lunedì 18 luglio 2016

Egualitarismo ed élite – Parte I





di Murray N. Rothbard


La presunta auto-evidenza dell'uguaglianza

Una delle grandi glorie del genere umano è che, in contrasto con le altre specie, ogni individuo è unico, dunque insostituibile; qualunque siano le similitudini e gli attributi comuni tra gli uomini, sono le loro differenze che ci portano ad onorare, o celebrare, o deplorare le qualità o le azioni di una particolare persona.[1] È la diversità, l'eterogeneità degli esseri umani che è uno dei più straordinari attributi del genere umano.

Questa fondamentale eterogeneità rende ancora più curioso il moderno ideale di "uguaglianza". Perché "uguaglianza" significa uniformità – due entità sono "uguali" se e solo se sono la stessa cosa. X = Y solo se sono o identici, o se sono due entità che sono le stesse in alcune attribuzioni. Se X, Y e Z sono "uguali in lunghezza", significa che ognuna di esse è identica in lunghezza, diciamo 3 piedi. Le persone, dunque, possono solo essere "uguali" nella misura in cui sono analoghe in alcuni attributi: perciò, se Smith, Jones e Robinson sono alti 4 piedi e 11 pollici ciascuno, dunque sono "uguali" in altezza. Ma ad eccezione di questi casi speciali, le persone sono eterogenee, e diverse, cioè, sono "diseguali". La diversità, e dunque "l'ineguaglianza", è perciò un fatto fondamentale della razza umana. Così come consideriamo la quasi adorazione universale contemporanea del santuario dell'"uguaglianza", fino al punto da aver virtualmente cancellato tutti gli altri obbiettivi o principi di etica? E a capo di questa adorazione ci sono stati filosofi, accademici, e altri leader e membri delle élite intellettuali, seguite dalle truppe dei formatori delle opinioni nella società moderna, ivi inclusi esperti, giornalisti, ministri, insegnanti di scuole pubbliche, consiglieri, consulenti di relazioni umane e "terapisti". E ciononostante, dovrebbe essere abbastanza evidente che la spinta a perseguire l'"uguaglianza" viola crudamente la natura essenziale del genere umano, e perciò può solo essere perseguita, per non dire aver successo, attraverso l'uso di estrema coercizione.

La venerazione odierna dell'uguaglianza è, infatti, una nozione molto recente nella storia del pensiero umano. Tra i filosofi o i pensatori più prominenti l'idea era scarsamente presente prima della metà del diciottesimo secolo; se menzionata, era solo per farne oggetto di orrore o scherno.[2] La natura profondamente anti-umana e violentemente coercitiva dell'egualitarismo fu chiarita nell'influente mito classico di Procuste, che "costrinse i viaggiatori di passaggio a sdraiarsi su un letto, e se erano troppo lunghi per il letto mozzava le parti del corpo che sporgevano, mentre allungava le gambe di quelli che erano troppo bassi. Per questa ragione gli fu dato il nome di Procuste [lo Stiratore]."[3]

Uno dei rari filosofi moderni critici dell'uguaglianza affermò che "possiamo chiedere se un uomo è più basso di un altro, o possiamo, come Procuste, cercare di stabilire l'uguaglianza tra tutti gli uomini nei suoi confronti."[4] Ma la nostra risposta fondamentale alla domanda se l'uguaglianza esista nel mondo reale deve essere chiaramente negativa, e ogni tentativo di "stabilire l'uguaglianza" può solo risultare nelle grottesche conseguenze di ogni sforzo Procrustiano. Come, dunque, possiamo non vedere l'"ideale" di uguaglianza di Procuste come qualcosa di mostruoso e innaturale? La prossima domanda logica è perché Procuste scelse di perseguire uno scopo così chiaramente anti-umano, e che può solo portare a risultati catastrofici?

