venerdì 6 gennaio 2012

I Pericoli del Metodo Economico di Samuelson

Un "nemico" di solito si materializza e viene preso in considerazione quando diventa una minaccia reale. Gli Austriaci vengono oggi accusati di voler misure d'austerità sulle persone e in questo modo si crede che spalleggino le entità centrali che tiranneggiano sulla popolazione. No. FMI, banche centrali e Banca Mondiale esistono solo per fare in modo che i banchieri ottengano il loro denaro; gli Austriaci considearno i recenti aumenti di tasse una terribile mazzata all'economia, con gli stati che prendono risorse dai contribuenti con la forza e con l'estorsione, e continuano sulla strada degli investimenti improdutivvi pianificati centalmente. Viene ostacolata, in questo modo, la capacità di ogni attore economico di dare soddisfazione ai propri desideri ed in ultima istanza di piantare i semi di una sana crescita economica. Il nostro super- Mario Monti non è qui per il "bene del popolo". Non è qui per risolvere la situazione. Professori accreditati dalle istituzioni centrali che professano un mito sfatato più e più volte negli anni. E' ora di dare il colpo di grazia a questo mito.
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di Robert Higgs


Ci viene sconsigliato di parlare male dei morti. A questo proposito, io sono al sicuro, suppongo, perché Paul A. Samuelson, che ho intenzione di criticare, è ancora vivo, anche se avrà presto 93 anni e quindi non rimarrà su questa terra ancora a lungo. Quando ero ancora alle prime armi con l'economia, nel 1960, Samuelson veniva considerato dai miei insegnanti come il più grande economista vivente — un genio, si diceva. Nel corso della mia formazione universitaria e da laureato, non mi fu data alcuna ragione per dubitare di questa valutazione.

Infatti, una parte memorabile e dolorosa della mia formazione scolastica consisteva nei miei tentativi di leggere e comprendere il libro di Samuelson Foundations of Economic Analysis (1947), un trattato di matematica della teoria economica, modellato sulla termodinamica classica, che imposta il tono su quello che gli economisti mainstream più intelligenti avrebbero fatto nei decenni a venire. Il protocollo divenne: costruire un modello matematico di attori astratti impegnati nella massimizzazione o minimizzazione di una funzione obiettivo; dimostrare che il modello ha un equilibrio stabile; mostrare come le condizioni d'equilibrio del modello cambiano quando i suoi parametri sono cambiati (il cosiddetto metodo di statica comparata).

Una volta ho avuto anche il piacere — se questa è la parola giusta — di incontrare Samuelson di persona, all'inizio del 1968, quando visitai il Dipartimento di Economia al MIT come candidato per un lavoro. In un seminario con Samuelson e molti altri membri del dipartimento, mi divertii — se questa è la parola giusta — ad osservare l'arguzia e l'arroganza di Samuelson. Anche se i membri del gruppo scherzavano e si punzecchiavano l'un l'altro durante il seminario, come fanno comunemente gli accademici, mi era chiaro che gli scherzi di Samuelson a spese di un collega erano impari rispetto agli scherzi di un collega a sue spese. Questa gerarchia non fu una sopresa. Rimasi sorpreso, tuttavia, dal fatto che il grande uomo fece battute a mie spese. Naturalmente, come un apprensivo ed insicuro ventiquattrenne in cerca di un lavoro, non feci alcuna battuta a spese di nessuno, e certamente non a quelle di Samuelson. Quarant'anni dopo, e un pò più saggio nei modi spesso maleducati del mondo accademico, rimango deluso dal fatto che l'acclamato "più grande economista vivente," un uomo che solo due anni dopo sarebbe diventato il primo Americano a ricevere il premio Nobel per l'economia, aveva scelto di angariare un semplice studente neo-laureato.

Chiunque abbia letto articoli e libri di Samuelson, però, sa che la sua arroganza si trova spesso in primo piano. Che fosse stato o no il più grande economista vivente, spesso si esprimeva con il tipo di condiscendenza dell'Olimpo cosa che suggerisce fortemente che credeva di essere il Numero Uno. Mi ha colpito questa qualità quando di recente ho letto, strano a dirsi, il suo articolo "Economic Theory and Mathematics — An Appraisal"[Scarica il PDF] (American Economic Review 42 [May 1952]: 56–66). Alla fine del primo paragrafo, Samuelson scrive: "Credo fermamente nelle virtù della sobrietà e della mancanza di pretese." Incontrando questa affermazione di modestia autoriale, sono quasi scoppiato a ridere.

