiché la spesa incentivata sta diventando sempre più un fattore normale. I mercati dovrebbero quindi prendere con le pinze ciò che dice la FED.

È importante sottolineare che la riduzione graduale degli acquisti di obbligazioni da parte della FED non abbasserà l'inflazione, ma abbasserà invece il ritmo di aumento dell'inflazione dei prezzi. Gli acquisti di obbligazioni sono cumulativi e quindi ogni acquisto si aggiunge all'offerta di denaro complessiva; abbassare il ritmo di questi acquisti non rallenterà l'inflazione, anzi significa semplicemente che si inflazionerà ad un ritmo più lento: i prezzi continueranno a salire.

Se la FED prendesse sul serio il rallentamento dell'inflazione, non solo smetterebbe di acquistare completamente le obbligazioni, ma si impegnerebbe anche in una loro vendita per ridurre il suo bilancio senza precedenti che vanta oltre $8.000 miliardi in attivi, i quali rappresentano più di un terzo del prodotto interno lordo (PIL).

Krugman indica anche un altro motivo per cui potremmo assistere all'inflazione oggi: la domanda finale reale è aumentata del 2,6% negli ultimi due anni; quindi anche aggiustato agli effetti inflazionistici, le persone consumano più di quanto non consumassero prima del Covid.

Anche così la sua affermazione secondo cui è più probabile che l'inflazione sia transitoria continua ad essere infondata. In rapporto al PIL, nel terzo trimestre del 2021 le spese per consumi personali si aggiravano intorno al massimo storico del 68,8%. Al contrario, i tassi di risparmio personale sono crollati ai livelli del 2019: 7,5% dopo che erano inizialmente saliti sulla scia dello stimolo fiscale. Questo, ovviamente, ha senso nell'era dei tassi d'interesse ultra bassi. Tutte le aspettative suggeriscono che i tassi d'interesse dovrebbero rimanere vicini a questi minimi storici, anche se verranno attuati rialzi marginali. Al contrario all'analisi di Krugman, ciò dovrebbe aumentare le pressioni inflazionistiche a lungo termine, non invertirle.

Consideriamo infine il Producer Price Index (PPI) che misura i costi della produzione nazionale nel tempo. Prima del Covid l'indice era di poco inferiore ai duecento punti; oggi quella cifra è superiore di circa il 20%, a 240 punti.

Il significato del PPI non può essere sottovalutato. Uno dei motivi per cui l'indice dei prezzi al consumo (IPC), che arriva "solo" al 7%, ed il PPI possono essere così diversi è che i consumatori statunitensi stanno importando da altri Paesi, mantenendo così i loro costi più bassi, da qui l'aumento del deficit commerciale. Il costo di ciò, tuttavia, si rifletterà nel PIL reale, parametro che cala ma mano che i disavanzi commerciali salgono invece.

Con un PPI in aumento, le esportazioni statunitensi diventeranno meno competitive rispetto alle importazioni. Pertanto il valore reale delle esportazioni, aggiustato all'inflazione, è calato drasticamente, di quasi $250 miliardi dall'inizio del 2020, nonostante gli ingenti sussidi governativi ai produttori ed i $500 miliardi di prestiti concessi nel CARES Act alle aziende.

Nel contesto più ampio della bilancia commerciale statunitense, con importazioni in aumento ed esportazioni in calo, il disavanzo commerciale degli Stati Uniti è ad un record pluriennale di circa $81 miliardi.

Ora è più chiaro come il tasso d'inflazione dell'IPC è sottostimato a causa di un crescente squilibrio commerciale tra il mercato statunitense e quello globale. Una volta che questa pressione sarà alleviata, attraverso il calo del PIL reale e l'indebolimento del dollaro USA, l'IPC probabilmente raggiungerà i numeri del PPI. Nel breve e lungo termine, le importazioni estere non possono finanziare all'infinito il consumo eccessivo, pertanto l'inflazione futura potrebbe non solo essere persistente ma rafforzarsi, poiché l'accesso di importazioni a basso costo dovrà diminuire con un dollaro più debole.

Se davvero l'inflazione osservata oggi fosse in gran parte dovuta a strozzature nelle catene di approvvigionamento, non sarebbe d'accordo con i crescenti disavanzi commerciali. Infatti i consumatori statunitensi acquisterebbero invece prodotti statunitensi che hanno meno dipendenza logistica dalle catene di approvvigionamento globali rispetto alle importazioni. E questo non è chiaramente il caso.

Per riassumere l'andamento dell'inflazione presentato in questo articolo:

  1. L'economia statunitense consuma di più e produce di meno;
  2. I consumatori stanno importando da altri Paesi per colmare il divario tra maggiori consumi e minore produzione;
  3. I prezzi alla produzione sono saliti alle stelle, ma poiché i consumatori stanno diventando sempre più dipendenti dalle importazioni, l'entità di questo aumento non è immediatamente visibile nell'IPC;
  4. L'aumento dei disavanzi commerciali ridurrà il PIL degli Stati Uniti ed eroderà il potere d'acquisto del dollaro USA;
  5. La FED può eliminare gli acquisti di obbligazioni dopo alcuni mesi, tuttavia ciò non abbasserà l'inflazione ma la farà solo salire ad un ritmo inferiore.

Per Krugman questi fattori sono irrilevanti. Eppure questo è esattamente il motivo per cui le sue previsioni passate non sono state in grado di misurare adeguatamente l'inflazione. Una volta considerate queste variabili precedentemente mancanti, la sua analisi dovrebbe avere un approccio basato più sui principi: cioè l'offerta di denaro è aumentata drammaticamente, mentre la domanda non è riuscita a tenere il passo.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


1 commento:

  1. Inflazione e deflazione sono fenomeni di mercato, effetti di corsi d'azione precedenti, che sono scevri da qualsivoglia moralità. Ci sono perché innescati. In un'economia di mercato sono una determinazione volontaria e genuina. I problemi sorgono nel momento in cui entrambi i fenomeni avvengono in un'economia manipolata, o peggio di comando/controllo. In tal caso la loro esistenza è artificiale e, così come il giorno segue la notte, la forzatura di un fenomeno scatenerà successivamente la comparsa dell'altro che è stato volutamente soppresso.

    Nell'ambiente economico attuale la pressione inflazionistica è vero che è figlia di fattori legati all'offerta, ma è altrettanto vero che è legata soprattutto a fattori legati all'offerta. Se pensiamo agli ultimi due anni in particolar modo, notiamo una certa accelerazione: dal lato della domanda abbiamo avuto le chiusure, i problemi di logistica ed il panico dei consumatori; ma dal lato dell'offerta abbiamo un bilancio della BCE arrivato a €8000 miliardi, denaro a profusione attraverso il welfare state, variazioni significative nelle cifre delle offerte di denaro più ampie e debiti pubblici alle stelle. La morale della favola non poteva che essere inflazione dei prezzi.

    Impedire una compensazione salutare del suo fenomeno di controparte, spingendo ancora di più sul pedale dell'inflazione come continuano a fare stati (deficit) e banche centrali (stampa di denaro), è la pistola fumante di una volontà precisa di prediligere artificialmente uno dei due fenomeni sopraccitati. Ma è colpa dell'inflazione o di una deflazione successiva? No. Sarebbe come incolpare il ciclo giorno/notte per i propri insuccessi. È la spinta per uno o l'altro fenomeno da parte di un market maker, nel nostro caso stati e banche centrali, a causare scompensi, disequilibri ed errori economici da ripulire, oltre ai crescenti danni che osserviamo oggi.

    RispondiElimina