venerdì 7 aprile 2023

Keynes era un liberale?

 

 

di Ralph Raico

E’ ormai pratica comune classificare John Maynard Keynes come uno dei grandi liberali della storia moderna, forse il più “grande”, nella tradizione di John Locke, Adam Smith e Thomas Jefferson.[1] Come questi uomini, viene generalmente sostenuto, Keynes era un sincero — anzi, esemplare — credente nella società libera. Se differiva dai liberali “classici” in alcuni modi evidenti ed importanti, era semplicemente perché cercava di aggiornare l’idea liberale per soddisfare le condizioni economiche di una nuova era.

Non c’è dubbio che in tutta la sua vita Keynes approvò diversi valori culturali, come la tolleranza e la razionalità, che sono spesso indicati come “liberali”, e, naturalmente, si è sempre definito un liberale (così come un Liberale — cioè, un sostenitore del Partito Liberale Inglese). Ma niente di tutto questo ha un peso rilevante quando si tratta di classificare il pensiero politico di Keynes.[2]

Prima facie, Keynes come modello liberale è già paradossale data la sua adesione alla dottrina mercantilista. Quando The General Theory of Employment, Interest, and Money (Keynes 1973b) apparve nel 1936, W.H. Hutt stava per mandare in stampa il suo Economists and the Public (1936). Negli anni successivi, Hutt avrebbe sottoposto a critiche dettagliate ed approfondite il sistema di Keynes (Hutt 1963, 1979), ma a questo punto poteva solo inserire in fretta alcune osservazioni iniziali. Ciò che lo colpì più di tutto fu che questo famoso economista “ci vorrebbe far credere che i Mercantilisti avessero ragione e ed i loro critici Classici invece torto” (una posizione esposta nel capitolo 23 della General Theory) (Hutt 1936, p. 245).

Hutt stava scrivendo dal punto di vista della scienza economica. Qui abbiamo a che fare con l’integrità del liberalismo come filosofia sociale. Se, come ho sostenuto altrove (Raico 1989, 1992, 1999, pp 1—22), la dottrina liberale è caratterizzata storicamente da un ripudio del paternalismo del welfare state assolutista, è caratterizzata ancora di più dal suo rifiuto della componente mercantilista nell’assolutismo del 18° secolo. Come può uno scrittore che ha cercato di riabilitare il mercantilismo essere annoverato tra i grandi liberali?[3]

In difesa di Keynes, Maurice Cranston sostiene che nessuno negherebbe l’inclusione di John Locke nelle fila liberali nonostante la sua adesione al mercantilismo (1978, p. 111). Se Locke sposò il mercantilismo è discutibile; Karen Vaughn (1980) ha fornito delle basi per credere il contrario. Ma anche fosse stato mercantilista, ciò non avrebbe prestato alcun supporto alla tesi di Cranston; Locke è giustamente visto come un grande liberale non a causa delle sue opinioni sulla teoria economica e politica, qualunque possano essere state, ma in virtù della sua visione libertaria dei diritti naturali e quello che credeva sarebbe seguito da tale visione.[4]


Il sistema keynesiano

Secondo i suoi sostenitori e se stesso, la dedizione di Keynes al neomercantilismo è stata resa necessaria dalla sua scoperta di difetti fondamentali nell’economia classica. La teoria classica, secondo lui, si è dimostrata impotente sia a spiegare le cause dell’elevata disoccupazione cronica della Gran Bretagna negli anni ’20 sia la Grande Depressione, mentre la sua General Theory  ha spiegato entrambe le cose. Ha compiuto questa impresa esponendo i difetti interni dell’economia di mercato senza una direzione, attuando quindi una “rivoluzione” nel pensiero economico.

Eppure le particolari crisi a cui Keynes ha reagito erano esse stesse i prodotti di politiche di governo sbagliate. La persistenza dell’elevata disoccupazione in Gran Bretagna è riconducibile in parte alla decisione di Winston Churchill come Cancelliere dello Scacchiere di tornare all’irrealistica parità aurea prebellica e in parte agli alti sussidi di disoccupazione (rispetto ai salari) disponibili dopo il 1920. La Grande Depressione è stata generata in primo luogo dalla gestione monetaria del governo, in particolare dalla Federal Reserve degli Stati Uniti. Entrambe queste crisi sono suscettibili di spiegazioni per mezzo di analisi economiche “ortodosse”, che non richiedono una “rivoluzione” teorica (Rothbard 1963; Johnson 1975, pp 109—12; Benjamin e Kochin 1979; Buchanan, Wagner, e Burton 1991).[5]

Come Hutt ha notato, Keynes nella General Theory ha voltato le spalle a tutte le autorità riconosciute, da Hume e Smith a Menger, Jevons e Marshall, Wicksell e Wicksteed. Quei pensatori, qualunque fosse il loro livello di aderenza al puro laissez-faire, sostenevano almeno che l’economia di mercato conteneva forze di auto-correzione che rendevano temporanee le depressioni economiche. Keynes, scartando i suoi predecessori “ortodossi” (ed i contemporanei), si allineò con quello che lui stesso chiamò il “valoroso esercito deglii eretici”, Silvio Gesell, J.A. Hobson ed altri riformisti sociali e socialisti critici del capitalismo che gli economisti mainstream avevano liquidato come “eccentrici” (Friedman, 1997, p. 7).

In un saggio popolare del 1934, Keynes si era già schierato con questi “eretici”, scrittori “che rifiutano l’idea che l’attuale sistema economico si possa, in ogni senso significativo, auto-correggere[...]. Il sistema non si può di per sé auto-correggere e, senza una direzione intenzionale, è incapace di tradurre la nostra povertà attuale in una potenziale abbondanza” (1973a, pp 487, 489, 491). La General Theory era destinata a fornire il quadro analitico per giustificare questa posizione.

Le variazioni di prezzi, salari e tassi di interesse, secondo Keynes, non svolgono la funzione attribuita loro dalla teoria economica standard — la tendenza a generare un equilibrio di piena occupazione. Il livello dei salari non ha alcun effetto sostanziale sul volume dell’occupazione; il tasso di interesse non serve per equilibrare il risparmio e gli investimenti; la domanda aggregata non è normalmente sufficiente a produrre la piena occupazione e così via. I falsi presupposti, incoerenze concettuali e non sequitur che viziano queste affermazioni stravaganti sono state spesso confutate (ad esempio, Hazlitt nel 1959, [1960] 1995; Rothbard 1962, p. 2;: passim; Reisman 1998, pp 862-94 ).[6] Come James Buchanan riassume, “Semplicemente non c’è alcuna evidenza che suggerisce che le economie di mercato siano intrinsecamente instabili” (Buchanan, Wagner, e Burton 1991, p. 109).

In ogni caso, non tutti i sistemi che conservano gli elementi dell’ordine di mercato secondo la proprietà privata possono essere ragionevolmente considerati liberali. Nella storia moderna, c’è stato, notoriamente, un sistema che ha incluso la proprietà privata ed ha permesso ai mercati di operare in maniera ristretta e limitata. I suoi sorveglianti, invece, insistettero sul ruolo prioritario dello stato, senza il quale, credevano, la vita economica sarebbe sprofondata nell’anarchia. Il liberalismo economico nacque come reazione contro questo sistema, che viene chiamato mercantilismo.

Altrettanto cruciali per la questione in discussione sono i modi in cui gli errori di Keynes indebolirono la fiducia nell’ordine del libero mercato e spalancarono le porte alla crescita colossale del potere statale.

Murray Rothbard fa notare che Keynes postulò un mondo in cui i consumatori sono dei robot ignoranti e gli investitori sono sistematicamente irrazionali, guidati dai loro ciechi “spiriti animali” e concluse che il volume complessivo degli investimenti doveva essere affidato ad un deus ex machina, una “classe esterna al mercato [...] l’apparato statale” (Rothbard 1992, pp. 189—91). Keynes si riferisce a questo processo come “la socializzazione degli investimenti”. Come dichiara nella General Theory: “mi aspetto di vedere lo stato, che è in grado di calcolare l’efficienza marginale di lungo termine dei beni capitali secondo un generale vantaggio sociale, assumersi una responsabilità sempre maggiore per organizzare direttamente gli investimenti” (1973b, p. 164). Sosteneva la creazione di un Consiglio Nazionale degli Investimenti. Ancora nel 1943, stimava che tale autorità avrebbe dovuto influenzare direttamente “due terzi o tre quarti degli investimenti totali” (Seccareccia 1994, p. 377).[7]

Robert Skidelsky insiste sul fatto che in questi casi Keynes non aveva in mente lo stato nel senso di un governo centrale (1988, pp. 17—18), piuttosto quei “corpi semiautonomi all’interno dello stato” di cui parlava nel 1924, “organismi il cui criterio di azione all’interno del loro campo è solo il bene pubblico come essi lo intendono e dalle cui deliberazioni sono esclusi motivi di vantaggio privato” (Keynes, 1972, pp 288—89). Skidelsky, tuttavia, sembra dimenticare i problemi di questi concetti altisonanti.

