martedì 12 marzo 2024

La morte del denaro facile è stata sopravvalutata

 

 

di Brendan Brown

I resoconti sulla fine dell’attuale ciclo di allentamento monetario, parafrasando Mark Twain, sono stati estremamente sopravvalutati. Le analisi di mercato contemporanee sono piene di commenti di come la FED e la BCE stiano ridimensionando la precedente volontà di un taglio dei tassi in primavera e lodano le banche centrali, in particolare la FED, per aver dimostrato indipendenza politica in vista delle elezioni.

Il quadro più ampio suggerisce il contrario: all’indomani della crisi sanitaria la politica monetaria è stata ancora una volta palesemente influenzata dalla politica.

Sì, sia negli Stati Uniti che in Europa, le banche centrali hanno avuto la faccia tosta di rivendicare il merito di aver rallentato l’aumento dei prezzi al consumo. La verità è che hanno approfittato dell’aumento dal lato dell’offerta derivante dall’attenuarsi delle dislocazioni durante la crisi sanitaria per perseguire un’inflazione monetaria continua, ma ora parzialmente camuffata. Con una moneta sana/onesta i prezzi al consumo sarebbero tornati ai livelli pre-pandemia; infatti alcuni vecchi sintomi – e anche alcuni nuovi – dell’inflazione degli asset nell’ultimo anno circa svelano l'arcano.


Quando il sistema bancario centrale promuove il denaro facile durante un anno elettorale

Una sequenza di tagli dei tassi prima delle elezioni non è essenziale per dimostrare una polarizzazione motivata politicamente, anche se alcuni episodi saltano palesemente all'occhio nel piccolo laboratorio della storia. Il più noto fu la linea di politica della FED durante la presidenza Arthur Burns nel periodo precedente la rielezione di Nixon nel novembre 1972, seguita un anno dopo dall'inizio di un crollo del mercato azionario e da una recessione. Meno evidenziato nei libri di storia, ma altrettanto significativo, è stato il ciclo di allentamento in vista delle elezioni americane nel 2004. 

Iniziò con la nomina da parte del presidente Geroge W. Bush del famoso neo-keynesiano Ben Bernanke a governatore della FED nell’ottobre 2002 e successivamente con la negoziazione di una proroga di metà mandato per Alan Greenspan come presidente. Il risultato: la politica monetaria intraprese un “percorso fortemente stimolatorio”, evidenziato dai tagli dei tassi fino a livelli allora anormalmente bassi. La continua crescita della produttività, guidata dalla rivoluzione informatica, e l’esplosione della globalizzazione incentrata sulla Cina, contribuirono a mantenere bassa l’inflazione dei prezzi al consumo almeno fino al giorno delle elezioni. All’epoca la conclusione della Grande Crisi Finanziaria era ancora lontana più di due anni.

L’attuale ciclo della politica monetaria non è radicato nei tagli dei tassi a livelli anormalmente bassi, piuttosto la grande decisione nella politica monetaria è stata quella di bloccare l’enorme perdita di potere d’acquisto del denaro durante la crisi sanitaria, pur continuando con un orientamento inflazionistico. Di conseguenza alla fine del 2023 il dollaro e l’euro hanno perso rispettivamente il 17 e il 15% del loro potere d’acquisto sin dalla fine del 2019.

Cosa si nascondeva dietro questa decisione? Ovviamente non esiste alcuna traccia scritta nella propaganda della FED (e della BCE) o nelle deliberazioni del Congresso (e del Parlamento). Gli indizi più importanti provengono dal silenzio di tutte le parti sulle considerazioni principali: l’agevolazione della spesa pubblica e l’imposizione di ingenti tasse tramite l’inflazione dei prezzi, la contropartita di un forte taglio del valore reale del debito pubblico al di sotto di una linea di tendenza in forte aumento. Sia chi nomina i governatori delle banche centrali che i ratificatori parlamentari/congressuali si sono uniti a tal processo decisionale.