Anche se Samuelson dichiara che "non vuole lodare la matematica, ma piuttosto sfatare un pò il suo utilizzo in economia," il senso del suo articolo difficilmente persegue tale intento. Infatti, a mio avviso, fa affermazioni grandiose ed indifendibili per conto dell'uso della matematica in economia. Io non sono un filosofo, ma oserei dire anche che fa affermazioni insostenibili sulla matematica stessa — un punto che lascio ad altri per un giudizio migliore e qualificato. L'argomento principale di Samuelson è che "nel più profondo della logica", la matematica e la prosa "sono rigorosamente identiche" (p. 56). La mia impressione filosofica non molto ben allenata è che questa affermazione fa acqua da tutte le parti. Eppure, come molte delle dichiarazioni di Samuelson, è epsressa con una sorta di assoluta fiducia tipica delle prime generazioni dei positivisti.

Samuelson afferma che "[ogni] scienza si basa saldamente sull'induzione — sull'osservazione di fatti empirici. [...] [La] deduzione ha il modesto ruolo linguistico di tradurre alcune ipotesi empiriche nella loro "equivalente logica"" (p. 57). Sembra ovvio che per lui, come per le sue legioni di discepoli, una teoria economica a priori, come la teoria prasseologica che Ludwig von Mises spiega nell'Azione Umana (1949), non si qualifica come scienza. Anche se non menziona Mises in questo articolo, si sospetta che abbia avuto in mente il grande economista Austriaco quando scrisse: "[Nessuna] verità empirica a priori può esistere in nessun campo. Se una cosa è una verità inconfutabile a priori, deve essere priva di contenuto empirico "(p. 62). Egli afferma poi, con superbia caratteristica, che "al livello sbrigativo che riguarda lo scienziato nel suo lavoro quotidiano," questa visione è "ampiamente riconosciuta dagli scienziati di ogni disciplina. Le uniche eccezioni si trovano in alcune teorie sperdute, e qui non farò altro che puntare il dito con disprezzo verso coloro che portano delle idee nel ventesimo secolo che non sono state molto buone anche nel loro periodo d'oro precedente" (p. 62).

Ci si chiede quale status avrebbe affibiato Samuelson all'Assioma dell'Azione — l'affermazione che gli esseri umani hanno scopi ed utilizzano mezzi nel tentativo cosciente di raggiungere tali scopi. Avrebbe negato che ciò è apodittico? Ed avrebbe anche negato che ciò è empiricamente valido?

In difesa della metodologia Misesiana, Murray N. Rothbard osservava nel 1957: "considerare l'Assioma dell'Azione "a priori" o "empirico" dipende dalla nostra posizione filosofica finale" ("In Defense of "Extreme Apriorism,"" [Scarica il PDF] Southern Economic Journal 23 [Gennaio 1957]: 317–18). Egli osserva che Mises, adottando una visione Kantiana, considera l'assioma come "una legge di pensiero e quindi una verità categorica a priori per ogni esperienza" (p. 318). Al contrario, Rothbard considera l'assioma "una legge della realtà piuttosto che una legge del pensiero, e quindi "empirica" piuttosto che "a priori"" (p. 318), anche se ammette che "questo tipo di "empirismo" è così al passo con l'empirismo moderno che potrei benissimo continuare a chiamarlo a priori" per gli argomenti in questione. Egli esplicita l'assioma dicendo:
  1. è una legge della realtà che non è in teoria falsificabile, eppure è empiricamente significativa e vera;
  2. poggia sull'esperienza universale interiore, e non semplicemente sull'esperienza esterna, vale a dire, la sua evidenza è riflessiva piuttosto che fisica; e
  3. è chiaramente a priori riguardo ai complessi avvenimenti storici"(p. 318, note omesse).

Samuelson non si degna di prendere in considerazione questi problemi, optando invece per una derisione arrogante.