Keynes non specificò mai come tali organismi dovessero operare, non diede mai alcun motivo di credere che sarebbero stati in grado di calcolare “l’efficienza marginale del capitale” (un concetto del tutto confuso, in ogni caso; consultare Hazlitt 1959, pp. 156—70; Anderson [1949] 1995, pp. 200—205) e non indicò mai in che modo sarebbero rimasti incontaminati da motivi di vantaggio privato (incluse le ideologie personali).[8] Inoltre, dato che Keynes garantiva che questi “organismi semi-autonomi” sarebbero stati “in ultima istanza soggetti alla sovranità della democrazia espressa attraverso il Parlamento” (1972, pp. 288—89), come poteva essere impedito loro di diventare a tutti gli effetti agenzie dello stato centrale?

Se la dottrina centrale del liberalismo è che, data l’adesione istituzionale ai diritti di vita, libertà e proprietà, la società civile può contare in linea di massima su un funzionamento senza ingerenze centrali e se, in breve, l’esempio del liberalismo è la capacità dell’economia di mercato di funzionare senza che venga ostacolata, allora la “Rivoluzione Keynesiana” segnala l’abbandono del liberalismo.

Nel giro di pochi anni, il Keynesismo ha trionfato tra gli economisti di primo piano del mondo accademico e del governo, diventando dopo la Seconda Guerra Mondiale la dottrina ufficiale nei paesi avanzati. Gli amministratori del Piano Marshall ed i loro alleati alla Commissione Economica Europea delle Nazioni Unite lo imposero, come fecero gli amministratori del Programma di Ripresa Economica Europea. L’Italia, ad esempio, “è stata costantemente invitata ad adottare misure reflazionistiche da entrambe queste agenzie” (de Cecco 1989, pp. 219—21).[9]

Anche se la Germania Ovest, sotto la guida di Ludwig Erhard e consigliata da economisti come Wilhelm Röpke, resistette, in Gran Bretagna, entrambi i partiti maggiori sostennero la manipolazione Keynesiana della domanda come mezzo per la piena occupazione, come obiettivo principale. Negli Stati Uniti, l’Employment Act del 1946 riconobbe il ruolo primario del governo federale nel garantire la massima occupazione attraverso operazioni fiscali. I risultati di questa rivoluzione furono disastrosi.

Prima di Keynes, il pareggio di bilancio era stato l’obiettivo dei governi, dei paesi civili, almeno. Il Keynesianismo invertì questa “costituzione fiscale”. Rendendo i governi responsabili della politica “anticiclica” fiscale ed ignorando la tendenza dei politici miopi ad accumulare deficit, impostò le basi per un aumento senza precedenti della tassazione e del debito pubblico nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale (Buchanan 1987; Rowley 1987b; Buchanan, Wagner, e Burton 1991).

A volte viene sostenuto che Keynes “non era un Keynesiano”, nel senso che non può essere ritenuto responsabile per le applicazioni della sua teoria da parte dei suoi seguaci. Eppure, con quale altro “grande” o “modello” liberale abbiamo una cerchia di accoliti molto influente che interpreta il tutto in senso nettamente anti-liberale? Come Michael Heilperin osserva in modo beffardo: “Se [Keynes] era un liberale, allora era quello straordinario tipo di liberale i cui suggerimenti pratici promuovono costantemente il collettivismo” (1960, p. 125).


Regole o “discrezione”?

Diversamente dalle ideologie dapprima assolutiste e poi collettiviste, il liberalismo si caratterizza per la sua insistenza di regole nella vita politica come nella vita economica (cfr. Hayek 1973, pp 56—59). Lo stato di diritto come fondamento della Rechtsstaat è un esempio evidente, così come la dottrina del laissez-faire, a cui anche John Stuart Mill si sentì obbligato ad appoggiare solo a parole come (facilmente difendibile) principio (“Il laissez-faire, inbreve, dovrebbe essere la prassi generale”). La flessibilità massima e libertà d’azione nell’esercizio del potere non sono caratteristiche che possono fare riferimento ai liberali; “Un governo di leggi, non di uomini”, è un noto slogan liberale.[10]

Murray Rothbard osservò che Keynes era, per così dire, in opposizione al principio, per principio (1992, 177).[11] Non è esagerato dire che Keynes era costituzionalmente contrario alle regole o “dogmi”, come egli spesso li chiamava. Questo atteggiamento dominò il suo pensiero durante tutta la sua vita. Nel 1923 dichiarò: “quando le grandi decisioni devono essere prese, lo stato è un organo sovrano il cui lo scopo è quello di promuovere il maggior bene per tutti. Quando, dunque, entriamo nella sfera d’azione dello stato, tutto deve essere considerato e valutato per i suoi meriti” (1971a, pp. 56—57).

Nei suoi ultimi anni, Keynes trovò “molta saggezza” nella proposizione secondo cui lo stato dovrebbe “occupare il posto vacante dell’imprenditore in capo”, “interferire con la proprietà o la gestione di particolari imprese [...] [solo] nel merito del caso e non per volere del dogma”(1980, p. 324). In una lettera a Friedrich A. von Hayek, a proposito del libro di recente pubblicazione dello stesso Hayek The Road to Serfdom, Keynes lo rimproverò per non essersi reso conto conto che “atti pericolosi possono essere commessi in modo sicuro in una comunità che pensa e percepisce giustamente, il che sarebbe la strada per l’inferno se fossero eseguiti da coloro che pensano e percepiscono in modo sbagliato”(1980, pp. 387-88).

Questa opposizione ad agire strettamente in linea di principio, sostiene Robert Skidelsky, è il cuore del “secondo risveglio del liberalismo” di Keynes (dopo il precedente “Nuovo Liberalismo” della scuola Hobhouse): Keynes mirava a “sovrapporre una filosofia manageriale [...] una filosofia di intervento ad hoc basato sul pensiero disinteressato” (1988, p. 15). Alec Cairncross dichiara: “Odiava l’asservimento alle regole. Voleva che i governi avessero discrezione e voleva che gli economisti accorressero in suo aiuto nell’esercizio di tale potere discrezionale” (1978, pp. 47—48). Eppure è proprio la natura ad hoc dell’approccio di Keynes, la sua fede in uno strano ed incorporeo “pensiero disinteressato,” e la sua predilezione per la “discrezione” del governo svincolata dai limiti di principio che vanno contro la più piccola venatura di dottrina liberale.[12]

Il liberalismo autentico ha sempre nutrito una profonda sfiducia negli agenti dello stato, per il fatto che deficitano di competenza o di distacco o di entrambi. L’affidamento noncurante di Keynes negli esperti economici il cui saggio consiglio sarebbe attuato con la abnegazione dei politici corrobora questo sospetto del tutto giustificato e tutte le prove storiche e teoriche che lo sostengono. In termini contemporanei, è in contraddizione con gli insegnamenti associati alla scuola public choice.[13]


L’utopia di Keynes

Keynes dava spesso sfogo ad elucubrazioni sulla natura della società futura. Poiché i suoi scritti sono pieni di contraddizioni,[14] è stato possibile per alcuni dei suoi seguaci sostenere che quello che in fondo voleva era semplicemente “far sposare la piena occupazione con il liberalismo classico”, che “il suo modello era più che altro ‘capitalismo più completa occupazione’ e lui era relativamente ottimista sulla fattibilità del macro-controllo” (Corry 1978, pp. 25, 28).

In tutta la carriera di Keynes, tuttavia, appaiono chiare indicazioni del suo desiderio di un ordine sociale molto più radicale — nelle sue parole, una “Nuova Gerusalemme” (O’Donnell 1989, pp. 294, 378 n. 27). Confessò di aver giocato nella sua mente “con la possibilità di maggiori cambiamenti sociali che rientrano nella filosofia attuale” anche di pensatori come Sidney Webb. “La repubblica della mia immaginazione si trova all’estrema sinistra dello spazio celeste” pensò (1972, p. 309). Numerose dichiarazioni sparse nel corso dei decenni hanno fatto luce su questa confessione un po’ oscura. Nel loro insieme, confermano la tesi di Joseph Salerno (1992) secondo cui Keynes era un millenarista — un pensatore che considerava l’evoluzione sociale come il perseguimento di un percorso preordinato verso quello che egli concepiva come un lieto fine: un’utopia (O’Donnell 1989, pp. 288—94).

