mercoledì 17 febbraio 2016

Sfatare il mito keynesiano della ripresa economica — Parte 2

Ricordo a tutti i lettori interessati che è in vendita la mia traduzione dell'ultimo libro di Gary North, L'economia cristiana in una lezione, acquistabile a questo indirizzo: http://bit.ly/1JUqFIt. Con questo manoscritto North, attraverso uno sforzo letterario pregevole, unisce ciò che è stato diviso per anni da un mondo accademico cieco e sordo alla centralità dell'individuo nell'analisi economica: etica ed economia. L'escamotage della chiave di lettura teologica è utilizzata per chiarire al lettore come una visione epistemologica chiara sia fondamentale per uscire dall'attuale pantano intellettuale in cui è finita la teoria economica moderna.
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di David Stockman


Nella Parte 1 abbiamo evidenziato come la FED e i suoi compari di viaggio presso Wall Street, siano in procinto d'essere incornati dagli arieti della deflazione globale e della recessione nazionale.

Quando arriverà il bust, questi sostenitori keynesiani del "tutto va a gonfie vele" rimarranno attoniti come quando i cervi rimangono immobili davanti agli abbaglianti delle auto. Questo perché essi vedono il mondo attraverso un modello di previsione che è una reliquia obsoleta del passato, poiché presume che l'economia statunitense sia chiusa e che i bilanci non contino.

Al contrario, noi pensiamo che i bilanci e lo scoppio della bolla del credito globale abbiano un peso maggiore rispetto a qualsiasi altra questione. Di conseguenza quello che ci aspetta non è il ripetersi del ciclo economico keynesiano senza tempo, perché gli ultimi venti anni di folle stampa monetaria l'hanno ripudiato.

Ironia della sorte, la critica contro la grancassa del "tutto va a gonfie vele" è che questa volta è davvero diverso — radicalmente, irreversibilmente e pericolosamente. Il credito delle banche centrali è esploso da $2,000 miliardi a $21,000 miliardi sin dalla metà degli anni '90, e ciò ha trasformato l'economia globale.

In un sistema monetario sano e sonante, e basato su una qualsiasi parvenza di ciò che c'ha insegnato la storia, i bilanci combinati delle banche centrali mondiali ammonterebbero forse a $5,000 miliardi (immaginando una crescita annua del 5% sin dal 1994). La massiccia espansione al di là di questa cifra è ciò che ha alimentato la madre di tutte le bolle finanziarie.




A causa di questa gigantesca aberrazione monetaria, i circa $50,000 miliardi di PIL globale nel corso di tale periodo non sono stati trainati dalla mobilitazione di capitale onesto, investimenti redditizi e guadagni legati alla produzione del reddito e della ricchezza. Sono stati alimentati, invece, dalla più grande esplosione di credito mai immaginata — $185,000 miliardi negli ultimi due decenni.

Di conseguenza i consumi delle famiglie di tutto il mondo si sono gonfiati a causa della leva finanziaria e dei redditi gonfiati dalla forte espansione della produzione e degli investimenti. Allo stesso modo, le cifre del PIL sono state drasticamente gonfiate da una baldoria d'investimenti improduttivi alimentati dal credito a buon mercato, e non da profitti sostenibili.

In breve, le migliaia di miliardi di PIL mondiale — soprattutto quelle dello Schema Rosso di Ponzi in Cina e della sua catena di rifornitori nei mercati emergenti — rappresentano una falsa prosperità; i redditi spesi e registrati dai conteggi ufficiali rappresentano solo gli effetti della macchina del credito delle banche centrali.




Ma ora siamo all'apogeo della bolla del credito. Quasi ogni grande economia del mondo verrà abbattuta dai livelli debilitanti di debito. Secondo alcune stime sobrie, il 20% del debito cinese da $30,000 miliardi potrebbe essere non performante, e questo significa che la montagna di credito tra i suoi rifornitori è ugualmente in pericolo.

Infatti lo schema di Ponzi al cuore dell'economia globale ha raggiunto il classico punto di rottura. L'anno scorso la Cina ha generato quasi $2,000 miliardi di debito supplementare, ma quasi tutto è finito per ripagare gli interessi sulle obbligazioni. È solo una questione di tempo prima che questo castello di carte da $30,000 miliardi di debiti crolli violentemente a terra.