Nel contesto della mitologia Greca, Procuste persegue semplicemente un obiettivo "estetico" folle, presumibilmente seguendo la sua stella personale secondo cui ogni persona deve essere precisamente uguale in altezza e in lunghezza al suo letto. Eppure, questa sorta di non-argomento, questo blando assunto che l'ideale di uguaglianza non richieda giustificazioni, è endemico tra gli egualitaristi. Infatti l'economista di Chicago Henry C. Simons sponsorizzava una tassa sul reddito progressiva perché riteneva l'ineguaglianza di reddito "chiaramente malvagia o non piacevole."[5] Presumibilmente Procuste avrebbe potuto usare lo stesso tipo di "argomento" in conto alla "non piacevole" natura dell'ineguaglianza dell'altezza, se si fosse preoccupato di scrivere un saggio a sostegno del proprio particolare programma egualitarista. Infatti, molti scrittori danno semplicemente per scontato che l'uguaglianza sia e debba essere un obbiettivo primario della società, e che non necessita di alcun argomento di supporto, nemmeno un fragile argomento da un'estetica personale. Robert Nisbet aveva e ha ancora ragione quando scrisse due decenni fa:

È evidente che per il resto di questo secolo [...] l'idea di uguaglianza sarà sovrana praticamente in tutti i circoli che si occupano delle basi filosofiche della politica pubblica [...]. Nel passato, le idee unificanti tendevano ad avere una sostanza religiosa. Ci sono certamente dei segni che l'uguaglianza sta prendendo un aspetto sacrale fra molte menti oggigiorno, e che sta rapidamente acquisendo uno stato dogmatico, almeno tra un gran numero di filosofi e scienziati sociali.[6]

Il sociologo di Oxford A. H. Halsey, infatti, fu "incapace d'individuare alcuna ragione se non la "malvagità" per la quale qualcuno dovesse opporsi" al programma egualitarista. Presumibilmente quella "malvagità" poteva essere solo diabolica.[7]



“Uguaglianza” in cosa?

Esaminiamo ora il programma egualitarista con più attenzione: cosa, esattamente, dovrebbe rendere uguali? La vecchia, o "classica" risposta è il reddito monetario. Le entrate di denaro dovevano essere rese uguali.

In superficie, questo sembrava chiaro, ma subito sorsero delle gravi difficoltà. Dunque, l'uguaglianza dovrebbe essere per persona o per famiglia? Se la moglie non lavora, le entrate domestiche dovrebbero aumentare in proporzione? I figli dovrebbero essere obbligati a lavorare per rientrare nella rubrica degli "uguali", e se così, a che età? Inoltre, il patrimonio non è importante come il reddito annuale? Se A e B guadagnano ciascuno $50,000 all'anno, ma A possiede un patrimonio accumulato di $1 milione, e B non possiede alcunché, il loro reddito uguale riflette scarsamente un'uguaglianza di posizione finanziaria.[8] Ma se A è tassato più pesantemente a causa del suo patrimonio accumulato, non è un'ulteriore penalizzazione su parsimonia e risparmio? E come si possono risolvere questi problemi?

Ma anche mettendo da parte il problema del patrimonio, e focalizzandosi solo sul reddito, si può veramente equalizzare il reddito? Certamente il parametro da equalizzare non può essere semplicemente l'entrata monetaria. Il denaro è, dopo tutto, solo un pezzo di carta, un'unità di conto, così che l'elemento da rendere uguale non può essere meramente un numero astratto, ma devono essere le merci e i servizi che possono essere acquistate con quel denaro. Il mondo egualitario (e certamente l'egualitarista impegnato non può certo fermarsi ai confini nazionali) si preoccupa di livellare non soltanto il totale della moneta, ma l'effettivo potere d'acquisto. Dunque, se A riceve uno stipendio di 10,000 dracme l'anno, e B guadagna 50,000 fiorini, l'equalizzatore dovrà inventare quanti fiorini sono effettivamente equivalenti ad una dracma in relazione al potere d'acquisto, prima che possa brandire la sua ascia equalizzatrice correttamente. In breve, ciò che gli economisti definiscono "reali" e non mere entrate monetarie, devono essere livellate per tutti.

Ma una volta che l'egualitarista accetta di focalizzarsi sulle entrate reali, cade in un groviglio di inestricabili e irrisolvibili problemi. Perché un grande numero di merci e di servizi non sono omogenee, e non possono essere replicate per tutto. Uno dei beni che i Greci possono consumare con le loro dracme è quello della vita nelle isole Greche. Questo servizio (di beneficiare continuamente delle isole Greche) è inevitabilmente precluso agli Ungheresi, agli Americani e a chiunque altro al mondo. Allo stesso modo, cenare regolarmente in un caffè sul Danubio è un servizio inestimabile negato al resto di noi che non vive in Ungheria.