Keynes guardava ad una condizione di “parità di soddisfazioni tra tutti” (qualsiasi cosa ciò possa significare) (1980, p. 369), dove il problema che la persona media affrontererebbe sarà “come occupare il tempo libero, che la scienza e l’interesse composto avrà vinto per lui, per vivere con saggezza, piacevolmente e bene” (1972, p. 328). Il progresso tecnologico, alimentato dagli investimenti socializzati, garantirà automaticamente beni di consumo adeguati per tutti. A quel punto, si presenteranno le questioni serie della vita: “L’evoluzione naturale dovrebbe essere verso un livello decente di consumo per tutti; e, quando questo sarà abbastanza alto, verso l’occupazione delle nostre energie in interessi non economici della nostra vita. Quindi abbiamo bisogno di ricostruire lentamente il nostro sistema sociale con questi scopi in mente” (1982a, p. 393).

Lasciando da parte la questione di chi deciderà quando il livello dei consumi sarà abbastanza alto, dobbiamo chiederci: Quali tecniche Keynes ha immaginato che esistessero per realizzare una ristrutturazione della società? Come sempre quando rifletteva sul futuro, i fatti specifici sono inesistenti.[15] Ciò che è chiaro è che nella futura utopia, lo stato sarà il leader incontrastato.[16] Ponendo fine “all’anarchia economica”, il nuovo “regime [sarà uno] mirerà deliberatamente a controllare e dirigere le forze economiche nell’interesse della giustizia sociale e della stabilità sociale” (1972, p. 305).[17]

Lo stato, secondo Keynes, deciderà anche il livello ottimale della popolazione. Per quanto riguarda l’eugenetica, Keynes a volte dava l’impressione di essere indeciso: “arriverà più avanti il tempo in cui la comunità nel suo complesso dovrà prestare attenzione alla qualità innata così come ai numeri dei suoi membri futuri” (1972, p. 292; vedi anche Salerno 1992, pp. 13—14). Altre volte, era molto preciso: “la grande transizione nella storia umana” inizierà “quando l’uomo civilizzato cercherà di assumere il controllo cosciente nelle sue mani, allontanandosi dal cieco istinto della mera sopravvivenza” (1983, p. 859).[18] Così lo stato — nella sua veste di “uomo civilizzato” — incanalerà e controllerà la riproduzione della razza umana.

In tutte queste materie, lo stato sarà guidato, a sua volta, da intellettuali saggi e lungimiranti del tipo di Keynes.[19] Come potrebbe essere altrimenti? Lasciata a se stessa, la grande maggioranza delle persone è praticamente inerme. Come Keynes ha dichiarato: “Non è vero che l’interesse personale è in generale illuminato; più spesso gli individui che agiscono separatamente per promuovere i propri fini sono troppo ignoranti o troppo deboli per raggiungere anche questi” (1972, p. 288). Dato che riteneva che nelle questioni economiche “la soluzione giusta coinvolgerà elementi intellettuali e scientifici, che dovranno essere sopra le teste della vasta massa di elettori più o meno analfabeti” (1972, p. 295), uno si chiede quanta “sovranità della democrazia ” continuerebbe ad esistere nella sua utopia.

Naturalmente, dati i suoi gusti, l’arte gioca un ruolo centrale nella sua visione. Si lamentava dell’avarizia delle sovvenzioni statali all’arte che era difesa dagli “abitanti sub-umani del Tesoro”. Tale politica era incompatibile per qualsiasi concezione più alta di “dovere e scopo, onore e gloria [sic] dello Stato”. I sussidi all’arte erano un mezzo per soddisfare il compito dello Stato di elevare “l’uomo comune”, per portarlo a sentirsi “più fine, più dotato, più splendido, più spensierato” (citato in Moggridge 1974, pp. 34—35).

Durante la Seconda Guerra Mondiale, Keynes servì come portavoce importante per quello che in seguito divenne l’Arts Council. “Morte a Hollywood” era il suo slogan. Era immensamente soddisfatto di essere in grado di riferire che 3.000 operai nelle Midlands Inglesi avevano reagito con “gioia selvaggia” ad un balletto (citato in Moggridge 1974, pp. 41, 48). In futuro, oltre ai sussidi statali, ci sarebbe stato nelle scuole l’inculcamento dell’apprezzamento dell’arte: andare a teatro e visitare gallerie d’arte “sarà un elemento vitale nell’educazione di tutti e la regolarità della frequentazione di teatri e concerti sarà una parte di una formazione organizzata” (1982b, p. 371). La banalità assoluta di questa crociata sponsorizzata dallo stato per il sollevamento estetico — una chiave per la realizzazione dell’utopia di Keynes — è superata solo dalla sua monotonia di spirito.


Keynes e gli “esperimenti” totalitari

Ulteriori motivi per dubitare del liberalismo di Keynes riguardano il suo atteggiamento negli anni ’20 e ’30 verso gli “esperimenti” continentali d’economia pianificata. A volte, ha mostrato un modo di vedere secondo la politica economica del Nazionalsocialismo Tedesco e del Fascismo Italiano che lascia sbigottiti per un presunto pensatore “liberale”. Due testi sono in discussione qui: la prefazione all’edizione Tedesca della General Theory (Keynes 1973b, p. xxv—xxvii) ed il saggio “National Self-Sufficiency” (Keynes, 1933; riproposto anche in Keynes 1982a, pp. 233—46).

Nella prefazione, Keynes osserva che egli sta deviando dalla “tradizione Inglese classica (o ortodossa)”, che, osserva, mai ha totalmente dominato il pensiero Tedesco. “La Scuola di Manchester ed il Marxismo entrambe derivano in ultima analisi, da Ricardo. [...] Ma in Germania è sempre esistita una grande sezione di opinione che non ha aderito né all’uno né all’altra. [...] Forse, quindi, posso aspettarmi meno resistenza da parte Tedesca rispetto ai lettori Inglesi alla mia offerta di una teoria dell’occupazione e della produzione nel suo complesso, che si allontana da aspetti importanti della tradizione ortodossa “(1973b, pp. xxv—xxvi). Per invogliare ancora di più i suoi lettori alla Germania Nazionalsocialista, Keynes aggiunge: “Gran parte del seguente libro è illustrato ed esposto con riferimento principale alle condizioni esistenti nei paesi Anglosassoni. Tuttavia la teoria della produzione nel suo complesso, che è quello che il seguente libro ha la pretesa di fornire, si adatta molto più facilmente alle condizioni di uno stato totalitario, rispetto ad una teoria della produzione e distribuzione di una data produzione prodotta in condizioni di libera concorrenza e di una buona dose di laissez-faire”(1973b , p. XXVI).

Roy Harrod non menziona affatto questa prefazione nella sua biografia (1951).[20] Robert Skidelsky si riferisce a ciò come ad una “sfortunata formulazione” e lascia le cose come stanno (1992, p. 581). Alan Peacock scrive del passaggio (senza citarlo) che Keynes indicò “l’allora governo Tedesco (Nazista) sarebbe stato più in sintonia con gli effetti delle sue idee sulla creazione di occupazione di opere pubbliche rispetto al governo Britannico” (1993, p. 7). Questa visione, tuttavia, è in contraddizione con il chiaro significato del testo: non è che i leader Nazisti provavano ad essere più in sintonia con una delle proposte particolari di Keynes, ma che, secondo Keynes, la sua teoria “si adatta molto più facilmente alle condizioni di uno stato totalitario.” Peacock aggiunge che “vi è una certa disputa sulla precisione della traduzione di suddetta prefazione”. Ma questo problema non modifica per niente l’estratto citato qui, che proviene dal manoscritto Inglese di Keynes.[21]

I pensatori economici Nazisti, talvolta, solevano fare riferimenti a Keynes per sostenere le politiche economiche esplicitamente antiliberali del Nazionalsocialismo. Otto Wagener, che guidò una ricerca economica Nazista prima della presa del potere, diede ad Hitler una copia del libro di Keynes sul denaro perché era “un trattato molto interessante”, trasmettendo la sensazione che l’autore era “di gran lunga più avanti rispetto a noi, senza avere sufficiente dimestichezza con noi ed il nostro punto di vista ” (citato in Barkai 1977, pp. 55, 57, 156, traduzione mia). La pubblicazione dell’edizione Tedesca della General Theory ricevette recensioni critiche da pubblicazioni che erano riuscite a mantenere le distanze dalle politiche economiche ufficiali Naziste, mentre un apologeta nazista di Heidelberg lo accolse “come una rivendicazione del Nazionalsocialismo”. Keynes stesso rimarcò che le autorità Tedesche avevano autorizzato la pubblicazione “su carta [che era] un po’ meglio della solita ed il prezzo non era molto più alto rispetto al solito” (entrambe le citazioni in Skidelsky 1992, pp. 581, 583).

