mercoledì 26 ottobre 2022

L'interventismo statale nei tassi di cambio internazionali: il Giappone come caso di studio

 

 

di Mihai Macovei

Il recente e pesante deprezzamento dello yen al minimo degli ultimi ventiquattro anni rispetto al dollaro ha sollevato non poche sopracciglia visto il ruolo storico della valuta giapponese come rifugio sicuro in tempi di turbolenze. Il calo dello yen era già iniziato quando le principali banche centrali avevano segnalato una politica monetaria restrittiva per combattere l'inflazione, mentre la Bank of Japan (BoJ) ha raddoppiato sulla sua politica monetaria accomodante e sull'obiettivo zero per i rendimenti obbligazionari a dieci anni. Il deprezzamento è ulteriormente accelerato quando i prezzi del petrolio e del gas sono aumentati, indebolendo le ragioni di scambio del Giappone.

Gli analisti mainstream si sono preoccupati della caduta dello yen e del suo impatto negativo sui prezzi all'importazione e sui consumi, ma hanno raccomandato alla BoJ di continuare la sua politica monetaria estremamente accomodante al fine di rilanciare l'economia e sostenere la crescita. Ciò che questi analisti non riescono a cogliere è che in una prospettiva a più lungo termine, il valore dello yen rispetto ad altre valute è ancorato ai fondamentali economici guidati dagli sviluppi monetari e dal suo potere d'acquisto.

Dal forte apprezzamento dello yen in seguito all'Accordo del Plaza nel 1985, la valuta ha mantenuto la sua forza relativa rispetto al dollaro nonostante le politiche fiscali e monetarie ultra accomodanti del Giappone. Questo perché la creazione di denaro è proseguita a un ritmo più lento in Giappone che negli Stati Uniti, poiché l'Accordo del Plaza aveva inaugurato i decenni perduti dal Giappone, illustrando bene quanto possano essere dirompenti gli interventi statali sui mercati delle valute.


L'Accordo del Plaza

Per più di tre decenni, dopo il suo improvviso apprezzamento a seguito dell'Accordo del Plaza nel 1985 (Grafico 1), lo yen ha seguito un andamento stabile rispetto al dollaro. L'Accordo del Plaza tra i paesi del G-5 (Stati Uniti, Germania Ovest, Francia, Giappone e Regno Unito) aveva segnato il primo grande esperimento di cooperazione monetaria internazionale per rivalutare il sistema dei tassi di cambio.

Per volere degli Stati Uniti, che volevano svalutare il dollaro e ridurre il deficit commerciale, le cinque banche centrali decisero d'intervenire sui mercati delle valute per riequilibrare il commercio internazionale e la crescita. La sopravvalutazione percepita del dollaro era stata il risultato di tassi d'interesse relativamente alti promossi dalla FED nel 1980-82 per reprimere l'inflazione, combinati con una politica fiscale espansiva di Ronald Reagan nel 1981-84, la quale causò afflussi di capitali e un apprezzamento del dollaro.

Gli elevati disavanzi di bilancio insieme alla vivace domanda interna gonfiarono il disavanzo commerciale, producendo i famosi "deficit gemelli" degli anni '80. In realtà il problema non era il tasso di cambio, ma la dissolutezza fiscale statunitense e l'eccessiva espansione dell'offerta di denaro, che superava il 12% nel 1983. Invece di fissare politiche interne, il governo degli Stati Uniti convinse Giappone e Germania a manipolare i loro tassi di cambio e ad aumentare la domanda interna. Come affermò Ludwig von Mises: "Ciò che gli stati chiamano cooperazione monetaria internazionale è un'azione concertata per il bene dell'espansione del credito".

Grafico 1: tasso di cambio spot yen giapponese/dollaro statunitense

A seguito d'interventi concertati delle banche centrali, lo yen si apprezzò da circa 240 unità per dollaro nel settembre 1985 a 153 unità nel 1986. Nel 1988 lo yen era quasi raddoppiato di valore a un tasso di cambio di 120 unità per dollaro. Molte analisi, comprese le relazioni del Fondo monetario internazionale, concordano sul fatto che il significativo apprezzamento dello yen gettò i semi per la successiva debacle economica di lunga durata del Giappone.

Nella prima metà del 1986, quando le esportazioni giapponesi crollarono a seguito dell'apprezzamento dello yen, l'economia entrò in recessione. Le vendite di dollari da parte della BoJ compressero ulteriormente l'offerta di denaro e la domanda interna. Le autorità reagirono in modo esagerato e introdussero un considerevole stimolo macroeconomico, tagliando i tassi d'interesse cinque volte, per un totale di 3 punti percentuali, fino al 1989. Un ampio pacchetto fiscale venne introdotto nel 1987, anche se l'economia era già in ripresa. La crescita del credito quindi aumentò, alimentando un boom del mercato azionario e immobiliare che esplose all'inizio del 1990 e innescò quasi tre decenni di pessime prestazioni economiche.


Gli sviluppi monetari hanno mantenuto lo yen forte

Invece di consentire a una recessione curativa di liquidare gli investimenti errati del boom della fine degli anni '80, il Giappone raddoppiò la posta in gioco con gli stimoli alla crescita, i quali hanno eroso lo stock di capitale, la produttività del lavoro e i salari reali, portando quindi a una stagnazione economica di lunga durata. Sulla base delle politiche monetarie e fiscali estremamente accomodanti del Giappone, ci si sarebbe aspettati un indebolimento dello yen.