Samuelson cita un grande economista Austriaco, il fondatore della Scuola Austriaca stesso, Carl Menger. Le sue osservazioni a questo punto meritano un'estesa citazione. "Jevons, Walras, Menger e," egli scrive, "ciascuno autonomamente arrivato alla cosiddetta "teoria del valore soggettivo." E [...] Menger arrivò alla sua formulazione senza l'uso della matematica. Ma", continua:

Vorrei sottolineare che una recente rilettura dell'eccellente traduzione inglese del lavoro di Menger del 1871 mi convince che è la meno importante delle tre opere citate; e che il suo relativo abbandono da parte degli scrittori moderni non era semplicemente il risultato di sfortuna o di negligenza accademica. Vorrei anche aggiungere che la rivoluzione importante del 1870, aveva davvero poco a che fare col valore soggettivo e l'utilità o col marginalismo; bensì consisteva nel perfezionamento dei rapporti generali della domanda e dell'offerta. E' culminato in un equilibrio generale Walrasiano. E noi siamo costretti a concordare con la valutazione di Schumpeter su Walras come il più grande dei teorici — non perché ha usato la matematica, dal momento che i metodi utilizzati sono davvero elementari — ma per l'importanza fondamentale del concetto di equilibrio generale stesso. (p. 61)

La valutazione di Samuelson, si potrebbe azzardare a dire, lascia delle questioni in sospeso. Non riesce a vedere come e perché lo sviluppo di Menger dell'utilità marginale e della relativa teoria economica è in realtà superiore alle formulazioni di Jevons e Walras. Su questa questione, il lettore non può fare di meglio che consultare la splendida deomogenizzazione dei punti di vista dei tre pionieri marginalisti di Jörg Guido Hülsmann nella sua recente e magnifica biografia, Mises, The Last Knight of Liberalism (2007, pp. 125–36).

Hülsmann cita i commenti di William Jaffé, che sono così calzanti che li citerò ancora:

Menger si tenne troppo vicino al mondo reale sia per la formulazione verbale sia per quella simbolica della teoria; e nel mondo reale non vide punti ben definiti di equilibrio, ma indeterminazioni piuttosto limitate, non solo negli accordi bilaterali ed isolati del baratto, ma anche nel commercio del mercato competitivo. [...] Con la sua attenzione saldamente fissa sulla realtà, Menger non poteva teorizzare, e non teorizzò, le difficoltà che i commercianti affrontano in ogni tentativo di ottenere tutte le informazioni necessarie per quella che viene definita una determinazione equilibrata dei prezzi emergenti dal mercato, né il suo approccio permise di teorizzare le incertezze che nscondono il futuro, anche il futuro prossimo nella previsione consapevole del quale la maggior parte delle transazioni presenti ha luogo. (Citato in Hülsmann, Mises, p. 135)

Sotto questa luce, si vede chiaramente che l'insistenza positivista di Samuelson, secondo cui la scienza economica deve basarsi su fatti empirici, si scontra con la sua preferenza espressa per un equilibrio generale astratto e di perfetta informazione, alla moda di Jevons e di Walras, invece del fondamento del tutto realistico di Menger per il ragionamento economico.

La sua ossessione per i modelli matematici e di equilibrio generale non ha fatto altro che rendere la moderna teoria economica uno sterile ed irrilevante esercizio di autoerotismo. Questo fulcro non solo ha come conseguenza un futile esercizio mentale da parte di pseudoeconomisti matematici, ma ha conseguenze dannose per la formulazione delle politiche, perché, come James M. Buchanan ha osservato, si dà luogo alla "fallacia più sofisticata nella teoria economica: la nozione secondo cui dato che certe relazioni restano in equilibrio [nel modello], le interferenze forzate atte ad implementare tali relazioni [nel mondo reale] saranno, infatti, desiderabili"(What Should Economists Do? [1979], p. 83).

