mercoledì 18 agosto 2010

Anatomia dello Stato #1

Altro saggio di Rothbard che analizza ai raggi X l'intero apparato statale, individuando precisamente i vari punti che lo rendono un vizio per pochi ed una sciagura per molti. Come, quindi, può questa struttura essere "l'apice" della nostra cultura? Qualcuno ha lavorato molto di propaganda? Ulteriori parole sarebbero superflue, a voi la lettura.

Prima parte di tre.
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di Murray N. Rothbard


Quello che lo Stato non è

Lo Stato è quasi universalmente considerato un’istituzione di servizio sociale. Alcuni teorici venerano lo Stato come l’apoteosi della società; altri lo considerano un’organizzazione apprezzabile, anche se spesso inefficiente, per raggiungere scopi sociali; ma quasi tutti lo considerano un mezzo necessario per raggiungere gli scopi dell’umanità, un mezzo da schierare contro il “settore privato” e spesso vincitore in questa competizione di risorse. Con l’ascesa della democrazia, l’identificazione dello Stato con la società è stata raddoppiata, tanto che è comune ascoltare l’espressione di sentimenti che violano quasi ogni principio di ragione e di senso comune quali “il governo siamo noi”. L’utile termine collettivo “noi” ha reso possibile che un travestimento ideologico fosse gettato sulla realtà della vita politica. Se “il governo siamo noi”, allora qualunque cosa un governo faccia ad un individuo non solo è giusta e tutt’altro che tirannica ma anche “volontaria” da parte dell’individuo interessato. Se il governo si è gravato di un ingente debito pubblico che deve essere pagato tassando un gruppo per il beneficio di un altro, la realtà di questo gravame è oscurata dicendo che “siamo debitori di noi stessi”; se un governo chiama alla leva un uomo, o lo manda in prigione per dissenso d’opinione, allora “lo sta facendo a se stesso” e quindi nulla di deplorevole è accaduto. Secondo questo ragionamento, tutti gli ebrei uccisi dal governo nazista non furono uccisi; al contrario, essi devono essersi “suicidati”, poiché il governo erano loro (un governo democraticamente scelto), e quindi qualunque cosa il governo facesse loro era volontaria da parte loro. Si potrebbe pensare che non sia necessario insistere su questo punto, e tuttavia la schiacciante maggioranza della gente sostiene, in minore o maggior misura, questa credenza errata.

Dobbiamo quindi sottolineare che “noi” non siamo il governo; il governo non è “noi”. Il governo, in nessun senso preciso, “rappresenta” la maggioranza del popolo[1]. Ma, anche se così fosse, anche se il 70 per cento del popolo decidesse di uccidere il restante 30 per cento, ciò sarebbe ancora un omicidio e non un suicidio volontario da parte della minoranza trucidata[2]. A nessuna metafora organicistica, a nessuna banale e irrilevante osservazione che “noi siamo tutti parte l’uno dell’altro”, deve esser concesso di oscurare questo fatto basilare.

Se quindi lo Stato non è “noi”, se non è “la famiglia umana” radunata per decidere dei problemi reciproci, se non è la riunione di una loggia o di un circolo sportivo, che cos’è? In breve, lo Stato è quell’organizzazione della società che tenta di mantenere un monopolio nell’uso della forza e della violenza in una data area territoriale; in particolare, è la sola organizzazione nella società che ottiene le sue entrate non con contributi volontari o in pagamento di servizi resi ma con la coercizione. Mentre gli altri individui o istituzioni ottengono il loro reddito con la produzione di beni e servizi e con la pacifica e volontaria vendita di questi beni e servizi agli altri, lo Stato ottiene il suo reddito con l’uso della costrizione, cioè con l’uso e la minaccia della prigione e delle baionette[3]. Avendo usato la forza e la violenza per ottenere il suo reddito, lo Stato generalmente prosegue col regolare e imporre le altre azioni degli individui suoi sudditi. Si potrebbe pensare che la semplice osservazione di tutti gli Stati attraverso la storia e in ogni parte del globo sia una prova sufficiente di questa affermazione; ma il miasma del mito ha aduggiato così a lungo sull’attività dello Stato che si rende necessaria una elaborazione.