Gli stimoli alla crescita hanno tenuto in vita le società zombi e le banche crivellate da asset deteriorati, riducendo drasticamente la crescita del credito. Inoltre i deflussi di capitali privati sono saliti a causa dell'elevata incertezza economica alimentata dalle politiche anti-mercato dello stato, intaccando ulteriormente la creazione di denaro. Anche se il bilancio della BoJ è salito parecchie volte di più rispetto a quello dei suoi omologhi a causa degli acquisti aggressivi di asset (Grafico 2), l'aumento complessivo dell'offerta di denaro (M3) è rimasto molto contenuto rispetto agli Stati Uniti e all'area Euro (Grafico 3). Pertanto la crescita più lenta dell'offerta di denaro in Giappone spiega sia la forza relativa dello yen dopo il suo forte episodio di apprezzamento, sia l'inflazione contenuta in Giappone. In una prospettiva a più lungo termine, le improvvise preoccupazioni del mainstream circa un drammatico indebolimento dello yen sembrano fuori luogo, in particolare se combinate con la raccomandazione incoerente che la BoJ si attenga alla sua politica monetaria accomodante.

Grafico 2: Dimensioni del bilancio della Bank of Japan rispetto ad altre banche centrali. Fonte: Borrallo Egea e del Río López, Banco de España.

Grafico 3: Crescita dell'offerta di moneta (M3) in Giappone rispetto a USA e area euro. Nota: al fine di riflettere meglio le variazioni delle parità di potere d'acquisto, che sono il motore chiave delle parità di cambio, la crescita di M3 è stata deflazionata dalla crescita del PIL reale.


L'Accordo del Plaza e il deficit commerciale degli Stati Uniti

In che misura gli interventi del Plaza hanno risolto il deficit commerciale degli Stati Uniti? Il disavanzo commerciale degli Stati Uniti ha continuato a crescere nel 1986 e nel 1987 e si è ridotto solo in seguito, alimentando lo scetticismo sull'impatto positivo dell'Accordo. In "Plaza Accord, 30 Years Later", Jeffrey Frankel ammette che gli stati non sono in grado di modificare il tasso di cambio per un lungo periodo senza un corrispondente cambiamento dei fondamentali, ma sostiene che gli interventi sui tassi di cambio possono essere efficaci nel breve termine, in particolare se modellano le aspettative del mercato e sono coordinate tra le principali banche centrali come lo erano nel 1985.

Pertanto Frankel ritiene che gli interventi dell'Accordo del Plaza si siano rivelati utili nel ridurre sia il dollaro sopravvalutato sia il deficit commerciale, ma solo con un ritardo di due anni. Eppure questa spiegazione ignora il fatto che l'economia statunitense abbia rallentato considerevolmente dopo il crollo del mercato azionario nell'ottobre 1987 e alla fine è finita in recessione nel 1990.

Inoltre anche il disavanzo di bilancio si è ridotto dopo il 1987, indicando un rallentamento della creazione di denaro. Infatti il tasso di crescita annuale dell'aggregato monetario M3 è notevolmente decelerato da un picco del 12,2% nel 1983 all'8,9% nel 1985 e al 4,1% nel 1989 (Grafico 4). Ciò illustra molto bene l'intuizione di Mises e Murray Rothbard secondo cui la bilancia dei pagamenti è guidata da cambiamenti intenzionali nei saldi di cassa delle persone e non è "sfavorevole" se c'è una fuga d'oro, ipotesi che in realtà è un errore mercantilista.

Un deficit commerciale riflette una riduzione volontaria della quantità di denaro detenuta dalla popolazione a favore dell'acquisto di beni e servizi, o riflette una politica inflazionistica interna che aumenta i redditi nominali dei cittadini. Nel caso degli Stati Uniti, lo status del dollaro come principale valuta di riserva mondiale consente l'uso dell'espansione fiscale e monetaria per finanziare i disavanzi commerciali in modo relativamente semplice, con il dollaro meno incline al deprezzamento rispetto ad altre valute fiat. Un'accelerazione nella creazione di denaro può aumentare il deficit commerciale e viceversa, il che non implica che il dollaro sia sopravvalutato dai mercati e che gli stati debbano intervenire per aggiustare la parità di cambio.


Conclusione

Il tasso di cambio di equilibrio tra due valute è dato dalla loro parità di potere d'acquisto, cioè dal rapporto tra il potere d'acquisto di ciascuna in termini di altri beni economici. Qualsiasi tentativo di spostare il tasso di cambio dal suo valore di mercato attraverso l'intervento statale rischia di essere annullato dall'arbitraggio di mercato, il quale ripristina il tasso di cambio alla sua parità di potere d'acquisto. Quando gli stati utilizzano le leve della politica monetaria per aggiustare i tassi d'interesse e l'offerta di denaro, può verificarsi un cambiamento duraturo nel valore della valuta. In questo caso, la variazione dei tassi di cambio rispecchia il movimento dei prezzi interni e altera la bilancia commerciale, come spiegò Mises. Tuttavia gli interventi di politica monetaria introducono altre distorsioni nell'economia, le quali possono avere gravi conseguenze economiche, come illustrato dai decenni perduti dal Giappone dopo l'Accordo del Plaza.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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