Come il reddito reale può essere equalizzato in tutto il mondo? Come si può misurare il piacere delle isole Greche, o cenare sul Danubio, in rapporto ad altri servizi? Se io sono del Nebraska, e le manipolazioni del cambio hanno presumibilmente equalizzato le mie entrate con un Ungherese, com'è possibile paragonare vivere in Nebraska al vivere in Ungheria? Il pantano peggiora sulla contemplazione. Se l'egualitarista considera che il piacere Danubiano è in qualche modo superiore a godere la vista e i panorami dell'Omaha, o di una fattoria del Nebraska, su quali basi l'egualitarista tasserà l'Ungherese e sussidierà chiunque altro? Come farà a misurare, in termini monetari, il "valore di cenare sul Danubio"? Ovviamente il rigore severo della legge naturale gli impedisce, per quanto chiaramente vorrebbe farlo, di prendere fisicamente il Danubio e parcellizzarlo equamente per ogni abitante in ogni parte del mondo. E che dire di quelle persone che preferiscono i panorami e la vita in una comunità agricola del Nebraska ai peccati di Budapest? Chi, dunque, sarà tassato e chi sussidiato, e di quanto?

Forse nella disperazione, gli egualitaristi potrebbero arretrare sull'idea che la localizzazione di ognuno rifletta le sue preferenze, e che dunque dobbiamo semplicemente presumere che le posizioni possono essere accantonate nel grande riordino egualitario. Ma mentre è vero che praticamente ogni punto del mondo è amato da qualcuno, è altrettanto vero, e largamente, che alcuni luoghi sono ampiamente preferiti ad altri. E il problema di posizione è presente anche tra nazioni. È generalmente riconosciuto, sia dai residenti sia dagli esterni invidiosi, che la Baia di San Francisco è, per clima e topografia, molto più vicina ad un Paradiso terrestre piuttosto che, diciamo, il West Virginia o Hoboken, New Jersey. Perché dunque questi ottenebrati forestieri non si spostano nella Baia di San Francisco? In primo luogo, molti di loro lo hanno fatto, ma altri sono impediti dalla sua piccola dimensione che (tra le altre cose, le restrizioni del tutto umane, quali le leggi urbanistiche) e dai severi limiti alle opportunità di migrazione. Dunque, nel nome dell'egualitarismo, dovremmo imporre una tassa speciale sui residenti della Baia e su altri punti prestabiliti, per ridurre il loro reddito di benessere psichico, e sussidiare il resto di noi? E che ne dite di riversare sussidi in alcune aree designate quali malinconiche, ancora una volta con l'obbiettivo di parificare le entrate reali? E come potrebbe un governo egualitarista trovare quante persone in generale, e a maggior ragione ogni singolo residente, amano la Baia e quanto reddito negativo patiscono dal vivere, diciamo, in West Virginia o Hoboken? Ovviamente non possiamo chiedere ai vari residenti quanto amino o detestino le loro aree di residenza, poiché i residenti di ogni luogo da San Francisco a Hoboken avrebbero ogni incentivo a mentire, e correre a dichiarare alle autorità quanto disprezzano il luogo dove vivono.

E la localizzazione è solo uno dei più ovvi esempi di bene non omogeneo e di servizi che non possono essere resi uguali in tutte le nazioni del mondo.

Per di più, anche se il patrimonio e le entrate reali fossero entrambe livellate, si possono rendere uguali le persone, le loro capacità, le loro culture, i tratti somatici? Anche se la posizione monetaria di ogni famiglia fosse la stessa, i figli non nasceranno in famiglie con nature, capacità, e qualità differenti? Tutto questo non è, per usare un termine caro agli egualitaristi, "ingiusto"? Come possono le famiglie essere rese uguali, cioè, uniformi? Il figlio di una famiglia acculturata, intelligente e saggia non gode di un vantaggio "sleale" nei confronti di una famiglia in bancarotta, idiota e disfunzionale? Gli egualitaristi devono dunque spingere e sostenere, come hanno fatto molti teorici comunisti, la nazionalizzazione di tutti i bambini dalla nascita, e il loro allevamento in identici asili nido legali di stato. Ma anche in questo caso, l'obbiettivo di uguaglianza e uniformità non può essere raggiunto. Il fastidioso problema della localizzazione rimarrà, e un nido di stato nella Baia di San Francisco, sebbene per ogni altro aspetto identico ad uno nelle zone selvagge della Pennsylvania centrale, godrà di inestimabili vantaggi, o, alla fin fine, di inestirpabili differenze dagli altri nidi. Ma al di là dei luoghi, la gente, gli amministratori, le infermiere, gli insegnanti, all'interno e all'esterno dei vari accampamenti, saranno del tutto diversi, dando dunque a ciascun bambino un'esperienza inevitabilmente diversa, e distruggendo la ricerca dell'uguaglianza per tutti.