Un esempio di seria difficoltà a classificare Keynes come liberale proviene dal suo saggio “National Self-Sufficiency” (Keynes 1933, 1982b, pp. 233—46).[22] Qui, laissez-faire e libero scambio sono trattati con derisione caratteristica dei quartieri di Bloomsbury. In un lontano passato, erano visti “quasi come una parte della legge morale”, una componente del “fagotto di vesti obsolete che la mente si trascina dietro” (Keynes 1933, p. 755). Molto diverso, invece, è la postura di Keynes verso le dottrine che erano di gran moda, mentre scriveva: “Ogni anno diventa più evidente che il mondo si sta imbarcando in una varietà di esperimenti politico-economici”, mentre venivano abbandonate le presupposizioni del libero scambio del 19° secolo. Che cosa sono questi “esperimenti”? Sono quelli in corso in Russia, Italia, Irlanda (sic), e in Germania. Anche la Gran Bretagna e l’America si battono per “un nuovo piano” (p. 761).

Keynes è stranamente agnostico sulla possibilità di successo di questi progetti diversi: “Non sappiamo quale sarà l’esito. Stiamo — me lo aspetto da tutti — per fare molti errori. Nessuno può dire quale dei nuovi sistemi si rivelerà il migliore. [...] Ognuno di noi ha la sua fantasia. Non avendo la convinzione che siamo già salvi [sic], ad ognuno di noi piacerebbe avere una prova di essere al servizio della propria salvezza” (pp. 761—62).

Egli ammette che “in materia di dettaglio economico, in quanto distinto dal controllo centrale”, bisognerebbe favorire l’iniziativa  individuale, “basandosi il più possibile sul giudizio privato e l’iniziativa imprenditoriale” (p. 762). Ma “tutti dobbiamo essere il più liberi possibile dall’interferenza dei cambiamenti economici che avvengono altrove, al fine di sviluppare i nostri esperimenti preferiti verso una repubblica sociale ideale del futuro” (p. 763).

Al tempo in cui Keynes scrisse questo articolo, la dottrina “dell’autosufficienza nazionale” che stava predicando era spesso identificata con il Nazionalsocialismo ed il fascismo. Quando Franklin Roosevelt “silurò” la conferenza economica di Londra nel Giugno 1933, il presidente della Reichsbank, Hjalmar Schacht, disse compiaciuto al Beobachter Völkischer (il giornale ufficiale del Partito Nazista) che il leader Americano aveva adottato la filosofia economica di Hitler e Mussolini : “Prendere il proprio destino economico in mano, dà un contributo non solo a se stessi ma al mondo intero” (Garraty 1973, p. 922).

Keynes ammette che molti errori sono stati commessi in tutti i saggi contemporanei nella pianificazione. Sebbene Mussolini, forse, stava mettendo il “dente del giudizio”, la Germania era “in balia di irresponsabili scatenati — sebbene sia troppo presto per giudicarla”.[23] Si riserva la critica più dura alla Russia di Stalin, forse un esempio senza precedenti di “incompetenza amministrativa e di sacrificio di quasi tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta” (p. 766); “Che Stalin sia un esempio terrificante per tutti coloro che cercano di fare esperimenti”, afferma Keynes (p. 769).

Ma la sua critica a Stalin — che aveva appena condannato a morte milioni nel terrore e nella carestia e stava riempiendo i gulag di Lenin con altri milioni di individui — è curiosamente indiretta e fuori bersaglio. Ciò che i Sovietici e gli altri esperimenti socio-economici richiedono prima di tutto è “una critica coraggiosa, libera e spietata”. Ma

Stalin ha eliminato ogni spirito critico indipendente, anche quelli simpatetici secondo una prospettiva generale. Ha prodotto un ambiente in cui i processi della mente sono atrofizzati. Le circonvoluzioni molli del cervello vengono trasformate in legno. Il raglio dei vari altoparlanti sostituisce le inflessioni morbide della voce umana. Il belare della propaganda annoia anche gli uccelli e le bestie dei campi” (p. 769)

“Teste di legno … cervello irrigidito … belare … con stupore”. Il lettore può giudicare da sé se questa critica — che ricorda l’insistenza di John Stuart Mill sulla totale importanza del dibattito senza fine — sia sufficiente per le opere di Stalin e del potere Sovietico a partire dal 1933.

Infine, un passaggio di questo saggio come si presentava nella sua prima versione nella Yale Review viene omesso da The Collected Writings:[24] “Ma io porto le mie critiche per una ragione, come colui il cui cuore è amichevole e comprensivo verso gli esperimenti disperati del mondo contemporaneo, che augura loro tutto il bene possibile e desidera che abbiano successo, che ha i propri esperimenti in mente, e che in ultima istanza preferisce qualsiasi cosa sulla terra a ciò che i rapporti finanziari sono soliti chiamare ‘la migliore opinione di Wall Street’”(Keynes 1933, p. 766).[25]

Il commento di Skidelsky su questo saggio è breve e blando: “Come Keynes annotò nel suo ‘National Self-Sufficiency’ [il saggio è apparso in due parti in The New Statesman and Nation], gli esperimenti sociali erano di moda; tutti, qualunque fosse la loro provenienza politica, prevedono un ruolo molto più allargato per il governo e un ruolo fortemente limitato per il libero commercio” (1992, p. 483). Questa descrizione difficilmente sembra sufficiente.

La domanda a questo punto è: Come può una persona che ha espresso una simpatia malinconica per gli “esperimenti” di Nazisti, Fascisti e Comunisti Stalinisti e la cui logora presa in giro da tipo di Bloomsbury era riservata alla società del laissez-faire, essere considerata un chiaro esempio di liberale?[26]


Comunismo sovietico

Anche il tono e la sostanza di alcune delle osservazioni più estese di Keynes sul comunismo Sovietico fanno sorgere qualche domanda. A seguito di un viaggio in Unione Sovietica nel 1925, pubblicò A Short View of Russia (1972, pp. 253—71). Skidelsky, con implausibilità sorprendente, definisce questo saggio “uno degli attacchi più feroci mai scritti sul comunismo Sovietico” (1994, p. 235).

E’ vero che Keynes percepisce alcuni difetti gravi del regime Sovietico, in particolare la persecuzione di dissidenti e l’oppressione generale. Ma egli ritiene che questi difetti fossero in parte frutto della rivoluzione e il risultato di “qualche bestialità della natura Russa — o nella natura Russa ed Ebraica quando, come ora, sono alleati”. Formano “una faccia” della “superba serietà della Russia Rossa”. Tale serietà può essere austera, “rozza e stupida e noiosa in casi estremi”, testimoni i Metodisti (1972, p. 270) — un altro tocco alla Bloomsbury.

Keynes non dà segno che il dispotismo possa essere la naturale conseguenza, il risultato del tutto prevedibile, di una tale concentrazione di potere nello stato, come i Bolscevichi avevano effettuato in Russia. Quest’ultimo punto di vista è stato il pilastro del pensiero liberale come minimo dai tempi di Montesquieu e Madison, attraverso Mises e Hayek, e fino ai giorni nostri. Ci si aspetterebbe che un liberale sottolinei questo punto.

Al contrario, Keynes smania per la volontà dei Sovietici di impegnarsi in audaci “esperimenti” di ingegneria sociale. In Russia, “il metodo del trial-and-error è impiegato senza riserve. Nessuno è mai stato più francamente sperimentalista di Lenin”. Per quanto riguarda gli “esperimenti” catastroficamente falliti dei primi anni di governo Bolscevico, che avevano costretto il passaggio dal “comunismo di guerra” al sistema della Nuova Politica Economica (NEP), Keynes li descrive in termini più lievi: gli “errori” precedenti erano ora stati corretti e le “confusioni” dissipate (p. 262).[27] Keynes è estasiato dall’atteggiamento del regime come “laboratorio di vita” e conclude che il comunismo Sovietico ha “solo una possibilità” di successo. Egli afferma in questo “attacco bruciante” che “anche una possibilità dà a quello che sta accadendo in Russia più importanza più di quello che sta succedendo (diciamo) negli Stati Uniti d’America” (p. 270).[28]

Cosa sta alla radice della simpatia di Keynes per l’esperimento Sovietico? Un’allusione appare all’inizio del suo saggio, in cui suggerisce scherzosamente che l’arcivescovo di Canterbury meriti di essere chiamato Bolscevico “se esercita sul serio i precetti del Vangelo” (Gesù Cristo come il primo Cekista?). Quello che smuove Keynes più nel profondo è l’elemento “religioso” del Leninismo, la cui “essenza etica ed emozionale si incentra sull’atteggiamento del singolo e della comunità riguardo il loro amore per il denaro” (p. 259, enfasi nell’originale). I Comunisti hanno trasceso “l’egoismo materialista” e hanno portato “un vero cambiamento nell’atteggiamento predominante verso il denaro.[...] Una società in cui ciò è anche solo parzialmente vero, è un’innovazione formidabile: nella Russia del futuro si prevede che il fare carriera per i soldi, come tale, verrà scansato dall’uomo giovane e rispettabile, più di quanto lo sarà la carriera di un ladro gentiluomo o l’acquisizione di abilità nella falsificazione o nell’appropriazione indebita.[...] Tutti dovrebbero lavorare per la comunità — il nuovo credo — e, se uno fa il proprio dovere, la comunità lo sosterrà” (pp. 260—61).

