lunedì 18 agosto 2025

Accordo o crollo: i termini dell'accordo UE-USA erano l'unica alternativa realistica

Il panorama mondiale è cambiato. Gli anni '90 e i primi anni 2000 sono stati caratterizzati dall'ottimismo riguardo al globalismo, alla governance sovranazionale e all'integrazione senza confini: una finestra di opportunità per il “progetto europeo”. Il mondo di oggi è più frammentato, più conflittuale e più concentrato sulla sovranità nazionale. Dalla Brexit a Trump, dall'Europa orientale all'Asia, cittadini e leader stanno rivendicando l'autonomia nazionale. L'integrazione, un tempo considerata il futuro, è ora messa in discussione. Una riorganizzazione coraggiosa richiede non solo trattati, ma anche persuasione, da parte dei cittadini, non solo delle élite. E in questo clima i sistemi che non riescono a muoversi finiscono per essere lasciati indietro. Questa è la vera storia dietro l'accordo commerciale UE-USA: non si tratta solo di dazi, si tratta della differenza tra avere peso e avere forza. La “Power politics” ha sostituito la “Consensus politics”. Si continua a minimizzare la strategia di Trump, ma è un fatto che la sua comunicazione sia volutamente camaleontica e ricca di sotterfugi. Sa con che tipo di stampa ha a che fare. Ciononostante esiste un piano e può essere valutato oggettivamente su più livelli: diplomatico (accordi con i Paesi mediorientali, i “leader” delle altre nazioni che vanno alla Casa Bianca o che si recano dove sta giocando a golf e non il contrario), economico (accordo col Giappone, Apple che investe nella manifattura americana, maggiori entrate dal commercio mondiale), militare (spartiacque tra Iran-Israele, spartiacque in Siria, spartiacque tra Ucraina- Russia, lotta ai cartelli della droga). Come ha avuto modo di ricordare la Gabbard, la linea di politica di voler mettere in primo piano gli Stati Uniti non deve essere confusa con un ritiro della nazione dalle scene mondiali. Gli USA si stanno semplicemente riorganizzando e lo stanno facendo ai loro termini rispetto al passato in cui, invece, erano infiltrati da player ostili che facevano il bene di altre nazioni. Se davvero anche l'UE avesse intenzione di percorrere lo stesso percorso, in modo da resistere alla prova del tempo, dovrebbe, come minimo, seguire due indicazioni fondamentali iniziali. 1. Ricreare un flusso di capitale dinamico: non può esserci “capitalismo” senza capitale, senza fondi di venture capital. Quando NVIDIA, TSMC e altri investono centinaia di miliardi di dollari, quei fondi devono essere stati prima accumulati senza essere confiscati dallo stato a ogni passo, e i loro investitori devono credere che il loro investimento produrrà a un certo punto un profitto soddisfacente. Le moderne innovazioni tecnologiche richiedono ingenti somme di denaro, non più disponibili per la maggior parte degli europei. I risparmi europei esistono, ma confluiscono in immobili, polizze assicurative sulla vita, o nei mercati degli investimenti statunitensi. Un passaggio a sistemi pensionistici privati invece dell'attuale sistema pensionistico pubblico spingerebbe il continente nella giusta direzione. 2. Smantellare il Green Deal europeo: l'energia europea costa già cinque volte di più di quella americana. Questa singola variabile è sufficiente a giustificare l'esodo dell'industria europea verso mercati energetici più favorevoli, in particolare gli Stati Uniti. Rispetto alla crisi energetica autoinflitta dal Green Deal europeo, i dazi di Donald Trump sono solo una piccola nota a piè di pagina.

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di Daniel Lacalle

(Versione audio della traduzione disponibile qui: https://open.substack.com/pub/fsimoncelli/p/accordo-o-crollo-i-termini-dellaccordo)

Gli accordi che gli Stati Uniti hanno firmato con i loro principali partner commerciali sono positivi e realistici.

Dimostrano che, nel 2024, il mondo non era un paradiso commerciale di cooperazione spontanea tra aziende in un libero mercato, come auspicato da David Ricardo, bensì un sistema statalista pieno di barriere contro le imprese statunitensi e di sforzi politici per scegliere vincitori e vinti.