Naturalmente un opportuno lavaggio del cervello, la burocratizzazione, la robotizzazione e la morte dello spirito negli accampamenti di stato, possono aiutare tutti gli insegnanti e infermiere, così come i bambini, a ridurre il tutto ad un più comune denominatore, ma le inestirpabili differenze e i vantaggi rimarranno lo stesso.

E perfino se, per amor di discussione, potessimo presumere l'uguaglianza generale fra reddito e patrimonio, altre disuguaglianze non solo rimarrebbero, ma, in un mondo di entrate eguali, diventeranno ancor più lampanti e più importanti nel pesare le persone. Differenze di posizione, differenze di occupazione, e disuguaglianze nella gerarchia lavorativa e dunque nello status e nel prestigio diventeranno sempre più importanti, poiché il reddito e il patrimonio non saranno più un metro di giudizio o di valutazione delle persone. Le differenze di prestigio fra medici e falegnami, o tra dirigenti e operai, diventeranno ancor più accentuate. Naturalmente il prestigio del lavoro può essere equalizzato eliminando del tutto le gerarchie, abolendo tutte le organizzazioni, corporazioni, gruppi di volontari ecc. Tutti avranno dunque egual rango e potere decisionale. Le differenze in prestigio potrebbero essere eliminate solo entrando nel paradiso Marxista e abolendo ogni specializzazione e divisione del lavoro tra le occupazioni, così che ognuno farebbe tutto. Ma in questo tipo di economia, la razza umana morirebbe ad una notevole velocità.[9]



La nuova élite coercitiva

Quando affrontiamo il movimento egualitarista, iniziamo a trovare la prima contraddizione pratica, se non logica, dentro il programma stesso: ovvero che i suoi primari sostenitori non sono in alcun modo catalogabili tra i poveri e gli oppressi, ma sono professori di Harvard, Yale, e Oxford, così come altri leader dell'élite sociale e del potere. Quale tipo di "egualitarismo" è questo? Se questo fenomeno dovrebbe impersonare una massiccia presunzione di colpa liberale, è dunque curioso che vediamo molto pochi esponenti di questa élite di "mea culpa" che realmente si svestono dei loro beni mondani, del prestigio, dello status, e vanno a vivere umilmente e anonimamente tra i poveri e gli indigenti. Piuttosto il contrario, sembra che non inciampino in nessun gradino nella loro scalata verso la ricchezza, fama, e potere. Al contrario, si crogiolano nell'auto-compiacimento e nelle congratulazioni per i colleghi allineati al loro pensiero altamente morale nel quale si sono occultati.

Forse la risposta a questo puzzle si trova nel nostro vecchio amico Procuste. Poiché non esistono due persone uniformi o "uguali" in nessun senso in natura, o risultano in nessuna società volontaria, per imporre e mantenere tale uguaglianza è necessario imporre permanentemente un'élite di potere armata con un potere coercitivo devastante. Perché un programma egualitarista richiede chiaramente un'élite potente che governi e detenga le formidabili armi della coercizione e perfino del terrore richiesto per far funzionare la tortura Procusteana: forzare ognuno in uno stampo egualitarista. Perciò, almeno per l'élite al potere, qui non c'è "uguaglianza", solo vaste diseguaglianze di potere, decisionismo e, senza dubbio, reddito e patrimonio.