Il proseguimento di una politica monetaria lassista può essere visto in vari sintomi dell'inflazione dei prezzi degli asset: temperature elevate in alcuni settori del mercato azionario, una crescita dilagante del credito privato e, sì, spread creditizi ai minimi storici nei mercati del credito pubblico ad alto rendimento (tranne per i titoli di qualità molto scadente). È vero, alcuni dati hanno indicato una certa resilienza superficiale, ma essi confondono solo le acque data la disfunzione del sistema monetario e la disintermediazione incentivata dalla burocrazia incalzante.


La strategia della FED

I banchieri centrali sono fermamente convinti che stanno portando avanti una linea di politica disinflazionistica, puntando il dito a tassi nominali elevati e rendimenti reali normalizzati nel mercato TIPS (Treasury Inflation-Protected Securities).

E a quanto pare non importa se i tassi d'interesse nominali siano una guida lacunosa per le condizioni monetarie, o se i rendimenti reali nel mercato TIPS potrebbero essere ben più bassi dopo un aggiustamento ai premi di liquidità; senza contare poi le distorsioni nel calcolo dell’IPC e il possibile ripudio delle clausole d'indicizzazione. I bassi spread creditizi ricordano un altro periodo di elevata inflazione monetaria accompagnata da alti tassi d'interesse nominali: la seconda grande inflazione del 1976-77 (che si sovrappose alla fallita campagna di rielezione del presidente Ford).

Quando e dove ha avuto luogo questa decisione politica di proseguire lungo la strada dell’inflazione monetaria? Nel caso delle nomine della FED, la rinomina di Powell all’inizio del 2022 rappresenta una componente importante della risposta. La Casa Bianca e i ratificatori del Senato hanno senza dubbio capito che questi individui non si sarebbero allontanati dal percorso più conveniente dal punto di vista politico, soprattutto quando era in corso un mega aumento della spesa fiscale.

Su questa strada non vi è alcuna ragione convincente per tagliare i tassi adesso. Un taglio potrebbe arrivare a metà anno per simboleggiare il trionfo sull’inflazione tornata in linea con gli obiettivi della banca centrale e un atterraggio morbido. Implicitamente il calcolo politico si è basato sul presupposto che gli elettori non avrebbero messo in dubbio il trionfo sull’inflazione dei prezzi e che avrebbero ignorato la perdita cumulativa di potere d’acquisto del denaro, sebbebe alcuni sondaggi suggeriscano il contrario.


La situazione in Europa

Nel caso dell’Europa il ciclo monetario influenzato dalla politica ha origine in Germania. Il potere di nomina, soprattutto da parte dell’egemone tedesco, ha svolto un ruolo chiave nell’esercitare un’influenza della politica sull'impostazione della politica monetaria.

Nel crepuscolo della sua amministrazione la cancelliera Merkel espresse il proprio sostegno a Christine Lagarde come nuovo presidente della BCE piuttosto che sostenere la linea più dura del presidente della Bundesbank, Jens Weidmann. Ciò coincideva con la strategia, alla fine fallita, del suo partito CDU di fare campagna elettorale per i voti del centrosinistra filoeuropeo piuttosto che dell'estrema destra. Poi, alla fine del 2021, il nuovo cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz ha nominato Joachim Nagel – il vice capo della sezione regolamentazione bancaria presso la BRI – presidente della Bundesbank invece di selezionare un accademico di tradizionale convinzione monetarista.

Le elezioni tedesche sono previste per il 2025, ma potrebbero svolgersi prima a causa dell’attuale crisi nei colloqui sul finanziamento del bilancio tra i partner della coalizione di governo. Le elezioni imminenti sono già una forza da non sottovalutare per spiegare la politica monetaria europea. Le grandi sfide per gli attuali partner della coalizione (SPD, Verdi, FDP) includono l’ascesa dell’estrema destra (ADP) e un nuovo partito populista nell’estrema sinistra.

Di conseguenza Berlino non prende sul serio la disinflazione, ma nei suoi messaggi presenta comunque una patina di rispetto per la moneta forte, in modo da non turbare gli elettori nostalgici dell’era del marco tedesco. Quindi non ha senso alcuna fretta di tagliare i tassi. Ogni capo della BCE, inclusa l’attuale ex-politica Christine Lagarde, esercita un’abile diplomazia su Berlino, dato che la Germania è fondamentale per la continuazione dell’Unione monetaria europea.