E questo non è solo un handicap dei mercati emergenti. La vecchia colonia di pensionati nell'arcipelago giapponese ha un debito del 400% in rapporto al PIL, e secondo le stime di McKinsey la maggior parte del resto mondo non è tanto lontano.

Di conseguenza negli anni a venire assisteremo all'inversione di questa gigantesca bolla del credito. Avendo raggiunto una condizione di picco del debito, le economie del mondo si ritroveranno a lottare tra insolvenze, bancarotte, liquidazioni, tonfi dei profitti, asset deteriorati e collasso dei multipli di valutazione.




Ciò significa che per la prima volta in quasi un secolo, il PIL mondiale si contrarrà in termini nominali — sebbene la montagna del debito sperimenterà la sua salita finale. Infatti il PIL mondiale in dollari si sta già contraendo, e per quest'anno si prevede un calo per la somma di $3,800 miliardi, o del 5%.


Prodotto planetario lordo a prezzi correnti (migliaia di miliardi, 1980-2015)
Fonte: FMI, World Economic Outlook Database, ottobre 2015.


Inutile dire che le tesi keynesiane negano l'importanza di quel 5% o, cosa ancora più importante, che segni l'inizio di un tonfo senza precedenti che durerà negli anni a venire.

Invece i nostri dotti laureati c'assicurano che l'economia mondiale sta crescendo ad un tasso del 3-4%. Infatti, in termini di parità di potere d'acquisto (PPP), la maggior parte del mondo non ha mai visto di meglio.

Ecco il punto. Il mondo gira intorno ai dollari, non alle astrazioni statistiche (come la parità di potere d'acquisto) sputare fuori dei modelli macroeconomici accademici. Infatti ogni giorno ci sono più di $4,000 miliardi in operazioni nei mercati futures e nei mercati a termine, e praticamente tutte sono denominate in dollari.

Non ci sono negoziazioni in dollari "reali", in PIL o in unità di PPP. E questo è profondamente importante, perché la bolla del debito globale da $225,000 miliardi è ancorata ai dollari.

Cioè, o è denominata direttamente in dollari, come i $60,000 miliardi di debito nei mercati del credito nazionale o i $10,000 miliardi in titoli esteri; o è denominata in cosiddetti "quasi-dollari", valute e titoli generati dai sistemi bancari e dai mercati obbligazionari esteri.

Detto in altro modo, euro, yen, yuan, won, ringgit e anche i ryial sauditi, sono "quasi-dollari". L'attuale debito denominato in tutte queste divise è emerso nei loro mercati del credito a causa delle politiche delle loro rispettive banche centrali.

In sintesi, la FED ha stampato e la PBOC, BCE, BOJ hanno seguito l'esempio. Ciò è stato fatto in nome di una visione mercantilista delle esportazioni, ovvero, le varie valute sono state agganciate al dollaro in modo da mantenere i tassi di cambio artificialmente bassi e da favorire le esportazioni.

Inutile dire che questa implacabile manipolazione dei tassi di cambio ha spinto le banche centrali estere ad accumulare enormi riserve di dollari, e a propagare il credito all'interno del proprio sistema bancario e finanziario. Per esempio la PBOC, sequestrando nel proprio bilancio caterve di dollari, ha creato enormi quantità di nuovi RMB.

E così è cresciuta a dismisura la montagna di debiti in dollari e in "quasi-dollari".

Quindi la PBOC non ha incrementato le cosiddette riserve di valute dell'80X perché Deng e i suoi successori le stavano accantonando per i giorni di magra; stava ingurgitando dollari attraverso la sua macchina delle esportazioni e pompava RMB nel suo mercato del credito interno ad un ritmo folle.




Allo stesso modo, l'Arabia Saudita ha guadagnato enormi quantità di dollari mentre la bolla del credito globale e delle spese in conto capitale hanno creato una sete inestinguibile di petrolio. Ma la banca centrale saudita ha mantenuto la propria valuta rigidamente ancorata a 3.8 riyal/dollaro, causando un'enorme espansione del suo bilancio e del credito interno.