In contrasto con questa religiosità ispiratrice, “il capitalismo moderno è assolutamente irreligioso,” privo di ogni senso di solidarietà e di spirito pubblico: “mi sembra ogni giorno più chiaro che il problema morale del nostro tempo sia l’amore per il denaro, con l’abituale richiamo del denaro che motiva i nove decimi delle attività della vita, con l’universale propensione alla sicurezza economica individuale come oggetto principale dei propri sforzi, con l’approvazione sociale del denaro come misura del successo costruttivo, con il richiamo sociale per l’istinto ad accumulare come fondamento delle scorte necessarie alla famiglia ed al futuro” (268—29). Questa preferenza per la moralità comunista rispetto a quella capitalista sarebbe rimasta per anni dentro Keynes.

Nel 1928, andò per la seconda volta in Russia, visita che produsse una valutazione meno favorevole. Anche se Skidelsky ci assicura che “la storia d’amore era chiaramente finita” (1992, pp. 235—236), questo giudizio non è corretto. Il romanticismo è continuato almeno fino al 1936, con la recensione di Soviet Communism di Keynes da parte dei suoi amici Sidney e Beatrice Webb. Nessuno di quelli che sostiene il “liberalismo” di Keynes ha francamente affrontato la sua dichiarazione abbastanza ambigua[29] inclusa in una trasmissione radiofonica del Giugno 1936, riportata nella serie della BBC Books and Authors (1982b, pp. 333—34).

L’unico lavoro che analizzava Keynes in lungo e in largo era il tomo massiccio dei Webb, Soviet Communism (La prima edizione aveva come sottotitolo A New Civilisation? ma il punto di domanda è stato abbandonato nelle edizioni successive). Essendo i leader della Fabian Society, i Webb lavorarono per decenni per realizzare il socialismo in Gran Bretagna. Negli anni ’30, si trasformarono in propagandisti ardenti del nuovo regime comunista in Russia — secondo le parole di Beatrice, si erano “innamorati del Comunismo Sovietico” (citate in Muggeridge e Adam 1968, p. 245) (Quello che lei chiamava “amore”, venne etichettato da Malcolm Muggeridge come “adulazione infatuata” [1973, 72]).

Nel corso della visita di tre settimane dei Webb in Russia, dove vennero trattati con “un certo tipo di regalità”, cosa di cui Sidney si vantò, le autorità sovietiche fornirono loro i fatti e le cifre per il loro libro (Cole 1946, 194; Muggeridge e Adam 1968, 245); gli apparati Stalinisti erano ben soddisfatti del risultato finale. Nella stessa Russia, Soviet Communism fu tradotto, pubblicato e promosso dal regime, come dichiarò Beatrice: “Sidney ed io siamo diventati delle icone in Unione Sovietica” (citato in Muggeridge 1973, p. 206).[30]

Sin da quando apparve per la prima volta Soviet Communism, venne considerato come il primo esempio di aiuto e sostegno allo stato di terrore Staliniano. Se Keynes fosse stato un liberale ed un amante della società libera, uno si sarebbe aspettato la sua recensione del libro, nonostante la sua amicizia con gli autori, come una denuncia graffiante, ma avvenne il contrario. Come Beatrice annotò con piacere nel suo diario, Maynard “nel suo modo attraente, ha promosso il nostro libro nel suo recente discorso radiofonico” (Webb 1985, p. 370).

In effetti, Keynes disse al pubblico Britannico che Soviet Communism era un lavoro “che ogni cittadino serio farebbe bene a guardare”.

Fino agli avvenimenti dei tempi recenti in Russia ci si muoveva troppo velocemente e il divario tra le professioni legate alla carta stampata ed i risultati effettivi era troppo ampio per essere accettabile. Ma il nuovo sistema è ora sufficientemente cristallizzato per essere rivisto; il risultato è impressionante. Gli innovatori Russi sono passati non solo dalla fase rivoluzionaria, ma anche dalla fase dottrinaria. C’è rimasto poco o niente che porta qualche relazione speciale con Marx ed il Marxismo in quanto distinto da altri sistemi di socialismo; sono impegnati nel vasto compito amministrativo di creare una serie completamente nuova di istituzioni sociali ed economiche affinché funzionino senza intoppi e con successo su un territorio così vasto che copre un sesto della superficie terrestre del mondo (1982b, p. 333)”.

Vi è, ancora una volta, una lode smaccata per la “sperimentazione” Sovietica: “I metodi stanno ancora cambiando rapidamente in risposta alle esperienze. E’ in atto il più grande empirismo e sperimentalismo che sia mai stato tentato da amministratori disinteressati. Intanto i coniugi Webb ci hanno permesso di vedere la direzione in cui le cose sembrano muoversi e fin dove sono arrivate finora” (1982b, p. 334).

La Gran Bretagna, secondo Keynes, ha molto da imparare dal lavoro dei Webb: “Mi lascia un forte desiderio e speranza che in questo paese possiamo scoprire come combinare una disponibilità illimitata di sperimentare cambiamenti nei metodi politici ed economici e nelle istituzioni, pur conservando il tradizionalismo ed una sorta di attento conservatorismo, parsimoniosi per tutto ciò che è l’esperienza umana dietro di essi, in ogni ramo della percezione e dell’azione” (p. 334). In questo passo, come in molti altri, si è colpiti dalla studiata revisione delle proprie posizioni e dalla confusione di base tipica di gran parte della filosofia sociale di Keynes — una “disponibilità illimitata di sperimentare” deve essere in qualche modo combinata con il “tradizionalismo” ed un “attento conservatorismo”.

Nel 1936, nessuno doveva dipendere dall’ingannevole propaganda dei Webb per informarsi sul sistema Stalinista. Eugene Lyons; William Henry Chamberlin; lo stesso Malcolm Muggeridge; il mondo conservatore, la stampa cattolica ed anarchica di sinistra ed altri avevano rivelato la triste verità sull’ossario presieduto dagli “innovatori” ed “amministratori disinteressati” di Keynes.[31] Chiunque avesse voluto ascoltare poteva conoscere i fatti riguardanti la terribile carestia dei primi anni ’30, il vasto sistema dei campi di lavoro degli schiavi e la quasi universale miseria che fecero seguito all’abolizione della proprietà privata. Per coloro non accecati dall’”amore”, era inequivocabile che Stalin stesse perfezionando il modello dello stato assassino del 20° secolo.


L’odio per il denaro

Cosa spiega le lodi di Keynes per il libro dei Webb e per il sistema Sovietico? Ci sono pochi dubbi sul fatto che la ragione principale sia, ancora una volta, la sua profonda avversione alla ricerca del profitto ed al far soldi, un atteggiamento che condivideva con la coppia Fabiana.

Secondo la loro amica e seguace Fabiana Margaret Cole, la Webb considerava la Russia Sovietica come “la speranza morale e spirituale del mondo” (1946, p. 198). Per loro, “la cosa più eccitante” di tutte era il ruolo del Partito Comunista che, come dichiarò Beatrice, era un “ordine religioso”, impegnato nella creazione di una “Coscienza Comunista”. Nel 1932, Beatrice annunciò: “E’ perché credo che sia arrivato il giorno per il passaggio dall’egoismo all’altruismo — come la molla della vita umana — che sono un Comunista” (citato in Nord 1985, pp. 242—44 ).

In Soviet Communism, i Webb smaniano per l’uso degli incentivi monetari con i rituali dello “svergognare il delinquente” e dell’autocritica Comunista (Webb e Webb 1936, pp. 761—62). Fino alla fine della sua vita nel 1943, Beatrice lodava ancora l’Unione Sovietica per “la sua democrazia multiforme, il suo sesso, la classe e l’uguaglianza razziale, la sua produzione pianificata per il consumo della comunità, e soprattutto la sua penalizzazione della spinta del profitto” (Webb 1948, p. 491). Dopo la sua morte, Keynes la lodò come “la più grande donna della generazione passata”.[32]

Come i coniugi Webb, Keynes identificò la religiosità come abnegazione del singolo individuo per il bene del gruppo. In termini economici, questa visione si traduceva in lavoro per guadagni non-pecuniari, trascendendo in questo modo la sordida motivazione dei “nove decimi delle attività della vita” nelle società capitaliste. Per Keynes, come per i Webb, questa trascendenza era l’essenza dell’elemento “religioso” e “morale” che individuarono ed ammirarono nel comunismo.

