Il manoscritto fornisce un grimaldello al lettore, una chiave di lettura semplificata, del mondo finanziario e non che sembra essere andato fuori controllo negli ultimi quattro anni in particolare. Questa una storia di cartelli, a livello sovrastatale e sovranazionale, la cui pianificazione centrale ha raggiunto un punto in cui deve essere riformata radicalmente e questa riforma radicale non può avvenire senza una dose di dolore economico che potrebbe mettere a repentaglio la loro autorità. Da qui la risposta al Grande Default attraverso il Grande Reset. Questa la storia di un coyote, che quando non riesce a sfamarsi all'esterno ricorre all'autofagocitazione. Lo stesso accaduto ai membri del G7, dove i sei membri restanti hanno iniziato a fagocitare il settimo: gli Stati Uniti.
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(Versione audio della traduzione disponibile qui: https://open.substack.com/pub/fsimoncelli/p/mining-di-bitcoin-e-banane-islandesi)
In una sconsiderata strategia di marketing ecologico per il suo Paese, il primo ministro islandese, Katrín Jakobsdóttir, ha dichiarato al Financial Times a fine marzo che la sua isola nel mezzo dell'Atlantico dovrebbe usare la sua abbondante energia non per il mining di Bitcoin ma per... coltivare mais (!).
Elogiando la sovranità alimentare in un mondo costellato da crisi energetiche, catene di approvvigionamento sconquassate e guerre, ha ampliato il suo spunto di discussione sull'attualità affermando che “Bitcoin è un problema mondiale”, che “i data center in Islanda utilizzano una quota significativa della nostra energia verde” e che, secondo un nuovo piano energetico per il futuro, Bitcoin non ne avrebbe avuto alcun ruolo.
Dalle dichiarazioni della signora Jakobsdóttir possiamo imparare molto su commercio, energia, agricoltura, mining di Bitcoin e ostentazione politica, quindi approfondiamo.
Innanzitutto se non avete capito cosa fa Bitcoin, come le macchine per il mining (“ASIC”) proteggono la rete o perché è importante per il mondo, qualsiasi energia consumata dai suoi computer, dalle sue macchine per il mining o dai suoi wallet hardware vi sembrerà uno spreco. Ma questo non è il punto: le democrazie liberali occidentali non allocano l'elettricità in base ai casi d'uso che i loro attuali funzionari pubblici ritengono utili, ma lasciano che i singoli individui paghino per le necessità che loro ritengono preziose. Pensate a tutte quelle abbuffate di Netflix, ai videogiochi o alle decorazioni natalizie, che consumano tutte quantità di elettricità simili a quelle del mining globale di Bitcoin.
In secondo luogo l'elettricità totale utilizzata dai data center in Islanda (solo alcuni di essi fanno mining) è stata di 1.169 GWh nel 2021, circa il 6% del consumo totale del Paese, ovvero poco più del consumo di tutte le famiglie messe insieme. Tale consumo è completamente sminuito dall'elefante energetico nella stanza: l'industria dell'alluminio. Circa due terzi dell'elettricità nazionale (ovvero 12.454 GWh, ovvero 11 volte il consumo totale dei data center, ovvero circa il 20% del consumo energetico totale, quest'ultimo dato include anche il riscaldamento e la benzina) viene utilizzato per trasformare la bauxite importata in alluminio destinato all'esportazione. È un'attività piuttosto redditizia. Le tre fonderie di alluminio del Paese contribuiscono all'economia islandese quasi quanto il settore turistico, molto più noto e pubblicizzato.
È anche per questo che Daníel Jónsson, amministratore delegato di GreenBlocks, un'azienda di mining, ha aperto il suo editoriale sul quotidiano islandese Visir criticando la Jakobsdóttir con la proposta di una centrale idroelettrica in Etiopia. L'energia e l'elettricità inutilizzate sono una calamita per i miner di Bitcoin, poiché prendono l'elettricità che non può essere prontamente utilizzata per altri scopi e la trasformano in una delle risorse più liquide e trasferibili a livello mondiale.
Jónsson osserva che il principio “non è poi così diverso dal percorso intrapreso dall'Islanda negli anni '60, quando [gli islandesi] decisero di costruire centrali elettriche ed esportare elettricità [...] per l'industria dell'alluminio”. Sebbene gli islandesi abbiano molto da dire sugli impianti geotermici e sulle dighe fluviali, è innegabile che il popolo islandese viva bene anche grazie al successo dell'esportazione di elettricità.
Il mining di Bitcoin è solo un altro modo per fare la stessa cosa: trasformare l'energia intrappolata, con pochi usi alternativi, in qualcosa che il resto del mondo desidera avere.