Dunque, il filosofo Inglese Anthony Flew indica che "l'ideale Procusteano è, ed è destinato ad essere, l'attrattiva più potente per coloro che già detengono, o sperano di detenere in futuro, un ruolo prominente o parti remunerativi nella macchina dell'imposizione." Flew nota che questo ideale Procusteano è "l'ideologia unificante e giustificante di una classe emergente di consiglieri politici e professionisti dello stato sociale", aggiungendo in modo significativo che "queste persone sono sia coinvolte professionalmente, sia in debito per il loro passato e futuro avanzamento di carriera, al business dell'imposizione di questo stesso ideale."[10]

Che la necessaria conseguenza di un programma egualitario sia decisamente la creazione di un'élite non-egualitaria con un potere senza scrupoli fu riconosciuto e condiviso dal sociologo Inglese marxista-leninista Frank Parkin. Parkin concluse che "l'Egualitarismo sembra richiedere un sistema politico nel quale lo stato sia in grado di tenere sotto controllo i gruppi sociali e occupazionali che, in virtù delle loro capacità o educazione o attributi personali, potrebbe altrimenti tentare di reclamare una fetta sproporzionata di benefici sociali. Il modo più efficiente di tenere tali gruppi sotto scacco è negarne i diritti di organizzazioni politiche o, in altri mondi, di minarne l'eguaglianza sociale. Questo presumibilmente è il ragionamento che soggiace il caso Marxista-Leninista per un ordine politico basato sulla dittatura del proletariato."[11]

Ma come mai Parkin e quelli del suo stampo non sembrano accorgersi che questo esplicito assalto alla "uguaglianza sociale" porta a tremende disuguaglianze di potere, autorità decisionale e, inevitabilmente, reddito e ricchezza? Davvero, perché non si pongono quasi mai questa domanda apparentemente ovvia? Ci potrebbe essere un'ipocrisia o perfino un inganno all'opera?


[*] traduzione per Francesco Simoncelli's Freedonia a cura di Giuseppe Jordan Tagliabue: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


=> Qui il link alla Seconda Parte: https://francescosimoncelli.blogspot.it/2016/07/egualitarismo-ed-elite-parte-ii.html

=> Qui il link alla Terza Parte: https://francescosimoncelli.blogspot.it/2016/07/egualitarismo-ed-elite-parte-iii.html


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Note

[1] Mi rendo conto che gli studiosi di api e formiche sottolineeranno la divisione del lavoro tra i vari gruppi di specie, ma non sono affatto convinto che una singola ape o formica abbia una “personalità” degna d'essere onorata, rispettata, o pianta.

[2] Alla fine dell'undicesimo secolo il grande Arab al-Ghazali denunciò l'idea dell'uguaglianza forzata e avvertì strenuamente che qualsiasi porzione di ricchezza deve essere volontaria. Si veda S. M. Ghazafar and A. A. Islahi, “The Economic Thought of an Arab Scholastic: Abu Hamid al-Ghazali (1058–1111),” History of Political Economy 22 (Summer 1990): 381–403.

[3] Antony Flew, The Politics of Procrustes: Contradictions of Enforced Equality (Buffalo, N.Y.: Prometheus Books, 1981), frontespizio.

[4] J. R. Lucas, “Against Equality Again,” Philosophy 52 (July 1977): 255.

[5] Henry C. Simons, Personal Income Taxation (Chicago: University of Chicago Press, 1938), p. 19.

[6] Richard Nisbet, “The Pursuit of Equality,” The Public Interest 35 (1974): 103, citazione in Antony Flew, Politics of Procrustes, p. 20.

[7] Citazione in ibid., pp. 22, 187.

[8] L'imposta sul reddito progressiva, un dispositivo fiscale amato dagli egualitaristi per uguagliare i redditi, ignora le differenze tra le ricchezze. Di conseguenza per quei multi-milionari con bassi redditi annuali, non sarebbe difficile supportare una tassa progressiva; a differenza dei loro concorrenti di mercato con un reddito alto, ma con una bassa ricchezza. Cf. Ludwig von Mises, Human Action, 3rd rev. ed. (Chicago: Henry Regnery, 1966), p. 809.

[9] Sull'ideale marxista dell'abolizione della divisione del lavoro, si veda Murray N. Rothbard, Freedom, Inequality, Primitivism, and the Division of Labor (Menlo Park, Calif.: Institute for Humane Studies, 1971), pp. 10–15 (reprinted 1991 by the Ludwig von Mises Institute); e Paul Craig Roberts, Alienation and the Soviet Economy, 2nd ed (New York: Holmes and Meier, 1990).

[10] Flew, Politics of Procrustes, pp. 11–12, 62.

[11] Frank Parkin, Class Inequality and Political Order (London: Paladin, 1972), p. 183; citazione in Flew, Politics of Procrustes, pp. 63–64.

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