martedì 10 dicembre 2024

Distruggere la distruzione creativa: il DMA contro l'innovazione

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Il manoscritto fornisce un grimaldello al lettore, una chiave di lettura semplificata, del mondo finanziario e non che sembra essere andato "fuori controllo" negli ultimi quattro anni in particolare. Questa è una storia di cartelli, a livello sovrastatale e sovranazionale, la cui pianificazione centrale ha raggiunto un punto in cui deve essere riformata radicalmente e questa riforma radicale non può avvenire senza una dose di dolore economico che potrebbe mettere a repentaglio la loro autorità. Da qui la risposta al Grande Default attraverso il Grande Reset. Questa è la storia di un coyote, che quando non riesce a sfamarsi all'esterno ricorre all'autofagocitazione. Lo stesso è accaduto ai membri del G7, dove i sei membri restanti hanno iniziato a fagocitare il settimo: gli Stati Uniti.

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di Siamak Etefagh

Nel panorama in continua evoluzione della teoria e della politica economica, pochi concetti sono stati talmente influenti e controversi come la “distruzione creativa” di Joseph Schumpeter. Questa potente idea, che descrive il processo mediante il quale l'innovazione rimodella continuamente i mercati, è una sfida alla saggezza convenzionale sulla concorrenza, i monopoli e il ruolo dell'intervento statale. Mentre ci confrontiamo con le complessità dell'era digitale, la tensione tra distruzione creativa e quadri normativi, come le leggi antitrust e il Digital Markets Act (DMA) dell'Unione Europea, è diventata sempre più evidente.

La distruzione creativa, come articolata da Schumpeter nella sua opera del 1942 “Capitalism, Socialism And Democracy”, ​​si riferisce al “processo di mutazione industriale che rivoluziona incessantemente la struttura economica dall'interno, distruggendo quella vecchia e creandone una nuova”. Questa forza dinamica alimenta il progresso economico sostituendo continuamente tecnologie, modelli aziendali e industrie obsoleti con altri più innovativi ed efficienti. A differenza dei modelli economici tradizionali che enfatizzano l'equilibrio statico e la concorrenza sui prezzi, la visione di Schumpeter ritrae il capitalismo come un sistema in perpetuo flusso, dove il motore reale della crescita non è l'ottimizzazione delle strutture esistenti ma la loro trasformazione.

Le implicazioni della distruzione creativa per il diritto antitrust sono profonde dato che essa, radicata nell'economia neoclassica, considera la concentrazione delle aziende e il potere monopolistico come dannosi per il benessere dei consumatori. Questa prospettiva ha portato a un approccio normativo che cerca di mantenere un panorama “competitivo” smembrando le grandi aziende e impedendo le fusioni che potrebbero portare al predominio. Attraverso la lente della distruzione creativa, però, questo approccio può essere fuorviante e persino controproducente.

Schumpeter sosteneva che i monopoli temporanei, lungi dall'essere dannosi per l'innovazione, potrebbero in realtà favorirla. Le grandi aziende con un potere di mercato significativo sono spesso meglio posizionate per investire in ricerca e sviluppo a lungo termine, assumendosi rischi che i concorrenti più piccoli non possono permettersi. Le rendite di “monopolio” di cui godono queste aziende forniscono sia l'incentivo sia i mezzi per perseguire innovazioni rivoluzionarie. Pensando esclusivamente alla concentrazione delle aziende e agli effetti sui prezzi a breve termine, la legge antitrust soffoca proprio quel dinamismo che presumibilmente cerca di promuovere.

Inoltre la visione schumpeteriana suggerisce che il dominio sui mercati è spesso transitorio, minacciato costantemente dalla prossima ondata di innovazione dirompente. Il “monopolista” di oggi potrebbe essere la reliquia obsoleta di domani, resa irrilevante da una startup con un'idea rivoluzionaria. Gli interventi antitrust, in quest'ottica, rischiano di interrompere il ciclo naturale della distruzione creativa, preservando gli operatori storici inefficienti a spese degli innovatori emergenti.