Nella sua passione di diffamare coloro che facevano soldi, Keynes fece addirittura ricorso alla psicoanalisi per queste persone. Affascinato dal lavoro di Sigmund Freud, come lo era la maggior parte dei membri del circolo di Bloomsbury, Keynes apprezzò soprattutto le “intuizioni” che erano in parallelo con le sue, soprattutto sul significato dell’amore per il denaro. Nel suo Treatise on Money, fa riferimento ad un passaggio di un articolo del 1908 in cui Freud scrisse di “connessioni che esistono tra i complessi dell’interesse per il denaro e la defecazione” e l’inconscia “identificazione dell’oro con le feci” (Freud 1924, pp. 49—50;. Keynes 1971b, p. 258 e n. 1, e Skidelsky 1992, 188, pp 234, 237, 414).[33] Questa scoperta psicoanalitica permise a Keynes di affermare che l’amore del denaro non solo venne condannato dalla religione, ma anche dalla “scienza”. Così, oltre a costituire “il problema etico centrale della società moderna” (O’Donnell 1989, 377 n. 14), la preoccupazione per il denaro era anche materia d’analisi per lo piscoanalista.

Keynes auspicava il momento in cui l’amore per il denaro come mero possesso “sarebbe stato riconosciuto per quello che è, una morbilità disgustosa, una di quelle propensioni semi-criminali e semi-patologiche che possono essere curate se ci si rivolge a specialisti in malattie mentali” (1972, p. 329). Triste a dirsi, Keynes non approfondisce il trattamento cui questi specialisti debbano sottoporre le persone squilibrate mentalmente afflitte.

Nelle osservazioni filo-Sovietiche di Keynes e nella noncuranza tra i suoi devoti di queste osservazioni, troviamo ancora una volta il doppio standard grottesco che continua ad essere quasi universale (Applebaum 1997; Courtois 1999, Malia 1999). Se a metà degli anni ’30 uno scrittore famoso si fosse espresso nei confronti della Germania Nazista con i termini benevoli che Keynes usò per l’Unione Sovietica, sarebbe stato messo alla gogna, ed il suo nome sarebbe caduto in disgrazia fino ai giorni nostri. Eppure, nonostante la malvagità dei Nazisti, nel 1936 le loro vittime ammontavano solo ad una piccola frazione rispetto a quelle del regime Sovietico.[34]

In effetti, il caso di Keynes è peggiore di quello in cui qualcuno avesse semplicemente lodato Hitler, ad esempio, per i successi nella cura del presunto problema della disoccupazione o per il ripristino dell’autostima Tedesca o per aver raggiunto qualsiasi altro “successo” il Nazionalsocialismo possa aver sostenuto. L’analogo reale di Keynes, nella sua miscela di critica e simpatia nei confronti del Comunismo Sovietico, sarebbe uno scrittore che condannerebbe la persecuzione e la repressione della libertà di pensiero sotto il Nazismo, ed al tempo stesso li loderebbe per la loro “coscienza” nella “questione razziale”, dalla quale avremmo potuto trarre qualche speranza per il futuro. La cosa per cui Keynes trovò ammirevole la Russia Sovietica — la volontà di sopprimere chiunque facesse soldi e la ricerca del profitto — fu la fonte principale degli orrori.

Come seguaci di una variante del Marxismo, Lenin e, dopo di lui, Stalin condivisero l’avversione di Marx al denaro. Il Comunismo cercò di abolire il denaro, insieme alla ricerca del profitto e lo scambio privato — l’intero sistema di mercato — che il denaro rendeva possibile. Il Comunismo Sovietico selezionò le sue prede soprattutto fra quelli contrassegnati dal loro presunto amore per il denaro e per i profitti: la borghesia ed i proprietari terrieri del vecchio regime; gli “speculatori” e gli “accaparratori” degli anni del “comunismo di guerra” e del primo Terrore Rosso; poi gli uomini del NEP ed i “kulaki” del periodo della collettivizzazione e dell’introduzione della pianificazione (Leggett 1981; Conquest 1986; Malia 1994, pp. 129—33). Come Keynes aveva potuto trascurare il legame tra gli attacchi alla ricerca della ricchezza individuale ed il tormento inflitto dallo stato che era la regola nella Russia Sovietica — in particolare se si considera che nel libro recensito nel suo discorso alla radio, gli autori glorificano la decisione di Stalin di procedere alla “liquidazione dei kulaki in quanto classe” (Webb e Webb 1936, pp. 561—72)?

Una caratteristica degna di nota dei complimenti di Keynes al sistema Sovietico è la loro totale mancanza di analisi economica. Keynes sembra allegramente inconsapevole che possa esistere un problema di calcolo economico razionale sotto il socialismo. Questa questione aveva già occupato gli studiosi continentali per qualche tempo ed è stato al centro di vivaci discussioni presso la London School of Economics.

L’anno precedente al discorso alla radio di Keynes, era apparso un volume curato da F.A. Hayek in lingua inglese, Collectivist Economic Planning (Hayek 1935), che incorporava una traduzione di un saggio di Ludwig von Mises del 1920 “Economic Calculation in the Socialist Commonwealth”. A partire dal 1933—34 nella London School, Hayek stava già tenendo un corso chiamato “The Problems of a Collectivist Economy”. Un seminario diretto da Hayek, Lionel Robbins ed Arnold Plant, dedicato principalmente allo stesso argomento, era stato presentato nel 1932—33 (Moggridge 2004).

Keynes non diede alcuna indicazione sulla sua consapevolezza del dibattito o anche l’interesse sulla questione.[35] Invece, ciò che contava per Keynes era l’emozione dell’esperimento Sovietico (c’è per caso mai stato un altro economista — o pensatore liberale — che abbia covato così spesso criteri come “eccitazione” e “noia” per giudicare i sistemi sociali?), il maestoso portatore di cambiamenti sociali diretto da quegli “amministratori disinteressati” e la rottura del progresso etico con l’abolizione della ricerca del profitto.

Questa è la prova che Keynes fosse in qualche modo un Comunista? Certo che no. Ma la sua simpatia chiaramente espressa verso il sistema Sovietico (come pure, in misura molto minore, verso gli altri stati totalitari), quando aggiunta alla sua teoria economica a favore dello stato ed alla sua visione utopica di un dominio statale, dovrebbe far riflettere coloro che, senza esitazione, lo arruolano nelle file liberali. Considerare Keynes come “il modello liberale del XX secolo” o come un autentico liberale non può far altro che rendere incoerente un concetto storico indispensabile.


[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://www.francescosimoncelli.com/


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Note

[1] Consultare l’antologia curata da Bullock e Shock (1956). Numerosi altri accademici, come E. K. Bramsted e K. J. Melhuish (1978) considerano Keynes come il grande (e molto probabilmente il più rilevante) rappresentante della sequenza che inizia con i Leveller o Locke. Il biografo di Locke, Maurice Cranston, categorizza Keynes, come Locke, come un liberale (1978, 101). Bernard Corry va oltre e qualifica Keynes “un economista essenzialmente liberale che richiede misure specifiche non-liberali solamente durante periodi di disoccupazione” (1978, 26). Douglas Den Uyl e Stuart Warner includono Keynes nella loro lista di “chiari” liberali, alla stregua di Smith, Turgot, Constant ed altri. (1987, 263). John Gray insiste che la posizione di Keynes è una che si deve adattare nel definire il credo (1986, xi). Logicamente, la definizione di Gray del liberalismo omette di menzionare in qualsiasi modo la proprietà privata. Anthony Arblaster, tuttavia, evidenzia che sebbene Keynes era un “Liberale convinto”, fu, alla fine, la socialdemocrazia che ereditò il retaggio del suo pensiero” (1984, 292). 

[2] Nel suo schema terminologico logicamente rigoroso, Karl Brunner conclude che il “rigetto della soluzione liberale” da parte di Keynes è prontamente rilevabile perché “[egli] considera inaccettabili le dure limitazioni imposte al governo. La questione richiede, secondo il suo giudizio, un approccio del tutto nuovo” (1987, 28). 

[3] Charles Rowley scrive che Keynes promosse “un credo in un’economia di mercato errata che non si auto-correggeva, sempiternamente bisognosa dell’intervento del governo se avesse voluto finire nel caos [...]. Il neomercantilismo stava ancora una volta muovendo guerra alla mano invisibile, come aveva fatto già nell’Inghilterra pre-Smithiana” (1987b, 154). 

[4] Nonostante la frase citata nella nota 1, Cranston si è implicitamente arreso sulla questione del liberalismo fondamentale di Keynes: “Keynes apparteneva davvero insieme a Francis Bacon, ed i philosophes, e gli utilitaristi ed i Fabiani, a quella classe di intelletuali che crede che gli intellettuali dovrebbero essere al comando” (1978, 113). Un certo numero di scrittori classico-liberali sosteneva anche che nessuno poteva negare che Keynes fosse liberale; consultare, ad esempio, Haberler 1946, 193.

