mercoledì 15 luglio 2020

L'amore del Giappone per il keynesismo potrebbe essere arrivato al capolinea

Le prestazioni economico-finanziarie del Giappone hanno raggiunto il picco nel periodo 1989-1991 e, a parte i periodici sussulti, sono rimaste stagnanti a causa della degenerazione delle finanze pubbliche. Dalla fine degli anni '80 i politici giapponesi hanno seguito scrupolosamente il consiglio di keynesiani come Paul Krugman, attuando dozzine di "schemi di stimolo". Hanno tentato di rilanciare artificialmente l'economia giapponese, non deregolamentandola, non tagliando le tasse o limitando la crescita dello stato, ma con un'enorme spesa pubblica. Nei 15 anni precedenti al 1990, la crescita della spesa pubblica e delle entrate fiscali è andata in tandem; le nuove emissioni di debito erano limitate e persino diminuite tra il 1982 e il 1990. Da allora, però, la crescita della spesa ha ampiamente superato la crescita del gettito fiscale, principalmente a causa di un tax rate elevato ed un'economia stagnante. La spesa in deficit e nuove emissioni di debito erano il mantra: la ricetta keynesiana. Decenni di spesa in deficit hanno aumentato il debito pubblico giapponese, ora al 235% del PIL. La BOJ non ha fatto niente per arginare questo esito. Nei tre decenni precedenti al 1990, prima che il vangelo keynesiano diventasse dominante in Giappone, la nazione godeva di una crescita economica robusta e sostenibile, grazie anche alla rettitudine fiscale. Poi le cose sono cambiate alla fine degli anni '80 e alla successiva adozione dei cosiddetti degli "stimoli economici". Una linea di politica sbagliata dovrebbe essere abbandonata, non emulata. Purtroppo gli Stati Uniti sin dal 2001 hanno copiato l'approccio giapponese, con un ritardo di circa un decennio. Quella che alcuni chiamarono politica fiscale/monetaria "non ortodossa" fu dapprima resa la "normalità" in Giappone. Le due nazioni si differenziano per alcuni aspetti importanti, anche dal punto di vista demografico, ma ciò non annulla le leggi dell'economia. Gli Stati Uniti e il Giappone sono stati vecchi e strabordanti assistenzialismo, i quali non possono permettersi quello che stanno facendo. La storia del Giappone segnala l'esito del copione per entrambi i Paesi: stagnazione prolungata.
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di Jason Morgan


Anche quelli abbastanza fortunati da essere sfuggiti all'infezione del virus C a Wuhan avranno ormai notato uno dei tanti effetti secondari del virus: l'interruzione delle catene di approvvigionamento. Lavoratori malati, ristoranti chiusi, accaparramento e l'improvviso picco della domanda di cose come ventilatori, mascherine e prodotti a lunga conservazioni hanno gettato in rovina il flusso globale di beni e servizi. Gli scaffali sono vuoti, le colture stanno marcendo nei campi: l'offerta e la domanda non sono più abbinate e l'economia globale sta abbondando di nodi (che poi verranno al pettine).

Anche le Poste sono nel caos. Sono andato in un ufficio postale giapponese due giorni fa e dall'impiegato mi è stato detto qualcosa che non mi aspettavo di sentire in vita mia: "Siamo spiacenti, non possiamo più inviare lettere agli Stati Uniti".

Questo effetto secondario sta dando origine ad un effetto terziario, vale a dire, un timore derivato dalla dipendenza dalle catene di approvvigionamento cinesi. Data la vicinanza del Giappone alla Cina e la crescente tendenza della Cina verso l'autoritarismo, molti giapponesi sperano che ci siano modi per fare affari senza la Cina.

Ma qualunque cosa si pensi riguardo al regime cinese, resta il fatto che sarebbe saggio che i giapponesi iniziassero a pensare seriamente a come incoraggiare le industrie nazionali.

Un suggerimento su come farlo passa dall'esame di alcuni nuovi sviluppi nell'ex-seconda economia più grande del mondo.