La documentazione storica è piena di esempi di settori trasformati, non dall'intervento statale, ma da outsider innovativi che hanno sconvolto interi mercati. Dall'avvento dell'automobile, che ha decimato l'industria delle carrozze trainate da cavalli, all'ascesa dei giganti dell'e-commerce che hanno rivoluzionato il commercio al dettaglio, i progressi più significativi sono arrivati non da aggiustamenti normativi, ma da imprenditori audaci disposti a sfidare lo status quo.

È in questo contesto di competizione dinamica e distruzione creativa che dobbiamo considerare il Digital Markets Act (DMA) dell'Unione Europea, un eccesso di regolamentazione che rappresenta l'apice di un interventismo mal guidato. Lungi dal promuovere l'innovazione o proteggere i consumatori, il DMA minaccia di calcificare l'economia digitale, soffocando le stesse forze che hanno guidato un progresso tecnologico senza precedenti e il beneficio per i consumatori.

La premessa fondamentale del DMA, secondo cui le grandi piattaforme digitali devono essere limitate per garantire una concorrenza leale, è profondamente imperfetta, come già discusso in precedenza. Presuppone che i burocrati di Bruxelles possiedano l'onniscienza per determinare cosa sia “equo” nel panorama digitale in rapida evoluzione. Questa arroganza non è solo fuori luogo, è soprattutto pericolosa. Imponendo una serie di regolamenti ex ante alle cosiddette piattaforme “gatekeeper”, il DMA rischia di strangolare l'innovazione nella culla.

Il divieto imposto dalla legge su pratiche come l'auto-preferenza tradisce una profonda ignoranza del funzionamento degli ecosistemi digitali. L'integrazione di servizi e funzionalità è spesso il meccanismo tramite cui le piattaforme creano valore per i consumatori. Imponendo separazioni artificiali, il DMA priva gli utenti di sinergie ed efficienze vantaggiose. L'ironia è palpabile: nel suo tentativo di promuovere la concorrenza, il DMA riduce la qualità e l'utilità dei servizi digitali per milioni di europei.

L'approccio dannoso del DMA è ulteriormente esemplificato dalla sua insistenza sull'interoperabilità tra piattaforme. Questo requisito, lungi dal promuovere la concorrenza, minaccia di omogeneizzare i servizi digitali e soffocare l'innovazione. Costringendo le piattaforme di successo ad aprire i loro ecosistemi attentamente realizzati ai concorrenti, il DMA mina la differenziazione stessa che guida il progresso nel settore tecnologico. L'interoperabilità può sembrare allettante in teoria, ma in pratica può portare a una corsa al ribasso in termini di funzionalità e sicurezza. Ignora il fatto che gli ecosistemi chiusi spesso forniscono esperienze utente superiori e protezioni della privacy più forti. Inoltre l'interoperabilità obbligatoria può cementificare la presenza dei player dominanti riducendo i costi di commutazione e diminuendo l'incentivo per gli utenti a ricercare piattaforme alternative.

Forse il fatto più eclatante è che l'approccio univoco del DMA alla regolamentazione dei “gatekeeper” non riesce a tenere conto della natura sfumata e sfaccettata dei mercati digitali. Aziende come Amazon e Google operano in settori diversi, fondendo i regni digitali e fisici in modi che sono ardui da categorizzare in modo semplicistico. Cercare di infilare a forza queste entità complesse in rigidi quadri normativi è futile e può solo portare a conseguenze indesiderate e a perdite di opportunità nel campo dell'innovazione.

I sostenitori del DMA affermano di voler proteggere le piccole imprese e i potenziali concorrenti, ma la realtà è molto più insidiosa. Imponendo onerosi costi di conformità e restrizioni operative alle piattaforme di successo, l'atto stesso erige barriere all'ingresso per gli aspiranti innovatori. Il risultato è una forma perversa di normativa in cui i player affermati sono isolati dalla concorrenza dalle stesse regole pensate per limitarli.