La controversia che circonda l'accordo tra Stati Uniti e Unione Europea può essere spiegata in tre motivi: l'animosità verso qualsiasi risultato dell'amministrazione Trump, l'ignoranza riguardo all'unica alternativa realistica, o il fatto che i critici dell'accordo erano sinceramente soddisfatti del protezionismo e delle barriere europee in vigore nel 2024.

I critici dell'accordo devono rispondere a due domande:

Qual era l'unica vera alternativa?

L'unica vera alternativa era il crollo delle esportazioni europee, la perdita di competitività rispetto a Giappone, Regno Unito, Corea del Sud e altri partner, una maggiore delocalizzazione delle aziende e, soprattutto, il mantenimento delle attuali barriere commerciali europee.

Cosa avrebbero fatto i critici?

I critici devono spiegare come avrebbero potuto raggiungere accordi presumibilmente migliori quando i leader mondiali dell'export hanno firmato accordi come quello dell'Unione Europea. Devono condividere con noi quelle informazioni in loro possesso che i negoziatori dell'UE non hanno, permettendo quindi a questi ultimi di ottenere condizioni migliori rispetto a Giappone, Regno Unito, Corea del Sud, Indonesia, Vietnam, Filippine, Arabia Saudita, Qatar, Australia, Cina e altri. È ragionevole pensare che i negoziatori dell'UE siano stati stupidi, o imprudenti, e non abbiano valutato tutte le opzioni per raggiungere un accordo vantaggioso?

Affermare che l'accordo con gli Stati Uniti sia dannoso equivale a difendere le barriere commerciali del suo principale partner globale, come se fossero meravigliose e dovessero essere preservate. Ciò deriva anche da una visione fantasiosa del commercio globale, che immagina che il mercato statunitense possa essere sostituito da altri.

Quel che è peggio è che alcuni credono che tutto questo sia colpa di Trump – una delle posizioni preferite nelle analisi economiche odierne – e che tra quattro anni un presidente democratico o uno repubblicano più moderato riporteranno tutto come era nel 2024. Questa è una visione errata. Biden ha mantenuto tutti i dazi delle amministrazioni Trump e Obama, e ne ha aumentati diversi.

Perché non si è levato lo stesso polverone quando l'UE ha introdotto barriere commerciali, o quando i presidenti democratici hanno introdotto dazi? L'indignazione spesso nasconde pregiudizi contro Trump e trascura opportunamente la persistente imposizione di nuove barriere da parte dell'Europa sui prodotti statunitensi. Perché non si è levato un clamore per i dazi dell'UE su prodotti chimici, agricoltura, bestiame, automobili e attrezzature manifatturiere statunitensi, o per l'Agenda 2030, il New Green Deal, la tassa sulla CO₂ e tutta la costante regolamentazione europea? C'è voluto Draghi per ricordarci che l'UE impone più dazi nascosti di quanti ne impongano gli Stati Uniti.

Molti sostengono che se l'UE e altri Paesi istituissero barriere commerciali, la risposta degli Stati Uniti dovrebbe essere quella di rimuovere, non aggiungere, dazi. Ciò sembra vantaggioso in teoria, ma non prende in considerazione il quadro geopolitico, monetario e commerciale completo. Gli Stati Uniti non solo perderebbero in termini di produzione e di ruolo del dollaro con deficit commerciali eccessivi, ma finirebbero anche per assorbire la sovracapacità produttiva e sovvenzionare i problemi di capitale circolante di altri Paesi. Il deficit commerciale americano non deriva dalla cooperazione di libero mercato, ma in gran parte dalle barriere imposte politicamente alle aziende statunitensi. Per questo motivo molti Paesi preferirebbero un dazio del 15% alla rimozione di tutte le barriere non tariffarie.

Non possiamo ignorare le barriere tariffarie e non tariffarie che sono state esplicitamente istituite per escludere i prodotti statunitensi, le quali vengono poi utilizzate a vantaggio di Paesi politicamente collegati, come la Turchia o il Marocco, nei confronti dell'UE, o persino la Cina.