Infatti i prestiti bancari in Arabia sono cresciuti ad un tasso annuo del 20-40% durante la prima bolla del petrolio, la quale ha raggiunto un picco di $150 al barile nel 2008 e ha continuato ad espandersi ad un tasso annuo del 10-20% fino al capitombolo a giugno 2014.




Alla fine la FED ha condotto la baldoria monetaria degli ultimi due decenni a quella che è funzionalmente una massiccia scarsità di dollari. Una volta che la FED ha smesso d'espandere il suo stato patrimoniale quando nell'ottobre 2014 ha messo fine al QE, era solo una questione di tempo prima che tutti i "quasi-dollari" del mondo finissero sotto un'enorme pressione al ribasso sui mercati FX.

I nostri stregoni keynesiani credono che il valore calante delle valute sia un fenomeno meraviglioso. Sostengono che impoverire il proprio paese sia un buon modo per stimolare le esportazioni e per innescare un circolo virtuoso di spesa e crescita del PIL.

Ma c'è un'altra cosa. Pare che sia anche un buon modo per generare una fuga di capitali e un'eventuale necessità di restringere i mercati bancari e creditizi interni al fine di fermare un crollo totale. Questo è esattamente ciò che sta accadendo oggi in Cina e in tutti i mercati emergenti.

Il caso della Cina è ben noto. Nel corso degli ultimi 15 mesi ha visto un deflusso di capitali da $1,000 miliardi, e questo nonostante un surplus delle partite correnti da $350 miliardi. Di conseguenza la PBOC ha permesso al cambio di scendere di circa il 6% e ha messo in moto i furgoni cellulari della polizia per arrestare persone e capitali che tentavano di fuggire dallo Schema Rosso di Ponzi.

Tuttavia, a meno che non si voglia imporre uno stato di polizia finanziario assoluto, i giorni cinesi di una dilagante espansione del credito interno sono finiti. Continuerà a vendere il suo tesoro già in diminuzione di riserve di valute, per evitare che il RMB sprofondi in caduta libera; e, così facendo, ridurrà inevitabilmente il credito nel sistema bancario interno.

Ci vorrà del tempo prima che l'implosione cinese dispieghi tutto il suo potenziale, perché i suzerain rossi di Pechino sono abissalmente ignoranti circa le leggi di mercato e di una moneta solida. Quindi sono contenti di scavarsi una fossa economica ancor più profonda con espedienti di breve termine intesi ad impedire un collasso dello Schema Rosso di Ponzi. Ciononostante queste misure sempre più disperate sono destinate a fallire, il che significa che ci sarà un'implosione ancora più devastante alla fine.

Tra tutti gli altri, il Brasile è il manifesto lampante di questa situazione e riflette un caso già avanzato di deflusso di dollari. I suoi governi socialisti degli ultimi dieci anni hanno avuto un debole per la dissolutezza finanziaria e la corruzione, ma non hanno imposto uno stato di polizia finanziaria come sta facendo ora la Cina.

Così, il capitale sta fuggendo in massa e si stanno prosciugando anche gli enormi surplus nelle partite correnti che incamerava in quanto epicentro della domanda cinese di materie prime.

Inutile dire che questa implosione è nata da un boom epico. Tra il 2005 e il 2011 il PIL del Brasile è cresciuto da $900 miliardi a $2,600 miliardi, o ad un tasso annuo del 20%.

Nel processo, il bilancio della sua banca centrale, i prestiti in dollari e il credito interno sono cresciuti ad un ritmo sostenuto. Ad esempio, l'estensione del credito al settore privato è cresciuto ad un tasso annuo del 27% durante il periodo del boom.

Questo genere di aumenti annuali a doppia cifra rappresentavano il biglietto d'ingresso del Brasile nella baldoria del credito globale. Sebbene la banca centrale brasiliana abbia cercato d'agganciare il tasso di cambio in modo da mantenere competitiva la macchina delle esportazioni brasiliana, non ha avuto pieno successo e, quindi, ha ottenuto un doppio smacco: un grande afflusso estero di hot money e un'espansione eccessiva e insostenibile dei suoi livelli di credito nazionale.