Inoltre l'attenzione del DMA sulla conservazione delle strutture di mercato esistenti fraintende la natura del progresso tecnologico. Le innovazioni più rivoluzionarie non competono solo all'interno dei mercati esistenti, ma ne creano di nuovi. Concentrandosi sul mantenimento della competizione nei paradigmi attuali, il DMA soffoca la creazione di tecnologie trasformative prim'ancora che possano emergere.

L'idea che i regolatori possano anticipare e legiferare per il futuro della tecnologia è ridicola. Se le menti più brillanti della Silicon Valley hanno difficoltà a prevedere la prossima grande svolta tecnologica, che speranza hanno i burocrati di elaborare regolamenti che non diventino obsoleti prima che l'inchiostro si asciughi?

Il DMA rappresenta un tentativo arrogante di controllare l'incontrollabile, di domare le forze selvagge dell'innovazione che hanno guidato il progresso umano per secoli. Come scrisse Ludwig von Mises in  Human Action: “Se fosse possibile calcolare la struttura del mercato futura, il futuro non sarebbe incerto. Non ci sarebbero né perdite imprenditoriali, né profitti. Ciò che le persone si aspettano dagli economisti è al di là del potere di qualsiasi essere umano”.

I sostenitori del DMA e, più in generale, della regolamentazione antitrust, spesso esprimono le loro argomentazioni in termini di tutela del consumatore e correttezza. Questa è una cortina fumogena per ciò che equivale a una pianificazione economica centralizzata e/o clientelismo sotto mentite spoglie. L'idea che i consumatori abbiano bisogno di protezione dalle stesse aziende i cui prodotti e servizi scelgono volontariamente di utilizzare è paternalistica nella migliore delle ipotesi, autoritaria nella peggiore.

In realtà la protezione più efficace per i consumatori non è la regolamentazione, ma la concorrenza; non la concorrenza artificiale immaginata dagli avvocati antitrust, ma la concorrenza dinamica e imprevedibile guidata dalla distruzione creativa. È questa forza che ha dato ai consumatori smartphone, e-commerce, motori di ricerca e innumerevoli altre innovazioni che hanno trasformato la vita moderna. Ognuno di questi progressi è arrivato non da leggi statali o quadri normativi, ma dalla ricerca incessante di prodotti e servizi migliori in un libero mercato.

La strada da seguire è chiara, anche se potrebbe risultare scomoda per coloro che sono abituati all'illusione di controllo offerta dai regimi normativi. Dobbiamo resistere al canto delle sirene della legge antitrust e respingere del tutto quegli sforzi mal concepiti come il Digital Markets Act (DMA). Dovremmo invece abbracciare il processo dinamico, spesso caotico, di distruzione creativa che ha dimostrato più e più volte di essere il vero motore del progresso.

In conclusione, il concetto di distruzione creativa espone i difetti critici sia del diritto antitrust che degli sforzi normativi moderni come il DMA. Questi interventi, lungi dal promuovere l'innovazione e proteggere i consumatori, servono solo a impedire la naturale evoluzione dei mercati e delle tecnologie. La minaccia più grande al benessere dei consumatori e al progresso economico non è il presunto potere monopolistico o la concentrazione delle aziende, ma la mano pesante della regolamentazione che soffoca lo spirito imprenditoriale che guida l'innovazione.

Mentre siamo sull'orlo di nuove rivoluzioni tecnologiche nel campo dell'intelligenza artificiale, della biotecnologia e oltre, la posta in gioco non potrebbe essere più alta. Permetteremo alle forze della distruzione creativa di spingerci verso un futuro di progresso e prosperità inimmaginabili? O soccomberemo alla presunzione fatale dei regolatori che credono di poter pianificare e controllare l'impianificabile? La scelta è nostra e le conseguenze di tale scelta si ripercuoteranno sulle generazioni a venire.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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