Il numero di settori a dazi zero è chiaramente positivo e si prevede che l'elenco aumenterà nel tempo. Anche l'eliminazione di alcune barriere non tariffarie dell'UE è un risultato positivo e in linea con le raccomandazioni della relazione Draghi.

Accettando un dazio del 15% invece di eliminare tutte le barriere non tariffarie, i partner commerciali degli Stati Uniti ammettono che preferirebbero pagarne il costo piuttosto che rinunciare al potere normativo e riconoscono che non esiste un modo semplice per sostituire il consumatore statunitense.

È anche disonesto affermare che acquistare energia americana sia più costoso che acquistare energia russa. Tali argomentazioni rivelano l'enorme parzialità e contraddizione, soprattutto considerando le importazioni europee record di GNL russo nel 2024. Questo accordo contribuisce a diversificare l'approvvigionamento e garantisce la sicurezza durante i periodi di crisi.

Alcuni organi di stampa hanno travisato la componente relativa agli equipaggiamenti militari dell'accordo. È falso che esso imponga all'UE di acquistare solo equipaggiamenti militari statunitensi. Si tratta di due argomenti distinti ed esso non riduce gli investimenti nelle aziende europee. L'impegno è positivo per i piani di riarmo dell'UE e non compromette i progetti di investimento nazionali.

Gli analisti keynesiani europei, che hanno osservato silenziosamente massicci aumenti delle tasse e aumenti dei costi del lavoro di oltre il 50%, non possono affermare che un dazio del 15% sia devastante quando solo di recente hanno insistito sul fatto che dazi del 30% avrebbero avuto un impatto minimo. Le stime di consenso indicavano che l'impatto per l'UE sarebbe stato solo tra lo 0,3% e lo 0,5% in tre anni. La BCE e altre istituzioni hanno descritto gli effetti come “gestibili”, “sopportabili” e con un impatto limitato sull'inflazione.

Il consenso keynesiano non può, da un lato, affermare che un dazio del 30% avrebbe un impatto limitato e sopportabile e un effetto inflazionistico minimo, e poi, qualche mese dopo, insistere che un dazio del 15% sarebbe disastroso. Questo non fa che rafforzare la narrazione secondo cui qualsiasi accordo raggiunto da Trump sarebbe necessariamente dannoso.

L'UE avrebbe potuto negoziare l'azzeramento dei dazi se avesse accettato di eliminare tutte le barriere non tariffarie; invece ha scelto un compromesso per mantenere gran parte del suo quadro normativo. In ogni caso, questo risultato è molto più favorevole rispetto alla perdita del surplus commerciale e dell'accesso al mercato statunitense. Pertanto l'UE non “ci perde”; accetta invece un dazio modesto, simile a quello di Giappone, Regno Unito e Corea del Sud, perché preferisce mantenere la maggior parte delle sue barriere non tariffarie.

L'alternativa davvero devastante sarebbe stata quella di perdere quote di mercato a favore di altri Paesi e di mantenere barriere che perpetuano la stagnazione economica europea, per non parlare della perdita di un accordo chiave per la difesa, la tecnologia e l'energia.

Tutti traggono vantaggio dagli accordi che stabiliscono un quadro commerciale più equo e aperto rispetto a quello esistente nel 2024. Stime prudenti stimano il beneficio per l'UE a circa €150 miliardi all'anno, supponendo il rispetto degli impegni.

Sia gli Stati Uniti che l'Unione Europea traggono vantaggio da un accordo che rafforza i legami commerciali, corregge un deficit commerciale ingiusto, rimuove le barriere e aumenta il numero di settori a dazi zero. Inoltre entrambe le parti ottengono un'alleanza cruciale nei settori della difesa, dell'energia e della tecnologia, il tutto senza limitare gli investimenti nelle rispettive industrie nazionali.

L'unica vera alternativa era la mancanza di un accordo, che avrebbe rovinato l'economia e il commercio dell'UE. I negoziatori europei e americani hanno riconosciuto questa situazione e hanno raggiunto con successo un accordo significativo che ha portato benefici a entrambe le parti.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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