Quello che lo Stato è

L’uomo è nato nudo al mondo e bisognoso di usare la sua mente per imparare come prendere le risorse dategli dalla natura e trasformarle (per esempio, con l’investimento in “capitale”) in fogge, forme e luoghi in cui le risorse possono essere usate per la soddisfazione dei suoi bisogni e l’innalzamento del suo livello di vita. L’unico modo in cui l’uomo può fare questo è con l’uso della sua mente e della sua energia per trasformare le risorse (“produzione”) e per scambiare questi prodotti con prodotti creati da altri. L’uomo ha scoperto che, attraverso il processo dello scambio volontario e reciproco, la produttività e quindi i livelli di vita di tutti i partecipanti allo scambio possono crescere enormemente. Il solo corso “naturale” che l’uomo ha per sopravvivere e per raggiungere la ricchezza, quindi, è usare la sua mente e la sua energia per impegnarsi nel processo di produzione e scambio. Egli fa questo, per prima cosa, scovando le risorse naturali, e poi trasformandole (“mescolando il suo lavoro” con esse, come dice Locke[4]), per farne la sua proprietà individuale, e poi ancora scambiando questa proprietà con le proprietà che altri hanno ottenuto in modo simile. Il percorso sociale dettato dai requisiti della natura umana, quindi, è il percorso dei “diritti di proprietà” e del “libero mercato” del dono o dello scambio di tali diritti. Attraverso questo percorso, gli uomini hanno appreso come evitare i metodi da “giungla” del combattimento per risorse scarse secondo il quale A può acquisirle solo a spese di B e, invece, come moltiplicare enormemente quelle risorse in un processo di produzione e scambio pacifico e armonioso.

Il grande sociologo tedesco Franz Oppenheimer indicò che ci sono due modi reciprocamente escludentisi di acquisire ricchezza; uno, il suddetto modo di produzione e scambio, lo chiamò il “mezzo economico”. L’altro modo è più semplice in quanto non richiede produttività; è il modo della confisca dei beni o servizi di un altro con l’uso della forza e della violenza. Questo è il metodo del sequestro unilaterale, del furto della proprietà degli altri. Questo è il metodo che Oppenheimer definì “il mezzo politico” per la ricchezza. Dovrebbe essere chiaro che l’uso pacifico della ragione e dell’energia nella produzione è il percorso “naturale” per l’uomo: il mezzo per la sua sopravvivenza e prosperità su questa terra. Dovrebbe essere egualmente chiaro che il mezzo coercitivo dello sfruttamento è contrario alla legge naturale; è parassitario poiché, invece di aggiungere, sottrae alla produzione. Il “mezzo politico” travasa la produzione verso un individuo o gruppo parassitario e distruttivo; e questo travaso non solo sottrae a chi produce, ma inoltre abbassa l’incentivo del produttore a produrre oltre la propria sussistenza. Nel lungo periodo, il rapinatore distrugge la propria sopravvivenza diminuendo o eliminando la fonte del proprio approvvigionamento. Ma non solo: persino nel breve periodo, il predatore sta agendo contrariamente alla propria autentica natura di uomo.

Siamo ora in una posizione che ci consente di rispondere in modo più completo alla domanda: che cosa è lo Stato? Lo Stato, nelle parole di Oppenheimer, è l’«organizzazione del mezzo politico», è la sistematizzazione del processo predatorio su un dato territorio[5]. Essendo la criminalità, nella migliore delle ipotesi, sporadica e incerta, il parassitismo è effimero, e il cordone ombelicale coercitivo e parassitario può essere reciso in ogni momento dalla resistenza delle vittime. Lo Stato fornisce un canale legale, ordinato e sistematico per la spoliazione della proprietà privata; è per mezzo dello Stato che il cordone ombelicale che lega la casta parassitaria alla società viene reso certo, sicuro e relativamente “pacifico”[6]. Dal momento che la produzione deve sempre precedere la spoliazione, il libero mercato è anteriore allo Stato. Lo Stato non è mai stato creato da un “contratto sociale”; è sempre nato dalla conquista e dallo sfruttamento. Il paradigma classico è quello di una tribù conquistatrice che cessa il suo metodo consacrato dal tempo di saccheggiare e uccidere una tribù conquistata, per realizzare che la durata nel tempo del sacco sarà più lunga e sicura, e la situazione più piacevole, se alla tribù conquistata viene concesso di vivere e produrre e i conquistatori si stabiliscono in mezzo ai conquistati come governanti che esigono un tributo fisso annuale[7]. Un metodo della nascita dello Stato può essere illustrato come segue: sulle colline della Ruritania meridionale, un gruppo di banditi riesce a ottenere il controllo fisico sul territorio e alla fine il capo dei banditi si proclama “Re del governo indipendente e sovrano della Ruritania del Sud”; e, se lui e i suoi uomini hanno la forza di mantenere il governo per un periodo, oplà, un nuovo Stato si è unito alla “famiglia delle nazioni”, e coloro che erano condottieri di banditi sono stati trasformati nella nobiltà legale del regno.


(1). Link alla Seconda Parte

(2). Link alla Terza Parte



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Note

[1] Non possiamo sviluppare in questo capitolo i molti problemi e le fallacie della “democrazia”. Basta qui dire che il vero agente o “rappresentante” di un individuo è sempre soggetto agli ordini dell’individuo, può essere revocato in ogni momento e non può agire contrariamente agli interessi e desideri del suo principale. Chiaramente il “rappresentante” di una democrazia non può mai soddisfare queste funzioni di agente, le uniche consone a una società libertaria.