[5] Sulle conseguenze disastrose dell’errore nel tasso di cambio, Harry Johnson dichiara: “Se il tasso di cambio della sterlina fosse stato realisticamente fissato negli anni ’20 — una prescrizione in pieno accordo con la teoria economica ortodossa — non ci sarebbe stato alcun bisogno della disoccupazione di massa, di conseguenza nessun bisogno di una teoria rivoluzionaria per spiegarla, e nessuna forza avrebbe scatenato molta della storia politica ed economica Inglese successiva [...]. L’Inghilterra ha pagato un prezzo a lungo termine molto alto per la gloria transitoria della Rivoluzione Keynesiana, sia in termini di corruzione degli standard del lavoro scientifico in economia sia nell’incoraggiamento all’indulgenza del credo di quel processo politico secondo cui la politica economica può trascendere le leggi dell’economia con l’aiuto di una sufficiente intelligenza economica” (1975, 100, 122). Riguardo l’indennità di disoccupazione, Daniel Benjamin e Levis Kochin evidenziano che Edwin Cannan fu uno dei pochi contemporanei a capire la parte che svolgeva tale sussidio nel processo di creazione della disoccupazione (1979, 468—72). Gli scrittori Keynesiani come Donald Winch continuano a condannare Cannan, per i suoi sforzi, come insensibile e privo di compassione (1989, 468 n. 40). 

[6] Alcuni errori chiave erano radicati nella metodologia di Keynes — per esempio, la sua conclusione che un mercato non regolato fosse incapace di raggiungere la coordinazione intertemporale. Secondo il punto di vista di Roger Garrison (1985), l’operare di Keynes con alti livelli di aggregati nascondeva i meccanismi con i quali tale coordinazione sarebbe difatti scaturita dai processi del mercato, perfino mentre Hayek sottolineava i reali processi di coordinazione. Hayek stesso credeva che l’errore fondamentale di Keynes fosse metodologico, rincorrere la “pseudo-esattezza” di grandezze apparentemente misurabili, mentre scartava le reali interconnessioni del sistema economico. Secondo Hayek, l’approccio di Keynes si basava sull’assunto che esistono relazioni funzionali costanti tra la domanda totale, l’investimento, la produzione, e così via. In questo modo, tendeva “a nascondere quasi tutto quello che importava realmente,” portando alla “distruzione totale di molte idee importanti che abbiamo già raggiunto e che dovremmo quindi riguadagnare dolorosamente” (1995, 246—47). 

[7] Mario Seccareccia (1993) respinge il punto di vista comune su Keynes come presunto o attuale salvatore del capitalismo. 

[8] “Nessuno dei saggi [di Keynes] elabora affatto il contenuto di questa proposta [di socializzare l'investimento]. Non sappiamo in quale forma dovrebbe essere implementata la socializzazione. Le scelte istituzionali non vengono mai esaminate […] [e non abbiamo alcun modo] di stimare le conseguenze di tale socializzazione” (Brunner 1987, 47). 

[9] Riguardo al ruolo che hanno ricoperto i Democratici Cristiani per decenni, de Cecco aggiunge che “hanno aiutato i tecnocrati a mantenere la loro presa sull’economia. Sono diventati gli arci-difensori dell’IRI,” una gigante holding dello stato che era di gran lunga la più grande azienda in Italia (1989, 222).

[10] C’è un’altra questione, forse più importante, se questi scopi liberali potrebbero mai essere compatibili con la perenne esistenza di un’istituzione basata sul monopolio e sull’autorità di tassare — ovvero, lo stato. Su questa questione, consultare il lavoro pionieristico di Hans Hermann Hoppe (2001, specialmente 229—34).

[11] “Keynes era famoso, e non solo tra gli economisti, per cambiare opinione. Infatti, la mutevolezza era parte della sua personalità” (Caldwell 1995, 41). 

[12] In un apprezzamento a Keynes, The Economist ha perversamente dichiarato che “un tema che ricorre nel suo lavoro è una preferenza (facendo eco ad Hayek di cui ne lodava il lavoro) per regole al di sopra della discrezione nella politica economica” (“The Search for Keynes” 1993, 110). 

[13] Rowley descrive Keynes come “tanto lontano dall’approccio della moderna public choice quanto un indivduo possa esserlo” e lo accusa di ignorare “la pericolosa discrezione che le sue teorie hanno posto nelle mani dei politici alla ricerca di voti” (1987a, 119, 123). Donald Winch, che difende Keynes contro l’accusa di essere statalista, sembra concedere che la logica del pensiero Keynesiano porta verso uan direzione statalista: “Quando l’interpretazione tecnocratica della capacità dello stato associata a Keynes stesso viene mescolata con la politica, può essere sostenuta la posizione minimalista di Keynes? Non hanno ragione i Keynesiani di sinistra (e per la stessa ragione i loro oppositori monetaristi) nel credere che la logica del Keynesianismo conduca ad un maggiore intervento, come quello che avviene quando la gestione macroeconomica richiede l’estensione all’intervento microeconomico per assicurare il successo?” (1989, 124). 

[14] Consultare il giudizio peculiare di Thomas Balogh su Keynes: “La sua forza ed infinito fascino, ma tentatore, gli permettevano di scaricare punti di vista (e persone) con un accenno di cappello” (1978, 67). Questo punto di vista non sembra molto lontano dalla caratterizzazione di Keynes fatta da Rothbard come un intellettuale “filibustiere.”

[15] L’approccio di Keynes qui è caratteristico della critica del libero mercato. Come Roger Garrison sserva: “Il suo fallimento nello spiegare in modo dettagliato come questo ideale di sistema funzionerebbe è coerente col pensiero socialista in generale, che si è sempre concentrato sui fallimenti percepiti dell’attuale sistema piuttosto che sulla descrizione di come uno superiore possa funzionare” (1993, 478). 

[16] “Alla fine, la prescrizione di Keynes consisteva nello stato che avrebbe agito come un guardiano, un supervisore, e promotore della società civile […]. [Esso] era un supervisore attivo con un programma eticamente diretto di cambiamento graduale, inclusa la modifica delle regole del gioco” (O’Donnell 1989, 299—300). 

[17] Nello stesso saggio, “Am I a Liberal?” Keynes afferma anche, con la sua solita confusione per quanto riguarda la sua filosofia sociale, che sta solo cercando delle “misure per salvaguardare il capitalismo” (1972, 299). 

[18] In un’altra occasione, Keynes reiterò il bisogno di affrontare il problema della sovrapopolazione “con programmi concepiti dalla mente al posto dei risultati dell’istinto e del vantaggio individuale […]. Sin da molte generazioni gli uomini come individui hanno iniziato a sostituire lo scopo morale e razionale come loro molla di azione al posto dell’istinto cieco. Ora devono fare la stessa cosa collettivamente” (1977, 453). Nello stesso periodo, Leon Trotsky espresse opinioni eugenetiche simili sulla “grande transizione” verso l’utopia futura, sebbene in uno spirito più “Prometeico”: “La specie umana, l’homo sapiens, entrerà ancora una volta in uno stato di trasformazione radicale, e con le sue [sic!] stesse mani diventerà un oggetto dei metodi più complicati di selezione artificale e formazione psico-fisica […]. La razza umana non dovrà cessare di strisciare carponi davanti a Dio, ai re, ed al capitale, in modo da sottomettersi umilmente davanti le oscure leggi dell’ereditarietà e di una cieca selezione sessuale!” ([1924] 1960, 254—55). 

[19] Consultare il commento di Corry: “I politici erano visti dai residenti di Bloomsbury come uno sporco insieme di sciocchi, opportunisti, e mascalzoni; quindi chi resta a guidare il paese? Una sorta di establishment intellettuale, strettamente allineato al mondo accademico (o piuttosto ad una parte di esso con radici a Cambridge!), che potrebbe dare consigli spassionati ed esperti […]. Keynes aveva un credo da Bloomsbury, secondo cui il potere ed il compito dell’intellighenzia era di consigliare e controllare gli eventi” (1993, 37—38). 

[20] Michael Heilperin, in una lunga nota a pié pagina, commenta l’assenza di qualunque riferimento a questa prefazione del lavoro di Roy Harrod (1951), il famoso biografo di Keynes all’epoca in cui Heilperin scriveva. Alla luce di questa soppressione di libertà accademiche e di altra natura nella Germania Nazista, Heilperin definisce il testo accattivante di Keynes “una macchia indelebile sul suo operato come liberale” (1960, 127 n. 48). 

[21] La disputa coinvolge alcune frasi che appaiono nell’edizione Tedesca, ma non nel manoscritto di Keynes; ma queste frasi non sembrano incolpare Keynes, eccetto per l’uso della frase “leadership nazionale pronunciata [Führung]” con una connotazione positiva. In ogni caso, sembra probabile che Keynes approvò le aggiunte. Consultare Schefold 1980. 