In terzo luogo, il mais?! Davvero?! La mentalità da pianificazione centralizzata coinvolta qui è sorprendente. A 64 gradi nord in un paesaggio aspro con poche superfici pianeggianti o terreni coltivabili come invece negli infiniti campi di mais del Midwest, dove per otto mesi all'anno non cresce altro che ghiacciai e cumuli di neve, dove le risorse naturali più abbondanti sono pesci, cascate e calore geotermico, si vuole coltivare mais?
Certo, proprio come le stampanti di banconote infinite possono permettere a qualsiasi azienda, organizzazione o governo di sopravvivere, l'elettricità infinita può far accadere la maggior parte delle cose. Di conseguenza in Islanda si può coltivare di tutto, compresi i pomodori locali – che invadono i negozi di Reykjavík – e fichi, arance e banane – che crescono invece in una serra gestita da un'università a un'ora dalla città (a quanto pare in Islanda si coltivano banane dagli anni '50, anche se non sono mai diventate commercialmente redditizie poiché la scarsa luce solare, anche integrata con quella artificiale, fa maturare una pianta di banana in circa due anni rispetto ai pochi mesi necessari in Sud America o in Africa).
In quarto luogo il valore economico del commercio. Nel suo libro, The Myth of the Rational Voter, l'economista Bryan Caplan della George Mason University documenta come una delle differenze tra la popolazione e gli economisti sia il grado di esitazione nell'interagire con gli stranieri, in particolare per quanto riguarda il valore del commercio estero. Mentre gli economisti, alla lavagna, iniziano a blaterare di Ricardo o del vantaggio comparato, i cittadini comuni tendono a pensare a localismo, perdita di posti di lavoro e delocalizzazione.
Forse la popolazione di un Paese, affamata di banane, potrebbe essere meglio rifornita coltivandole utilizzando abbondante elettricità locale, anche se il clima e la scarsa insolazione invernale non sono adatti. Oppure si potrebbe ottenere frutta in quantità maggiore, più economica e di migliore qualità acquistando bauxite dall'estero, investendovi due terzi dell'elettricità nazionale, trasportando all'estero l'alluminio risultante e infine facendo tornare altre navi e aerei con banane e pomodori freschi.
I giornalisti del Financial Times hanno aggiunto con naturalezza che “l'Islanda produce la maggior parte dei prodotti animali che consuma, ma solo l'1% dei suoi cereali e il 43% delle sue verdure”, come se queste fossero statistiche in qualche modo rilevanti. Lo stesso si può dire di una città o di una famiglia (“[...] produce solo circa l'1% del suo consumo alimentare e il 5% delle sue verdure, in gran parte dal suo orto estivo”); non hanno alcun significato economico.
Prendiamo ad esempio New York City. Nonostante i numerosi orti comunitari e gli sforzi considerevoli compiuti negli ultimi anni dalle autorità per sostenere i prodotti locali in città, possiamo tranquillamente supporre che solo una miseria del cibo consumato ogni giorno a Manhattan venga coltivata lì. Nessuna persona sana di mente pensa che questo sia un problema. In economie integrate e monetarie con facile accesso ai trasporti e al commercio internazionale, queste cose non contano più.
Il sistema economico è controintuitivo in questo senso: ciò che a un osservatore superficiale può sembrare una follia assoluta, può avere perfettamente senso. È meglio coltivare le mele localmente o farsele spedire dalla Nuova Zelanda? L'Islanda dovrebbe coltivare banane, fichi e mais, o utilizzare l'energia per fornire circa il 2% dell'alluminio mondiale?
Nonostante la “disastrosa” carenza di produzione agricola dell'Islanda, il Paese è ben fornito di cereali e ortaggi tutto l'anno, proprio come agli abitanti di New York non mancano frutta e verdura fresche. L'idea risale ai dibattiti sulle Corn Laws del 1800 e, dopo la vittoria del libero scambio, la Britannia ha esplicitamente fatto affidamento sugli stranieri per il suo sostentamento. Un gran bell'affare.
Utilizzando calcoli economici e profitti/perdite derivanti dal sistema dei prezzi, possiamo trovare la risposta a queste domande: se un'azienda o un'attività realizza un profitto è la conferma che il prodotto è stato valutato positivamente dai consumatori rispetto a ciò che è stato impiegato per realizzarlo.
Ma forse possiamo fare entrambe le cose? Un computer ASIC è poco più di una rumorosa stufa dotata di alcuni processi di hashing, i quali convertono quasi tutta l'elettricità consumata in calore. Se i funzionari pubblici islandesi volessero coltivare più pomodori, banane, o mais utilizzando l'elettricità verde di cui la loro terra è così benedetta, potrebbero semplicemente piazzare qualche ASIC nelle loro serre.
Immaginate: potreste acquistare verdure islandesi coltivate localmente e proteggere la più grande rete monetaria digitale del mondo. Forse la coinbase guadagnata da miner Bitcoin potrebbe pagare uno staff di ricerca proprio su Bitcoin presso l'ufficio del Primo Ministro islandese.
[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/
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