Sin dallo scoppio della bolla delle commodity a livello mondiale nel 2012-2013, il tasso di cambio del Brasile è risultato in caduta libera, a riflesso della contrazione delle sue partite correnti, un'intensa fuga di capitali e la comprensione da parte dei mercati mondiali che la sua economia gonfia di debiti altro non era che un incidente finanziario visto al rallentatore.

Di conseguenza il real brasiliano ha perso quasi due terzi del suo valore rispetto al dollaro. Ancora più importante, ha costretto la banca centrale del Brasile a spingere i tassi d'interesse nella terra delle doppie cifre, riducendo in tal modo il credito interno in termini reali, sebbene l'economia continui a contrarsi.




In breve, il boom brasiliano è finito e la sua economia interna sta ormai sprofondando nella peggiore recessione sin dagli anni '30. Il PIL brasiliano alla fine del 2014 era già sceso dell'11.5% rispetto al suo picco nel 2011.

Quest'anno scenderà giù di un altro 5% e il fondo non è neanche lontanamente in vista, poiché la discesa economica del Brasile verrà aggravata da una crisi di governance (cioè, accuse di corruzione e campagne d'impeachment contro il presidente e i leader legislativi).




I nostri venditori di fumo keynesiani diranno che l'implosione del PIL brasiliano è solamente un bene. Tale tesi stupida si basa su un vecchio errore che hanno ripetuto per decenni e che l'FMI ha imposto su paesi sovra-indebitati con risultati devastanti: svalutare la propria valuta rappresenta la cura per tutti i mali economici.

Il fatto è che l'economia reale del Brasile è in caduta libera, perché i suoi bilanci pubblici e privati stanno cadendo a pezzi e perché la domanda estera per i suoi prodotti industriali continua ad affondare.

In Brasile non si può scegliere un caso più drammatico di massicci investimenti improduttivi di quello nel settore siderurgico, il quale si è ora arenato poiché i prezzi globali stanno colando a picco verso i $30 a tonnellata rispetto al picco di $200. E questo shock economico sta interessando l'intera economia brasiliana.

A ottobre la produzione industriale complessiva era scesa quasi del 12% su base annua, e si prevede che continuerà a scendere anche quest'anno.




Questo aspetto economico conta perché il boom del credito era globale. Mentre le riserve in dollari vengono smobilitate in Cina, nei suoi rifornitori nei mercati emergenti, nei petro-Stati e altrove, nessun mercato finanziario sul pianeta sfuggirà ai danni collaterali.

Vale a dire, la maggior parte dei paesi del mondo, il cui debito totale ammonta a $225,000 miliardi, andrà in default mentre la recessione globale guadagnerà slancio. Ciò significa, a sua volta, che imploderanno anche le enormi bolle che sono state gonfiate dal credito facile e dalla falsa espansione economica degli ultimi due decenni.

Probabilmente il campione fatiscente del Brasile, Petrobras, rappresenta l'esempio calzante. La combinazione di petrolio a $100 al barile, una disponibilità di debito praticamente illimitata e perforazioni offshore, hanno attirato l'attenzione degli speculatori globali. Di conseguenza la capitalizzazione di mercato di Petrobras è esplosa del 25X, passando da $15 miliardi nel 2002 ad un picco di $375 miliardi alla fine del 2011.

Ora il petrolio è nel range dei $30, l'accesso a nuovo debito è precluso e il programma di perforazione è fallito in un pasticcio di corruzione e bancarotte. Di conseguenza sono andati in fumo $350 miliardi d'aria fritta.




All'indomani della gigantesca bolla del credito globale, non esiste una cosa come un'economia degli Stati Uniti "disaccoppiata". Le implosioni di Cina, Brasile, mercati emergenti, stati petroliferi e imprese del calibro di Petrobras, arriveranno molto presto anche sui nostri lidi.

E sarà allora che l'illusione keynsiana del "tutto va a gonfie vele" verrà smontata alla grande.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: http://francescosimoncelli.blogspot.it/


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