[22] La versione in The Collected Writings proviene da The New Statesman and Nation, 8 e 15 Luglio 1933. Il saggio fu dapprima pubblicato, comunque, in Yale Review. Le citazioni qui provengono dalla seconda versione, Keynes 1933. Heilperin dichiara che questo saggio “può essere considerato, nonostante la sua brevità, come uno degli scritti più significativi di Keynes” ed osserva che Keynes minimizza il carattere totalitario dei regimi di cui discute: “Erano degli esperimenti — questa è la loro meraviglia!” (1960, 111). Qui, Heilperin cattura lo spirito essenziale del pezzo e del pensiero di Keynes nei vari anni. 

[23] Questa e critiche simili della Germania Nazista furono omesse nella traduzione Tedesca del saggio, evidentemente col permesso di Keynes; consultare Borchardt 1988. Sebbene Borchardt sia a conoscenza della versione in Yale Review, cita il saggio da The Collected Writings e così sopravvaluta il suo tenore liberale. 

[24] Questo passaggio dovrebbe essere apparso in The Collected Writings in seguito “Poiché non deve essere presupposto che io stia propagandando tutte quelle cose che vengono fatte nel mondo politico di oggi nel nome del nazionalismo economico. Via da questo” (Keynes 1982b, 244). La versione in The Collected Writings omette allo stesso modo un paio di altri passaggi, di minima importanza, che appaiono nella Yale Review. L’editore di questo volume non indica in alcun modo che la versione inclusa differisce da quella pubblicata nella Yale Review; per di più, riferisce incorrettmanete la Yale Review in questione come “dell’Estate 1933.”

[25] La ripetizione di Keynes durante gli anni ’20 e 30 della meraviglia degli “esperimenti” di ingegneria sociale divenne infine quasi ridicola. Un altro esempio appare in The End of Laissez-Faire, dove scrisse: “Io critico il Socialismo di Stato, non perché cerca di coinvolgere gli impulsi altruistici degli uomini al servizio della società, o perché si discosta dal laissez-faire, o perché toglie la libertà naturale dell’uomo di fare un milione, o perché ha il coraggio di compiere esperimenti audaci. Io mi congratulo per tutte queste cose” (1972, 290, enfasi aggiunta). 

[26] In tutta la sua carriera, Keynes fu un critico implacabile del principio del laissez-faire. The End of Laissez-Faire (Keynes 1972, 272—294) è forse il suo saggio polemico più famoso. All’epoca venne analizzato (1926) dall’economista liberale Italiano (per niente “dottrinario”) Luigi Einaudi, che evidenziò che il pamphlet non era per nulla originale o particolarmente significativo: l’idea che rappresentasse un certo tipo di svolta storica era “una pura fantasia” di revisori frettolosi. Einaudi si chiede perché Keynes, “avendo ancora una volta posto la regola del laissez-faire hors de combat come un principio scientifico, non aggiunse alcuna pagina aggiuntiva che esaminava l’attuale imporanza di questa regola come una norma pratica? […] L’importanza pratica del laissez-faire rule per il comportamento degli uomini è davvero diminuita?” Dato che i compiti del governo sono diventati più numerosi, questa concessione non prova ancora “la decadenza del laissez-faire, dal momento che potrebbe essere, contemporanea con l’estensione dell’attività pubblica e l’interferenza in alcune aree della vita economica, c’è stato un aumento maggiore di nuovi titpi di attività in cui la vecchia regola del laissez-faire conserva intatto il suo valore” (1926, 573).

[27] Gli errori e le consfusioni sembrano dei termini difficilmente adeguati per quello che un recente storico del comunismo Sovietico ha caratterizzato come “la titanica discesa nel caos” di quegli anni; consultare il capitolo “War Communism: A Regime Is Born, 1918—1921,” in Malia 1994, 109—39; consultare anche l’analisi illuminante in “‘War Communism’ — Product of Marxian Ideas” (Roberts 1971, 20—47). 

[28] Keynes aggiunge che la Russia Sovietica deve essere di gran lunga preferita alla Russia zarista, da cui “niente avrebbe potuto mai emergere” (271). Questa frase è un giudizio straordinario, specialmente a fronte dell’amore di Keynes per le arti. La vecchia Russia può, ovviamente, vantare grandi raggiungimenti in molti campi, incluso la musica, il ballo, e, soprattutto, la letteratura. 

[29] Logicamente, Skidelsky avrebbe dovuto discutere di questa intervista radiofonica nel secondo volume della sua biografia, che copre i lperiodo fino al 1937. Sebbene faccia menzione di Soviet Communism dei Webb, non tocca l’argomento dell’intervista radiofonica a Keynes (Skidelsky 1994, 488). Sembra davvero strano che nell’immensa biografia di tre volumi su Keynes Skidelsky non trovi spazio per menzionare questo pezzo altamente problematico. E’ anche assente nel suo saggio su Keynes ed i Fabiani (Skidelsky 1999). L’intervista alla radio è menzionata da O’Donnell 1989, 377 n. 13. 

[30] Anche la biografa Margaret Cole ed amica di Beatrice afferma che il libro, sebbene contenga alcune critiche, era “in un certo senso, un pamphlet di grande propaganda, a difesa ed in lode dell’Unione Sovietica” (1946, 199). Questa osservazione non era intesa come una critica, perché la Cole, come è evidente dalla sua biografia, condivideva l’ammirazione dei Webb per lo Stalinismo. 

[31] Per i commenti di Lyons sull’ammirazione dei Webb della “forte fede” e della “risoluta volontà” di coloro che effettuavano la liquidazione dei kulaki, consultare Lyons 1937, 284. Consultare anche le osservazioni di Robert Conquest (1986, 317—18, 321). Nel suo romanzo Winter in Moscow, Malcolm Muggeridge (1934) descrive il mondo del viaggiatore straniero che visitava l’Unione Sovietica; osservò che molto spesso erano i “Neo Liberali” ed i Fabiani, piuttosto che i socialisti non-Comunisti, che venivano ingannati dal regime Sovietico.

[32] Scritto in una lettera a George Bernard Shaw (presentata in Skidelsky 2001, 168). Skidelsky aggiunge, in modo un pò criptico, che sebbene Keynes avesse organizzato un necrologio d’ammirazione per Beatrice, egli “ancora stimava la sua economia” (2001, 527 n. 76). Uno si chiede in cosa consisterebbe “la stima” del pensiero economico di Beatrice Webb.

[33] Ovviamente, se si dovesse procedere come fece Keynes, bisognerebbe sondare la mente inconscia di Keynes per le fonti disdicevoli sia del suo coinvolgimento con il tema del denaro in tutta la sua carriera professionale e della sua repulsione intensa ed opprimente della spinta monetaria.

[34] In una lettera ad Upton Sinclair datata 2 Maggio 1936, H. L. Mencken, che spesso era tanto astuto politicamente quanto spiritoso in generale, scrisse: “Sono contro la violazione dei diritti civili di Hitler e Mussolini quanto lo siete voi, e lo sapete bene. [...] Voi protestate, e con cognizione di causa, ogni volta che Hitler imprigiona un oppositore, ma vi dimenticate che Stalin e compagnia hanno incarcerato ed assassinato mille volte di più. Mi pare, e difatti l’evidenza è palese, che paragonato ai briganti ed agli assassini di Mosca, Hitler difficilmente potesse essere qualcosa di più di un Ku Kluxer e Mussolini quasi un filantropo” (1961, 403). Sono grato a Paul Boytinck per aver portato alla mia attenzione questo passaggio.

[35] Nel 1944, in una lettera a Hayek che conteneva un commento a The Road to Serfdom, Keynes affermò: “La linea di argomentazione che voi avete preso dipende dal presupposto molto dubbio che la pianificazione non è più efficiente. Molto probabilmente dal punto di vista strettamente economico è efficiente” (Keynes 1980, 386). Che Keynes fece riferimento a questo punto di vista come un “presupposto” indica che non si rese mai conto del grande dibattito sul calcolo economico sotto il socialismo. La totale mancanza di analisi economica nei suoi rapporti dalla Russia Sovietica riporta alla mente la conclusione di Karl Brunner sulle idee di Keynes di riforma sociale: “Difficilmente uno potrebbe dire dal materiale dei saggi che uno scienziato sociale, persino economista, [li] abbia scritti. Qualunque sognatore sociale dell’intellighenzia potrebbe averli prodotti. Le questioni cruciali […] non vengono mai affrontate o esplorate” (1987, 47). Forse c’è qualcosa di vero nel giudizio del 1936 della sua buon amica Beatrice Webb: “Keynes non è serio sui problemi economici; con essi gioca una partita a scacchi [sic] nel suo tempo libero. L’unico culto che prende seriamente è l’estetica” (1985, 371). Per una valutazione di Keynes come “artista consumato,” oltre alle implicazioni scientifiche della sua teoria, consultare Buchanan 1987.

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