Il Giappone nacque dalle macerie della seconda guerra mondiale e alla fine arrivò a competere con il suo vecchio nemico grazie a ciò che molti chiamavano Japan, Inc., la denominazione generale di come le cose funzionavano qui: il "triangolo di ferro" tra industria, burocrazia e politica del Partito Democratico Liberale (LDP) che fornì il quadro generale affinché si potessero prendere grandi decisioni sulla direzionalità economica giapponese. Il Ministero del Commercio e dell'Industria Internazionale (MITI; ora METI, Ministero dell'Economia, del Commercio e dell'Industria) ed i politici dell'LDP che (come Mark Ramseyer di Harvard ha dimostrato) hanno mantenuto il MITI sulla strada politica, indirizzando risorse statali come le reti elettriche ed i fondi per la ricerca verso industrie ritenute dal governo buone per il Giappone nel suo insieme. Quindi ecco perché Japan, Inc.: una corporazione delle dimensioni di un Paese, con un settore privato capitanato dalle keiretsu, pesi massimi burocratici e addetti ai lavori politici.

Il tutto funzionava bene, almeno per un po'. Uno dei miei primi veri lavori è stato in una fabbrica nella prefettura di Ibaraki, in Giappone. La fabbrica produceva stampanti, ma la produzione era stata esternalizzata nelle zone rurali del Vietnam per ridurre i costi e le uniche persone rimaste nella sezione stampanti erano gli impiegati e gli ingegneri. Le persone della nostra sezione erano solite recarsi in Vietnam per coordinare la catena di approvvigionamento e assicurarsi che il controllo di qualità fosse conforme agli standard giapponesi. Praticamente quasi tutti i lavori legati a questo settore, che un tempo si trovavano ad Ibaraki, erano finiti nel Sud-Est asiatico, che, ironia della sorte, è stato in grado di ospitare la produzione giapponese grazie ad un enorme aiuto economico ("assistenza ufficiale allo sviluppo") proveniente proprio da Tokyo dopo la fine della seconda guerra mondiale. Japan, Inc. si era biforcata: metà voleva mantenere i benefici del welfare state in ogni ambito e la stabilità occupazionale per cui il Giappone del dopoguerra era diventato famoso; l'altra metà voleva aumentare la sua influenza nel resto dell'Asia. Ciò che piaceva a due generazioni di giapponesi del dopoguerra fu in gran parte negato alla terza. Japan, Inc. iniziò a essere visto da molti qui come una promessa vuota piuttosto che un sostanziale vantaggio per la maggior parte dei lavoratori e delle loro famiglie. Perse quindi la sua lucentezza, soprattutto quando scoppiò la bolla speculativa due decenni fa alimentata del denaro facile.

Questo, unito ad una serie di gravi scandali in cui il governo giapponese si dimostrò molto più inetto di quanto molti si fossero resi conto (dallo scandalo della corruzione di Lockheed che iniziò negli anni '50 alla risposta fallimentare al disastro di Fukushima nel 2011), pose fine a Japan, Inc. L'Abenomics, il tentativo dell'attuale primo ministro, Abe Shinzō, di rianimare l'economia giapponese con un susseguirsi di stimoli keynesiani, è l'ultimo sussulto della Japan, Inc. Molti qui stanno iniziando a sostenere soluzioni di libero mercato, un allontanamento dal paternalismo economico dei decenni passati.

A riprova di ciò, Ezaki Michio, analista politico e ricercatore, ha pubblicato un editoriale all'inizio di questo mese sul Sankei Shimbun, il giornale di riferimento per sostenibilità fiscale e chiarezza politica, chiedendo di rafforzare l'economia giapponese e contrastare la minaccia geopolitica rappresentata dal vicino comunista con... rullo di tamburi... una riduzione delle tasse. Sulla scia dei tagli fiscali di Trump del 2017 e l'effetto positivo che hanno avuto sull'economia americana, Ezaki ha sostenuto che il Giappone debba seguire l'esempio. Questo è in netto contrasto con la tendenza generale in Giappone: proprio l'anno scorso la tassa sul consumo qui è stata aumentata al 10% e gli esborsi per far fronte alle ricadute economiche del virus di Wuhan si tradurranno sicuramente in tasse ancora più elevate. Ezaki dice di tagliare le tasse, la burocrazia e lasciare che le aziende facciano di nuovo soldi.

C'è un ulteriore vantaggio in tutto ciò, sostiene Ezaki: un Giappone favorevole alle imprese è un Giappone economicamente diversificato e un Giappone economicamente diversificato non deve fare affidamento su un solo Paese per la maggior parte dei suoi bisogni essenziali. Un lato positivo dell'epidemia del virus C potrebbe essere che risveglierà il gigante addormentato della ricerca e sviluppo giapponese e rafforzerà nuovamente l'economia, ora in coma keynesiano.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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