[2] I socialdemocratici spesso replicano che la democrazia – la scelta a maggioranza dei governanti – implica logicamente che la maggioranza deve lasciare certe libertà alla minoranza, affinché la minoranza possa diventare un giorno maggioranza. Lasciando da parte altri difetti, questo argomento ovviamente non tiene dove la minoranza non può diventare la maggioranza, per esempio quando la minoranza appartiene a un gruppo razziale o etnico differente dalla maggioranza.


[3] Joseph A. Schumpeter, Capitalism, Socialism, and Democracy, New York, Harper and Bros., 1942, p. 198:
«L’attrito o antagonismo fra settore privato e settore pubblico è stato accentuato dal fatto che […] lo stato è vissuto di cespiti prodotti nella sfera privata per scopi privati, e che da questi bisognò distrarre con ricorso alla forza pubblica. La teoria che costruisce le imposte sull’analogia delle quote d’iscrizione a un circolo o dell’acquisto dei servizi, poniamo, di un dottore, prova soltanto come questa parte delle scienze sociali sia lontana dall’abito mentale scientifico»;
trad. it. Capitalismo, socialismo, democrazia, Milano, Etas Kompass, 1967, p. 191 e n. 10. Cfr. anche Murray N. Rothbard, The Fallacy of the ‘Public Sector’, «New Individualist Review», Summer 1961, pp. 3-7 [ora in Rothbard, The Logic of Action II, Cheltenham, Edward Elgar, 1998, pp. 171-179; trad. it. La fallacia del settore pubblico, in La libertà dei libertari, a cura di Roberta A. Modugno Crocetta, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2000, pp. 69-80].


[4] Cfr. John Locke, The Second Treatise of Government (1690), in Two Treatises of Government, Edited by Peter Laslett, Cambridge, Cambridge University Press, 1988, § 27, pp. 287-288:

«ciascuno ha la proprietà della sua persona: su questa nessuno ha diritto alcuno all’infuori di lui. Il lavoro del suo corpo e l’opera delle sue mani, possiamo dire, sono propriamente suoi. Qualunque cosa dunque egli tolga dallo stato in cui natura l’ha creata e lasciata, a essa incorpora il suo lavoro e vi intesse qualcosa che gli appartiene, e con ciò se l’appropria»;
trad. it. Trattato sul governo, Roma, Editori Riuniti, 1984, p. 71. Rothbard lo cita in For a New Liberty cit., p. 32; trad. it. p. 59, e in The Ethics of Liberty cit., p. 21; trad. it. p. 36. (NdC.)

[5] Franz Oppenheimer, [Der Staat (19293), Berlin, Libertad Verlag, 1990, p. 19-21; trad. inglese] The State, New York, Vanguard Press, 1926, pp. 24-27:
«Ci sono due mezzi fondamentalmente opposti attraverso i quali l’uomo, che richiede sostentamento, è indotto a ottenere i necessari mezzi per soddisfare i suoi desideri. Questi sono il lavoro e la rapina, il proprio lavoro e l’appropriazione forzosa del lavoro degli altri. […] Propongo nella discussione seguente di chiamare il proprio lavoro e lo scambio equivalente del proprio lavoro con il lavoro degli altri, il “mezzo economico” per la soddisfazione del bisogno mentre l’appropriazione non ripagata del lavoro degli altri sarà chiamata il “mezzo politico”. […] Lo Stato è un’organizzazione del mezzo politico. Nessuno Stato, quindi, può venir in essere fino a quando il mezzo economico ha creato un definito numero di oggetti per la soddisfazione dei bisogni, i quali oggetti possono esser sottratti o appropriati con la rapina bellicosa».

[6] Albert Jay Nock ha scritto vividamente che:

«lo Stato pretende ed esercita il monopolio del crimine. […] Esso proibisce l’omicidio privato, ma organizza esso stesso omicidi su una scala colossale. Punisce il furto privato, ma stende esso stesso senza scrupolo le mani su qualunque cosa voglia, che sia la proprietà di cittadini o di stranieri».
On Doing the Right Thing, and Other Essays, New York, Harper and Bros., 1929, p. 143.

[7] Oppenheimer, op. cit., [pp. 14-15; trad. inglese] p. 15:
«Che cosa è, dunque, lo Stato come concetto sociologico? Lo Stato, per intero nella sua genesi […] è un’istituzione sociale, imposta con la forza da un gruppo vittorioso di uomini su di un gruppo sconfitto, con il solo scopo di regolare il dominio del gruppo vittorioso sul gruppo sconfitto, e di assicurarsi contro la rivolta dall’interno e gli attacchi dall’esterno. Teleologicamente, questo dominio non aveva altro scopo che lo sfruttamento economico dei vinti da parte dei vincitori».
E Bertrand de Jouvenel, [Du Pouvoir (1946), Paris, Hachette, 1972; trad. inglese] On Power, New York, Viking Press, 1949, pp. 100-101, ha scritto:
«Lo “Stato”, così, nasce e deriva essenzialmente dai successi di una “banda di malfattori” che si sovrappone a piccole società particolari»;
trad. it. Del potere. Storia naturale della sua crescita, Milano, SugarCo, 1991, p. 117.

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