Samuelson scrive che, sebbene i matematici a volte commettono degli errori: "è sorprendente quanto siano rari gli errori nella pura logica". A suo merito, riconosce poi un punto molto importante: "I grandi errorri vengono commessi nella formulazione delle premesse". Lo considera "uno dei vantaggi della media matematica", in modo che lui e gli altri costruttori di modelli "sono costretti a mettere le carte sul tavolo in modo che tutti possano vedere le nostre premesse" (p. 64). Questa affermazione a prima vista sembra porre il modello matematico in una luce favorevole. Tuttavia, che vantaggio si trae se le premesse disposte, sono considerate da tutti interamente artificiali, dell'altro mondo, se non impossibili, e poi il gioco deduttivo procede come se una teoria economica basata su tali premesse fosse perfettamente accettabile solamente perché le sue premesse erano così visibilmente e chiaramente esposte? Chiunque abbia mai preso in giro gli scolastici per contare gli angeli sulla capocchia di uno spillo dovrebbe cercare di leggere un articolo sul Journal of Economic Theory o qualsiasi altro sbocco dei modelli economici mainstream. Quando si dice un universo parallelo!

"Non ci sono", insiste Samuelson, "problemi metodologici affrontati dallo scienziato sociale diversi da quelli che affronta qualsiasi altro scienziato" (p. 61). Questa affermazione fa a pugni con ciò che tutti dovrebbero intuire: gli esseri umani, che hanno scopi, scelgono mezzi per soddisfarli, modificano i loro scopi di volta in volta, e all'occasione elaborano completamente nuovi mezzi, differenti fondamentalmente da elettroni, molecole , ed onde luminose (o sono particelle?).

Mises espose il dualismo metodologico in modo convincente in molti dei suoi scritti. Questa esposizione appare, ad esempio, proprio all'inizio del suo importante ed ingiustamente ignorato libro Theory and History (1957), dove si osserva che, data la nostra ignoranza su "come gli eventi esterni — fisici, chimici e fisiologici — influenzano i pensieri umani, le idee ed i giudizi di valore," il dominio della conoscenza è necessariamente diviso "in due campi separati, il regno degli eventi esterni, comunemente chiamato natura, e il regno del pensiero e dell'azione umana" (p. 1).

E continua: "Le scienze dell'azione umana," propriamente interpretate "partono dal fatto che l'uomo mira volutamente ai fini che ha scelto. E' proprio questo fatto che tutte le branche del positivismo, del comportamentismo, e del panfisicalismo vogliono che venga negato del tutto o fatto passare sotto silenzio "(p. 3) — o, come nel caso di Samuelson, denigrato con scherno e disprezzo, come indegno dell'attenzione degli scienziati economici dell'età moderna. Triste a dirsi, non tutti i cambiamenti sono un vero progresso, e nella moderna economia mainstream — che potremmo giustamente denominiare economia Samuelsoniana — gran parte del cambiamento dei precetti e delle pratiche professionali è stata palesemente in peggio.

Quindici anni fa, la rivista Reason invitò un certo numero di scrittori, me compreso, a contribuire con una breve voce ad una funzione chiamata "Conosci il Tuo Nemico". L'idea era che ciascuno di noi "suggeriva un libro pubblicato negli ultimi 50 anni che era importante perché aveva contribuito a promuovere idee sbagliate con conseguenze gravi" (Dicembre 1993, p. 32). Il mio contributo fu Foundations di Samuelson. Se dovessi identificare un libro oggi, non potrei pensare ad una scelta più appropriata.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


2 commenti:

  1. Non posso lasciare che questo articolo sul caro Zio Samuelson (RIP nonostante tutto) non abbia almeno un commento.

    Cosa dire di Samuelson? Il suo operato ha radicato in me l'idea che qualcosa nelle scienze economiche non andasse per quanto mi sforzassi di capire non percepivo nulla che avesse alcun 'uso' pratico nel mondo reale, si saltava di equazione in grafico, di funzione in modello, di approssimazione in approssimazione. Insomma con Samuelson si potrebbe dire che : "La matematica non è un opinione, le materie a cui la si applica diventano filosofia e il matematico diviene pontefice".

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  2. Ciao Giuseppe, è un piacere rivederti sui lidi di Freedonia.

    Ah si, i cosiddetti dati econometrici autoreferenziali. Quelli che fino alla flessione del 2008 dicevano che andava tutto alla grande nell'economia; non hanno visto arrivare il bust. Come non hanno visto arrivare la flessione successiva alle due sbornie da QE. I Keynesiani guardano i trend e festeggiano, non importa cosa accadrà in futuro.

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