Con l’evolversi dell’apparente resistenza su entrambe le sponde dell’Atlantico nei confronti di tagli anticipati dei tassi, ci sono due importanti scenari alternativi da prendere in considerazione. Il primo è un accumulo endogeno di pressione che poi sfocerà in crisi finanziaria; il secondo prevede che l’inflazione dei prezzi degli asset acquisisca slancio nel corso dell’anno.

Le dinamiche politiche innescherebbero un taglio dei tassi in risposta a qualsiasi rischio percepito di deflazione dei prezzi degli asset. Le lezioni apprese dalla ritardata risposta monetaria ai terremoti creditizi iniziati nella primavera del 2007 sono ben note agli strateghi politici di oggi. Finora, però, non si registrano terremoti, ma difficoltà per le piccole banche non sistemiche negli Stati Uniti, in Germania, Svizzera e Giappone. Il problema è stato sempre il coinvolgimento in crediti inesigibili su immobili commerciali e gran parte del problema negli Stati Uniti è costituito da immobili adibiti ad uffici.

Il secondo scenario, caratterizzato da un’intensificata inflazione dei prezzi degli asset, non produrrebbe alcuna azione. Una virulenta inflazione dei prezzi degli asset si manifesterebbe sotto forma di nuove spinte speculative in importanti settori dei mercati insieme a un ulteriore calore nei mercati del credito. Questo accumulo di inflazione dei prezzi degli asset potrebbe andare di pari passo con un continuo calo dei dati pubblicati sull’indice dei prezzi al consumo, un precursore con un notevole ritardo rispetto all’altro sintomo dell’inflazione monetaria: l’aumento dell’inflazione effettiva dei prezzi al consumo. La logica nella politica sarebbe contraria a qualsiasi risposta preventiva.

In sintesi, l’attuale politica monetaria motivata politicamente potrebbe produrre una ricaduta in un’inflazione intensificata seguita da una crisi, forse ben oltre le imminenti elezioni. Oppure la deflazione dei prezzi degli asset potrebbe emergere prima delle elezioni e portare a una risposta monetaria immediata e forte.

L’entità dell’inflazione monetaria presente e futura e i tempi, o l’entità, dell’inflazione o della deflazione dei prezzi degli asset sono – come sempre – una questione di congetture per i contemporanei. Infatti questa volta le cose potrebbero essere ancora più difficili da prevedere a causa dei problemi legati ai dati e al grado di disfunzionalità del sistema monetario. Come dicono i francesi, plus ça change plus ç'est la même choose – più le cose cambiano, più restano uguali.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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1 commento:

  1. Le persone sono portate a credere che una crescita depressa, il calo dei salari reali e l’inflazione dei prezzi persistente siano fattori esterni che non hanno nulla a che fare con gli stati, soprattutto da quei clown della MMT. La spesa in deficit è un surrogato della stampa di denaro dal nulla e ne erode il potere d’acquisto distruggendo al tempo stesso le opportunità d'investimento nel settore privato. Il peso dell’aumento delle tasse e dell’inflazione dei prezzi ricade sulla classe media e sulle piccole imprese. I deficit pubblici non rappresentano né un risparmio per il settore privato, né uno strumento di crescita; il debito pubblico è un macigno sull’economia e provoca uno stallo della produttività, un aumento delle tasse e il crowding-out dei finanziamenti per il settore privato. Se vi chiedete perché i vostri salari servono a pagare meno beni e servizi e perché per la classe media è sempre più difficile prosperare, la colpa è del deficit pubblico e del debito pubblico. Erodono il potere d’acquisto dei risparmi reali e dei salari sotto la falsa promessa di crescita e sicurezza finanziaria. Gli elevati livelli di debito funzionano come un'idrovora: sottraggono risorse agli investimenti produttivi e soffocano l’innovazione e l’imprenditorialità. Inoltre l’onere del servizio del debito impone un pesante tributo alle generazioni future, deviando fondi dalla spesa per le infrastrutture e gravando i futuri contribuenti con un fardello schiacciante.

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